Capitolo I – CONOSCERE SINGAPORE
4. Eterogeneità sociale, teorie politiche e prassi: il modello CMIO
Il 9 agosto 1965, in conclusione della conferenza stampa in cui annunciò la scissione dalla Malesia, Lee Kuan Yew dichiarò:
There is nothing to be worried about. Many things will go on just as usual. But be firm, be calm. We are going to have a multiracial nation in Singapore. We will set the example. This is not a Malay nation, this is not a Chinese nation, this is not an Indian nation. Everybody will have his place: equal; language, culture, religion.
(Lee, 196521) La chiamata di Lee Kuan Yew per l'unità nella diversità della società singaporiana rimane pertinente mezzo secolo più tardi. Già nei primi anni della fondazione e, come abbiamo visto, ancor prima, l’eterogeneità sociale nel territorio di Singapore fu una delle sue caratteristiche storiche principali.
Durante una visita al National Museum di Singapore, nell’esibizione permanente sulla storia del paese, notai un quadro, The Esplanade from Scandal Point (fig.5), che testimoniava
21Registrazione audio. Testo in Transcript of a press conference given by the Prime Minister of Singpapore Mr. Lee Kuan Yew, National Archives of Singapore (si veda URL in sitografia).
questa eterogeneità già nel 1800 e ritengo che, se esistesse una fotografia degli anni addirittura precedenti, avremmo la stessa visione: diversi gruppi che svolgono le loro attività nella quotidianità di Singapore. Il dipinto, realizzato da John Turnbull Thomson (1821-1884), funzionario del governo inglese negli insediamenti orientali e artista autodidatta, mostra gli abitanti di Singapore che si rilassano nel padang, malese per pianura. Grazie a questo documento artistico si può vedere non solo come appariva la parte coloniale della città nel 1851, ma anche chi vi si trovava e le attività che vi si svolgevano. Scandal Point, una piccola collina ai margini del padang, prese questo nome perché era il punto di ritrovo delle persone, che si riunivano lì per parlare delle notizie del giorno. Descrivendo brevemente l’opera come fece la guida del museo e come riportano le spiegazioni nel sito della National Heritage Board di Singapore: al centro del dipinto è rappresentata una famiglia con un uomo che tiene una lancia, considerati essere gli indigeni dell’isola. Sulla destra un gruppo di arabi, che nel XIX secolo migravano dallo Yemen verso Java e Sumatra per motivi commerciali. Un’altra famiglia che si vede nel dipinto è cinese, probabilmente migrati dal sud della Cina e stabilitesi nel territorio. La loro capacità di parlare hokkien (dialetto cinese del sud) malese e inglese permise loro di lavorare con successo come interpreti per i gruppi di commercianti cinesi e inglesi. Tutti gli edifici nel quadro, realmente realizzati, sono stati progettati dall’architetto George Coleman, il quale si rese conto ben presto che Singapore richiedeva maggiore manodopera. La soluzione fu di portare i detenuti indiani delle prigioni inglesi dall’India a Singapore. A loro si deve la costruzione di strade, edifici e ponti, molti dei quali sono oggi
ancora in piedi. Sui cavalli e nella carrozza aperta sono raffigurati gli inglesi. Dietro di loro, la scena di due attività sportive, una partita di cricket e la versione malese del calcio. Sullo sfondo vi è una fila di edifici coloniali: il Palazzo del Governo, il palazzo di giustizia sulla sinistra, la Chiesa armena e la Chiesa di Sant'Andrea (l’odierna Cattedrale di Sant'Andrea)22.
Allo stesso modo in cui guardai quel quadro il giorno della visita al museo, ricordo nuovamente il giorno in cui arrivai a Singapore, nel tragitto in metropolitana tra l’aeroporto e la mia nuova casa. Osservavo le persone nel vagone, una famiglia che allora definii indiana e altri che mi sembravano, invece, cinesi. Se ci fosse stata anche in quel caso una guida pronta a descrivermi ciò che stavo guardando, mi sarei resa conto subito che stavo compiendo un errore: in quel vagone erano, infatti, tutti singaporiani. Ma cosa vuol dire essere singaporiani? Parlando d’identità, ognuno saprebbe definire in cosa consiste la propria. Io, ad esempio, sono italiana perché vivo nel territorio italiano, parlo la lingua italiana, condivido la storia del paese con gli altri italiani, e così via. Ma in che modo si può parlare d’identità singaporiana in uno stato che è diventato tale a partire dalle migrazioni nel territorio da altri, molti, paesi vicini e lontani, e che ha al suo interno una popolazione composta da diversi gruppi etnici, ognuno con la propria storia? L’eterogeneità in questo pezzo di mondo è tale, che Singapore rappresenta un’eccezione rispetto agli altri paesi colonizzati del mondo, poiché nel suo caso la varietà etnica fu scritta nella Costituzione nei primissimi momenti della fondazione dello
stato. Nella prima sessione del primo Parlamento il 22 dicembre del 1965, il ministro per la legge e lo sviluppo nazionale Mr Edmund William Barker annunciò:
One of the cornerstones of the policy of the government is a multi-racial Singapore. We are a nation comprising peoples of various races who constitutes her citizens, and our citizens are equal regardless of differences of race, language, culture and religion… To ensure this bias in favour of multi-racialism and the equality of our citizens, whether they belong to majority or minority groups, a Constitutional Commission is being appointed to help formulate these constitutional safeguards.
(Barker, 1966:1) Da allora, l’ideologia “multirazziale”23 è stata incorporata come logica di base per molte politiche pubbliche. Tuttavia, mentre apparentemente erano volte a preservare le culture dei vari gruppi e mantenere l'armonia culturale, queste stesse politiche pubbliche sono in parte, come sosterrò, usate come sistema di controllo sociale, con esempi anche nell’apparentemente ambito neutro degli hawker centres (cfr. paragrafo 5). La popolazione di Singapore si compone del 76.2% di cinesi, del 15% di malesi, del 7.4% di indiani e il resto, circa un 2%, di altre nazionalità, raggruppati sotto la definizione di Others 24. Da qui deriva la categorizzazione nel sistema CMIO: Chinese, Malay, Indians e Others. Ogni cittadino dell’isola è tenuto a riportare nel documento d’identità il suo gruppo di appartenenza, alla voce Race. L’uso del termine “razza” richiede qui una spiegazione.
23 Termine usato dai singaporiani, sia in sede informale che formale, nei discorsi pubblici. In accordo
con la definizione di Benjamin: «Multiracialism is the ideology that accords equal status to the cultures and identities of the various ‘races’ comprising a plural society» (1976:67).
Solo dopo l’esplorazione, agli inizi del XX secolo, della grande diversità di forme culturali all'interno e tra i gruppi razziali, le idee sull’esistenza di una razza, prima e pura, furono allontanate dalla rispettabilità scientifica. Il merito di questa conquista si deve in gran parte a Franz Boas, che ha insistito sull’assenza di relazione causale tra razza, lingua e cultura (Boas, 1940). Da quel momento in poi, nell’ambito dell’antropologia culturale, il punto di vista razzista fu sempre sfidato e sconfitto, e fino ad oggi la maggior parte degli antropologi si è affidata alla ricerca dell’eliminazione di ogni tipo di discriminazione culturale. Oggi, si continua il dibattito iniziato all’epoca e, nell’area di Singapore, Geoffrey Benjamin ha dato il suo contributo nel definire i principi etnologici chiave per comprendere il suo saggio sul “multiracialism” a Singapore, affermando che il maggior contributo dell’antropologia moderna sta nella dissoluzione del nesso ritenuto causale tra razza, cultura, linguaggio, società e contesto (Benjamin, 1976:117). Il sinonimo da lui usato per il termine “razza” è “genogruppo” o “gruppo genetico”(«genogroups», ibidem). Inoltre, viene data indipendenza alle categorie di “razza” e cultura, nonché a quelle di cultura e etnia:
Scholars and laymen commonly believe that ethnic labels denote objectively delimitable packets of cultural and genetic variations. […] Indeed, this analogy is by no means far-fetched: ethnic labels in this sense are little more than names – labels of a primordial group identity, which derive in the first instance from an imposed, externally derived set of cognitive categories rather than from the cultural ‘facts’ on the ground.
In Sud-est asiatico, come sottolineato anche dallo stesso Benjamin, dove storicamente i gruppi sociali si sono incontrati e contaminati, gli individui non sono necessariamente limitati ad un sola, invariata, identità etnica dalla nascita. Soprattutto nel caso di Singapore vi è spesso la possibilità di scelta rispetto a quale gruppo etnico si decide di far parte. Un esempio evidente di questa possibilità è l’ambigua Bilingual Policy del sistema educativo singaporiano. Essa non è primariamente, come potrebbe sembrare, la risposta al bisogno di comunicazione inter-etnica in una società multilingue, poiché non si limita alla conoscenza dell’inglese per tutti come prima lingua. Essa enfatizza, invece, il bisogno di classificare ogni individuo singaporiano in una bilancia culturale, che obbliga allo studio della “lingua madre” della cultura originaria come seconda lingua, sia essa cinese, tamil (il dialetto indiano maggiormente parlato a Singapore) o malese, e nonostante la lingua parlata in casa possa già essere l’inglese. Come se per giustificare l’appartenenza a quel gruppo si pesassero su una bilancia tutte le azione compiute per immergersi completamente nella sua cultura tradizionale, anche nel caso di appartenenza da lontane generazioni, da decenni residenti a Singapore. Se questo è il sistema in via teorica, nella prassi ci sono comportamenti diversi. Non sono rari, infatti, i casi di matrimoni tra persone dai backgrounds differenti, casi in cui «the choice of language can be a serious source of parental disagreement and/or economically determined strategic decision» (Chua, 2005:61). Nel caso del figlio di una coppia formata da un padre indiano e una madre cinese, ad esempio, la regola dice che ai figli è assegnata la “razza” del padre, ma possono scegliere di studiare la lingua della madre. Tra lo studio del tamil o del
mandarino, tuttavia, è molto più probabile la seconda scelta, poichè Singapore è un paese a maggioranza cinese, e la conoscenza della lingua è vista come spinta in più nel futuro lavorativo ed economico. La faccenda si fa ancora più complicata nel caso in cui la lingua madre sia un dialetto, come ad esempio il cinese hokkien. Anche qui l’assurdità sta nell’obbligo di scelta tra la lingua parlata nella “razza” del padre oppure il mandarino, non essendo previsto lo studio dei dialetti minori dei gruppi. Una grande confusione e difficoltà nel gestire una tale situazione sociale vuole essere sottolineata in questi esempi. La tanto teorizzata coesione sociale attraverso politiche che invadono ogni aspetto della vita dei singaporiani, dai matrimoni alla scuola, dal lavoro ai servizi sanitari, si scontra con la prassi in cui questa confusione viene costantemente a galla.
L’ideologia di armonia multirazziale, nel modello CMIO, come base dell’operato politico sta quindi, forse, fallendo, creando al contrario disuguaglianze sociali? Non spetta a questo lavoro rispondere a questa domanda ma è interessante rifletterci, per eventuali ulteriori studi sull’argomento. Quello che, tuttavia, ho personalmente scoperto grazie a questa ricerca, è che la valorizzazione delle culture di origine, da me discussa nel dettaglio nel contesto culinario degli hawker centres, come conseguenza della volontà di unire i cittadini in un’unica identità singaporiana, ha portato contrariamente alla grande enfatizzazione delle differenze. Nella mia vita quotidiana a Singapore ho avuto testimonianza diretta di ciò nel parlare con le persone, le quali si definivano singaporiane, ma aggiungendo sempre cinese, malese, indiano, o altro alla loro cittadinanza, percepita in alcuni casi di minore importanza rispetto
alla nazionalità di origine. Inoltre, venendo da una regione dell’Italia, il Veneto, in cui l’immagine del diverso, dell’immigrato, è spesso descritta attraverso stereotipi culturali, mai mi sarei aspettata di ritrovare gli stessi comportamenti in un paese ai miei occhi entusiasti così cosmopolita e variopinto. Ricordo, a questo proposito, la mia seconda sera a Singapore. Yin Wei mi portò a cena a casa di un suo amico insieme ad altri amici, tra cui un ragazzo singaporiano malese, di nome Fadhli. Durante la serata notai il costante uso di battute nei suoi confronti, in quanto malese, e le sue risposte agli amici singaporiani cinesi non si facevano attendere. Si trattava chiaramente di una dinamica di gioco consapevole tra amici, tuttavia ciò rifletteva la presenza di reali stereotipi, conosciuti e, in qualche modo accettati. Stereotipi che, una volta ammesso il mio stupore, il gruppo mi elencò in una sorta di gara a chi ne ricordava di più. Un altro esempio è una conversazione avuta con Steven, uno dei lavoratori del mercato studiato Dunman food center, il quale un giorno mi allertò del rischio di mangiare nei chioschi di cucina indiana, perché «dirty and dangerous», e mi raccontò l’episodio, riportato dalle cronache locali di una donna che si ammalò di salmonella dopo aver mangiato un roti prata (pane indiano) inquinato di feci, perché «they go to the toilet, they clean themselves with their left hand, and they just keep touching food, without washing hands!» (conversazione con Steven, 7 dicembre 2016). Selvaraj Velayutham, ricercatore della Macquaire University of Australia, scrive un saggio intitolato Everyday racism in Singapore, in cui racconta l’aneddoto di un parlamentare singaporiano cinese che nel 1992, parlando in aula, raccontò di essersi recato a Little India in una sera buia, non a causa dell’assenza di luci
ma per la presenza di troppi indiani attorno. Al fatto che a questo episodio non venne esternato oltraggio pubblico, Selvaraj commenta che: «[It] seems to suggest that there was tacit approval of his comments by other members of parliament» (Selvaraj, 2009:255-273). A prima vista, gli aneddoti presentati potrebbero sembrare esempi di poco conto. Tuttavia si tratta di episodi che vanno di pari passo con l’ambiguità quotidiana nella prassi delle politiche per gestire la varietà culturale del paese, e che, se non riconosciuti o eliminati, possono diventare pericolosi per la stabilità sociale.
Alla luce delle informazioni date e discusse a questo punto, mi permetto di introdurre una prima conclusione alla domanda su una possibile e definibile identità singaporiana. Se nelle prime settimane di campo ipotizzavo che il successo di Singapore stava proprio nella sua popolazione eterogenea, nella quale vedevo la possibilità di una marcia in più, e della quale mi è stato più facile sentirmi parte, proprio perché mi sentivo diversa ma in un ambiente dove l’unicità culturale non è contemplata; alla fine della ricerca ho scoperto, al contrario, le difficoltà di un contesto di questo tipo, in cui l’armonia culturale è solo di superficie. L’identità singaporiana è di difficile definizione per i singaporiani stessi, i quali tentano continuamente di scoprirla, trovarla o ri-trovarla. Ri-trovarla perché esiste la consapevolezza che un tempo la loro identità fosse più evidente, un tempo in cui Singapore riusciva ancora a tenersi distante dalle influenze occidentali, viste come la causa della graduale perdita del suo spirito identitario, tempo che ricordano con nostalgia. Nei capitoli successivi proverò a sostenere che la difficoltà nel definire l’identità di questa nazione non è solo specifica del suo
caso, ma è la conseguenza dei normali movimenti sociali che riguardano ogni parte del globo, in cui i gruppi non sono chiusi, e i contatti causano inevitabilmente modifiche e aggiunte ad un’identità ipotizzata primaria, ma che nemmeno essa può essere prima e pura. Discutendo gli interessanti lavori sul tema di Francesco Remotti e Ugo Fabietti cercherò di ribadire che le identità sono fluide e che non è giusto che esista la volontà di fissismo culturale, poiché impossibile alla base. Gli hawker centres, finalmente al centro della discussione nel paragrafo successivo, hanno acquistato, soprattutto negli ultimi anni, il ruolo di simbolo dell’identità singaporiana, che, se da un lato è, sì, di difficile definizione concettuale, dall’altro è fisicamente riprodotta in questi luoghi.