Capitolo II – STUDIARE I MERCATI ALIMENTARI: LINEE TEORICHE GUIDA
2. Corporeità e sensorialità come proposta metodologica etnografica
L’idea moderna di progresso nata con l’Illuminismo nel 1700 introdusse nel mondo europeo la fede nella ragione e una visione ottimistica dello sviluppo scientifico e tecnologico. La coniugazione tra ragione e modello sperimentale della scienza avrebbe portato alla scoperta non solo delle leggi del mondo naturale, ma anche di quelle di sviluppo sociale. Questa fiducia nella scienza e nel progresso scientifico-tecnologico e la progressiva affermazione della ragione come base dell’evoluzione sociale ha caratterizzato la cultura occidentale da allora e per tutto il secolo Novecento. Tuttavia, negli ultimi decenni è sorta la necessità di un ritorno al passato, alle origini, a scapito di una modernità percepita come incombente, invadente e oramai invalidante, e questi stessi sono i sentimenti che si stanno risvegliando in diversi ambiti. Un interesse sempre maggiore nei confronti di quei comportamenti che si allontanano dalla tensione verso il progresso, la modernità e la razionalità, e ritornano alla natura, al corpo e alla fisicità sensoriale, si sta realizzando concretamente.
Anche all’interno della nostra disciplina, per ovvie ragioni in linea con gli accadimenti storici e sociali, sono avvenuti cambiamenti paralleli. L’antropologia, che esordì nell’Ottocento come interpretazione dell’ideale moderno di oggettività, tramite l’uso statistico e i questionari, rappresentava, entro i suoi confini, la corrispondenza al modello positivista di quegli anni. Allora l’esperienza etnografica era vista come strumentale alla produzione teorica della disciplina e addirittura sviante dal lavoro di elaborazione teorica. Come affermava Lévi- Strauss, l’esperienza di campo provoca uno «spaesamento cronico» (1960:53), incidendo profondamente, anche a livello fisico, nella produzione di monografie valide per la comunità scientifica.
Abbandonando il suo paese, il suo focolare, per periodi prolungati; esponendosi alla fame, alla malattia, talvolta al pericolo; esponendo le sue abitudini, le sue credenze, e le sue convinzioni a una profanazione di cui si rende complice, quando assume, senza restrizioni mentali né secondi fini, le forme di vita di una società straniera, l’antropologo pratica l’osservazione integrale, quella dopo cui non esiste più nulla, se non l’assorbimento definitivo, ed è un rischio dell’osservatore da parte dell’oggetto osservato.
(Lévi-Strauss, 1967:62-63) In questa prospettiva, solo il metodo scientifico consente al ricercatore di sfruttare un’esperienza difficile da governare quale l’esperienza di campo. Per Lévi-Strauss, ancora, l’antropologia sociale deve la sua peculiarità al fatto di essere l’unico ramo della conoscenza che si avvale della «soggettività più intima come un modo di dimostrazione oggettiva» (ibidem). Da qui, la chiara subordinazione della soggettività all’oggettività che deve traspirare
dai lavori etnografici, tesi che ha portato lo stesso antropologo a eliminare l’esperienza di campo dalle sue opere teoriche.
Questa separazione tra soggetto e oggetto è stato ed è ancora tema di dibattiti e differenze metodologiche nel campo delle scienze sociali. A partire dalla differenza evoluzionista tra antropologi “da poltrona” e antropologi sul campo, continuando con la distinzione, testimoniata da Malinowski, tra la raccolta dei dati e l’elaborazione teorica, fino all’irrilevanza del caso specifico rispetto all’analisi funzionalistica della struttura vista in Lévi-Strauss; il ruolo della soggettività dell’antropologo non sarà più un tema secondario, anzi. Malinowski stesso, nonostante in Argonauti del Pacifico Occidentale (1922) rappresenti ancora un lavoro di tipo oggettivista e realista, fu il primo a sottolineare l’importanza fondamentale della ricerca sul campo e allo stesso tempo a rivelare, in modo quasi scandaloso, come il campo sia lo spazio di inevitabile riposizionamento personale, descritto senza filtri nei suoi diari di campo pubblicati posteriormente. Quest’ambiguità, che inaugura il metodo dell’osservazione partecipante ma ne svela, nell’intimità del diario, le condizioni emotive e relazionali, rimanda alla problematicità ancora attuale di come trasformare un’esperienza così personale in un resoconto scientifico.
Esemplare in questo senso la risposta di Clifford Geertz, che cerca di superare l’ideale positivistico per cui predominava l’oggetto. Il soggetto diventa centrale nel metodo, il quale, invece della ricerca delle leggi universali che regolano la vita sociale, si predispone all’esegesi interpretativa dei significati culturali. La forza dell’antropologia interpretativa,
fondata dall’antropologo, sta nel proporre lo studio della cultura dal punto di vista dei significati, e non dei dati, o meglio dei dati che richiedono di essere non solo descritti, ma di essere soprattutto “tradotti” nella lingua del ricercatore. Secondo Geertz, il metodo non è un processo estrinseco ma converge con l’oggetto e implica la fondamentale partecipazione del soggetto (1973:11-12).
La svolta interpretativa di Geertz si è storicamente dispiegata in una molteplicità di direzioni. In particolare ritengo interessanti per questo mio lavoro quegli orientamenti che, raccogliendo in chiave originale i suggerimenti prodotti dalle teorie interpretative della cultura, ne aggiungono una riflessione sull’etnografia come esperienza vissuta, e insistono sulla dimensione pratica, soprattutto corporea e sensoriale, e relazionale della ricerca sul campo. A partire dagli anni ‘90 del Novecento molti studiosi iniziano a parlare di incorporazione quale modo di pensare la soggettività e iniziano ad ammettere non solo la possibilità ma soprattutto la necessità teorica di un’antropologia che inizi dal corpo. Questo concetto di embodiment è stato centrale nella riflessione antropologica (Merleau-Ponty, 1945; Bourdieu, 1972; Csordas, 1990; Wikan, 1992; Ingold, 1994) e inizia a rappresentare un modello teorico ed epistemologico di un’antropologia nuova, piuttosto che un ambito di ricerca ancora da esplorare. Il testo fondante di questa prospettiva, prima opera in cui si pongono le basi per un’antropologia del corpo, è il saggio pioneristico di Marcel Mauss Tecniche del corpo, del 1936, che inaugura gli studi sulla corporeità come oggetto privilegiato di costruzione culturale. Con l’espressione “tecniche del corpo”, l’antropologo francese
intende: «i modi in cui gli uomini, nelle diverse società, si servono, uniformandosi alla tradizione, del loro corpo» (1977:385). E continua affermando:
Dico bene le tecniche del corpo, perché si può costruire la teoria della tecnica del corpo partendo da uno studio, da una esposizione, da una descrizione delle tecniche del corpo. […] In ogni caso bisogna procedere dal concreto all’astratto, e non viceversa.
(ibidem) Secondo Mauss, ogni società ha abitudini proprie per quanto riguarda gli atteggiamenti e l’uso del corpo, e tali abitudini sono di natura sociale. Quest’idea di abitudine come nozione sociale è definita habitus, e rappresenta l’insieme delle abilità che si realizzano attraverso l’uso del corpo, comprensibili solo tenendo conto del nesso indissolubile tra elemento sociale, psicologico e biologico, il «triplice punto di vista dell’uomo totale» (1936:389-390).
Anche il filosofo Maurice Merleau-Ponty offre un importante contributo teorico affermando che: «in quanto veicolo del nostro essere al mondo, il corpo è altra cosa rispetto al meccanismo senza interiorità cui l’ha ridotto la scienza» e ancora che: «il corpo precede la differenziazione tra soggetto e oggetto» (2003:130-147). Inoltre, a Merleau-Ponty si deve anche la definizione di “percezione”, ripresa dagli studiosi dei sensi, come «la conseguenza del filtraggio effettuato sull’interminabile scorrimento sensoriale cui l’uomo si trova immerso» (2003:152). Nell’opera che intitola proprio Fenomenologia della percezione, si comprende come i sensi siano ritenuti sempre presenti nella loro totalità. Il mondo scorre e l’individuo ne è immerso e sente la sinestesia tra il mondo e il suo corpo. E’ l’individuo a
mantenere il controllo sull’esperienza sensoriale ed è solo grazie alla dimensione del senso che si può evitare di restare spiazzati nel caos di questa totalità. «La percezione sinestesica è la regola» scrive Merleau-Ponty (ibidem, p.416), non è una somma di dati ma una ricezione globale del mondo che, in quanto tale, sollecita ininterrottamente tutti i sensi.
Tornando al corpo prima dei sensi, Thomas Csordas riprende le brillanti affermazioni di Merleau-Ponty nel suo testo Embodiment as a Paradigm for Anthropology (1990) ribadendo che nel corpo si può trovare la soluzione al problematico dualismo tra soggetto e oggetto, tra cultura e natura, ed esso diventa quindi il centro dell’analisi culturale. «This approach to embodiment begins from the methodological postulate that the body is not an object to be studied in relation to culture, but is to be considered as the subject of culture» (Csordas, 1990:5). Csordas denomina la sua prospettiva «fenomenologia culturale» e parla di «forme somatiche di attenzione» e di «riflettività» (1990:29), due concetti da lui coniati ed entrambi da mettere in pratica nell’incontro con l’altro. L’antropologo deve, in poche parole, usare il proprio vissuto ai fini etnografici, sfruttando la capacità di lasciarsi coinvolgere nell’esperienza altrui, facendolo in primis mediante il corpo.
L’implicazione corporea dello studioso sul campo diventa un prerequisito fondamentale per la costruzione della conoscenza: ecco come l’esperienza e la corporeità diventano assi portanti di una proposta metodologica che rinnova il concetto di “partecipazione”.
Non solo di corporeità, la visione della ricerca etnografica comincia ad arricchirsi più recentemente anche di sensorialità e atteggiamento pragmatico, in contrapposizione a una vigile razionalità come unica fonte di conoscenza. Il dubbio nascente sta ora nella considerazione del carattere personale e sensoriale dell’esperienza, quale causa di difficoltà o al contrario possibilità di risorsa conoscitiva.
Nell’introduzione al testo La scrittura dell’altro (2005), una raccolta di quattro saggi di Michel De Certeau sulla scrittura quale forma del sapere occidentale nell’incontro con l’altro, Ugo Fabietti e Silvana Borutti descrivono questo carattere problematico della disciplina come una opacità dell’altro, unendo la questione della legittimazione del sapere con la problematicità dei sensi e della loro origine. Questa problematicità sta nell’idea d’infondatezza del senso che esiste nel dibattito antropologico. La recente nascita del ramo dell’antropologia dei sensi si è mossa per dare una risposta positiva al quesito se il mondo sensoriale rappresenti oppure no il mondo reale e se contribuisca, quindi, alla conoscenza. Micheal Herzfeld risponde con un’antologia che procede analizzando i grandi temi dell’antropologia secondo una Pratica della teoria nella cultura e nella società, titolo della sua opera. Questa definizione, volutamente provocatoria, rileva l’importanza di una stretta convergenza concettuale tra teoria e pratica, alla ricerca di una «via media» in un’antropologia «con il mondo» (Herzfeld, 2006:XVII). Secondo l’autore, l’osservatore è idealmente sempre collocato nell’osservazione: lui, il suo corpo e tutti i suoi sensi, imprescindibilmente connessi. Il tono provocatorio continua, accusando gli antropologi di
presunzione nel voler capire il mondo nonostante l’etnocentrismo, la loro cornice interpretativa di riferimento, inevitabilmente presente. Il malinteso che esiste in ogni lavoro etnografico sta nella costante evidenza di questo etnocentrismo. Dato per assodato ciò, Herzfeld ritiene che l’antropologia si occupi proprio di malintesi, poiché essi sono il risultato di differenti «sensi comuni» (2006:94), i quali diventano il vero oggetto di studio dell’antropologia. E’ definito “senso comune” la comprensione quotidiana di come funziona il mondo, radicata sia nelle esperienze sensoriali (individuo) sia nelle pratiche politiche (società). Questa definizione è creata e contraddetta nelle righe della stessa pagina, considerata scorretta in antropologia, perché indicherebbe la ricerca di una forma socialmente accettabile di cultura, tanto variabile quanto sono le forme sociali e culturali.
Anche David Le Breton, uno dei più noti studiosi di antropologia del corpo, che molto ha da dire a proposito dei sensi, scrive riguardo l’inevitabile malinteso dell’occhio soggettivo con cui si guarda il mondo. Il mondo sensoriale, percepito attraverso una costante operazione di filtraggio degli stimoli esterni, non rappresenta il mondo reale ma la sua interpretazione, diventando mondo dei significati. «Di fronte al mondo l’uomo non è mai un occhio, un orecchio, una mano, una bocca, ma uno sguardo, un ascolto, un tocco, un modo di assaporare» (2006:38), e quindi un’attività individuale, sempre diversa. Nel suo imponente lavoro, che affonda concretamente ed elegantemente la presunzione di una conoscenza oggettiva, Le Breton conclude che:
il mondo è fatto della sostanza dei nostri sensi, ma si offre a noi attraverso significati che ne modulano le percezioni. Il compito di capire è infinito. Come il pittore o il musicista, l’antropologo non ha la pretesa di esaurire il proprio oggetto: lo sfiora soltanto, ponendo alcune questioni, ed è la sua unica ambizione
(2006:459)
Continuando con una breve esposizione dei lavori preliminari sull’ambito dei sensi, prima degli antropologi si pongono due studiosi dei mezzi di comunicazione: Marshall McLuhan e il suo allievo Walter Jackson Ong. In particolare l’idea promotrice di un’antropologia dei sensi di Ong, per la quale «data una sufficiente conoscenza del sensorium utilizzato in una cultura si potrebbe probabilmente definire la cultura virtualmente nella totalità di tutti i suoi aspetti» (1967:6) ha incoraggiato le successive ricerche nel campo.
In ambito antropologico, è nuovamente Lévi-Strauss pioniere dell’esplorazione dei codici sensoriali nel primo primo volume dell’opera collettiva Mytholoqiques (1964). Nella sezione intitolata Fuga dai cinque sensi de Il crudo e il cotto, pubblicato in italiano nel 1966, l’autore delinea in che modo le opposizioni tra le sensazioni possano essere trasportate, ad esempio, da quelle di un senso come l’udito a quelle di un’altra modalità di senso come il gusto, e come esse siano a loro volte collegate in coppie di opposizioni concettuali, quali natura e cultura o vita e morte, che tentano di risolversi nel pensiero mitico. Tuttavia,
l’antropologo strutturalista si limita all’analisi dei codici sensoriali dei miti senza conquistare il passaggio dell’analisi sensoriale della cultura nel suo insieme.33
Influenzato sia da MCLuhan che da Lévi-Strauss, Anthony Seeger (1975, 1981), ha analizzato in che modo i Suyà del Mato Grosso in Brasile classifichino gli esseri umani e le piante in relazione ai loro tratti sensoriali. Interessante, ad esempio, la connessione presunta tra l’odore ritenuto profumo delicato che caratterizza gli uomini e lo sgradevole odore penetrante che caratterizza le donne e i bambini, poiché contraria all’associazione tra uomo, donna e odori a cui siamo abituati in Occidente.
Nel campo dell’etnomusicologia, è Steven Feld a essere maggiormente influenzato dalla sensorialità (1982, 1986, 1991), esaminando il ruolo del suono nel pensiero classificatorio e nelle performances artistiche dei Kaluli della Papua Nuova Guinea. Feld stabilisce essere l’udito il senso al quale i Kaluli attribuiscono maggiore importanza culturale. Nei due lavori sopra citati di Seeger e Feld, si nota un ribaltamento nelle modalità di concepire i sensi rispetto al mondo occidentale, in cui vige il primato della vista. Inoltre, in ciascuno dei due casi, la spiegazione dei sensi e del loro primato viene trovata nelle forme delle teorie indigene di significato.
33 Per un lavoro più approfondito e una critica al limitato lavoro sui sensi di Claude Lévi-Strauss si
veda Classen Costance, 1993, Worlds of Sense. Exploring the Senses in History and Across Cultures, Routledge, Londra e New York, in cui Classen afferma che l’antropologo francese «è più rivolto a tracciare le operazioni della mente che ad analizzare la vita sociale dei sensi» (p.19 traduzione mia).
Nonostante le citate ricerche preliminari, l’antropologia dei sensi non nasce come campo d’indagine distinto fino alla fine degli anni Ottanta, quando Paul Stoller afferma la necessità per gli antropologi di «aprire i loro sensi ai mondi dei sensi degli altri» (1989:25, traduzione mia), argomentando che occorre produrre etnografie «di buon gusto (tasteful), vivide descrizioni letterarie di odori, sapori, cibo» (1989:29, traduzione mia), un chiaro invito agli antropologi ad allontanarsi dal visualismo occidentale. Per giungere a queste conclusioni, Stoller ha effettuato la sua ricerca presso i Songhay del Niger, esplorando l’importanza di aspetti quali il profumo, le salse in cucina e la musica, nella loro vita quotidiana.
Oggi, le grandi scuole dedicate allo studio dei sensi si dividono tra gli Stati Uniti, con Paul Stoller e Nadia Serematakis, e il Canada, con Constance Classen e David howes. I primi attuano un approccio più descrittivo ed evocativo nelle ricerche, dedicando spazio al legame tra mondo dei sensi e mondo dei ricordi. Serematakis afferma che, nell’intraprendere la strada di un’antropologia dei sensi, la sua intenzione è di riscoprire le «inclinazioni percettivo- sensoriali spesso nascoste, delle società tradizionali, recuperando in tal modo la memoria culturale radicata nei ricordi personali e negli artefatti materiali» (1994:9-12). Secondo la studiosa, in certi oggetti si può percepire l’«odore del passato», e si possono quindi, di conseguenza creare associazioni affettive tra immagini del passato ed esperienze del presente, nella descrizione del «paesaggio olfattivo di una data società» (1991:3-4).
Costance Classen (1993, 2013) e David Howes (1991, 2013), afferenti alla Concordia University di Montreal, esortano affinchè un numero sempre maggiore di studiosi persegua
un approccio sensoriale alla cultura, trasmettendo una visione ottimista ed entusiasta a riguardo. Uso il termine ottimista poiché esiste ancora la concreta difficoltà nella registrazione dei dati del mondo sensoriale, questo tra l’altro il motivo per cui lo sviluppo degli studi sui sensi è stato in passato inibito. Proprio per questo le future ricerche della Concordia University e altri, saranno essenziali.
Se precedentemente nelle parole di Silvana Borutti e Ugo Fabietti si parlava di opacità dell’altro, l’approccio nascente grazie ai sensi è spostato ad una visione positiva, in cui si considera l’antropologia come una chiara pratica della differenza, e non dell’identità, e per questo ci si può e deve permettere una sorta di diritto all’opacità nelle lenti con cui si guardano le altre culture, e l’antropologia dei sensi si muove in questo senso. L’espressione “antropologia dei sensi”, tuttavia, marginalizza come specialistico un argomento che dovrebbe essere di centrale interesse per uno studio comparato delle culture e delle società. Il rischio, altrimenti, è che i sensi rimangano marginali nella descrizione etnografica. Tutta l’antropologia dovrebbe, invece, riconoscersi come interessata alla sfera sensoriale, non solo perché è la prima a entrare in gioco una volta sul campo ma anche perché è il parametro con cui noi antropologi misuriamo l’incontro con l’altro e con una diversa gamma di semiosi culturale, qualunque siano le domande di ricerca che ci poniamo prima dell’esperienza di campo. La proposta è, quindi, di adoperarsi per la costruzione di un’antropologia che parta dalla sfera corporea, in senso specificamente etnografico. Il passaggio dall’incorporazione come oggetto di analisi, all’incorporazione come metodo di ricerca sta gradualmente
avvenendo. Lo stesso antropologo si sottoporrà a un processo di apprendimento sensoriale ogni qualvolta intraprenda una ricerca, come auspicato da Paul Stoller nelle sue parole:
E’ veramente fondamentale incorporare nei lavori etnografici la sensorialità del corpo- i suoi odori, i suoi gusti, il suo aspetto, le sue sensazioni. Tale inclusione riveste una particolare rilevanza nelle descrizioni etnografiche della società in cui la nozione eurocentrica di testo- e di interpretazioni testuali- non è importante. Ho sottolineato altrove perché è importante, a livello concettuale e analitico, considerare in che modo, nelle società non occidentali, la percezione si dispieghi non solo dalla visione (e dalle connesse metafore della lettura e della scrittura), ma anche dall’odorato, dal tatto, dal gusto e dall’udito. In molte società questi sensi minori, che nel loro complesso reclamano a gran voce una descrizione sensoriale, sono centrali per l’organizzazione metaforica dell’esperienza.
(1997: XV-XVI)