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Che uomini i corsari! Che brusca e nervosa vegetazione forma- no sul fondo monotono della specie civilizzata! La terra ha i suoi briganti, i suoi contrabbandieri e i suoi bravi, con le loro avventure romanzesche, i loro incontri letali, e la morte talvolta eroica. Ma il mestiere dei marinai è solo vile o colpevole, e niente potrebbe riscattare agli occhi della società, l’abiezione di un Cartouche o di un Mandrin. Un corsaro, un filibustiere e persino un pirata può invece dare prova di incredibile audacia e rendere luminosa e fiera persino la sua ira.

Il corsaro soprattutto, combattendo contro il nemico impaurito, serve il paese che gli consente di esercitare la sua rapacità sui mari dove sventola la bandiera onorata e dove la riconoscenza nazionale ha confuso, con la stessa ammirazione, Duguay-Trouin e Jean-Bart, che furono pirati, con Touville e Suffren, il cui sangue generoso scorse solo sulle navi dello Stato.

Come in certe poetiche vite da artista, tra quegli uomini di pie- tra ci sarebbero strani e foschi colori da cogliere dai loro stessi costumi, per dipingere sulla tela lo sprezzo della morte, la sete di depravazione, l’amore del pericolo e della gloria! Che truce fi- losofia in un’esistenza così forte, così rapidamente consumata e così spesso offerta alle tempeste, ai combattimenti e al naufragio! Che selvaggia nobiltà nella prodigalità, nello sperpero delle ric- chezze, dell’energia, e dei loro giorni! Come spiegare l’avidità del

saccheggio e il disinteresse per l’oro che hanno macchiato con il loro sangue!

Il porticciolo di Roscoff, dove sbarcavamo dopo la nostra pro- dezza incendiaria, era un appuntamento per tutti i corsari che si rifugiavano nel canale dell’isola di Batz inseguiti dal nemico o sfi- niti dalle tempeste dell’inverno. Il canale, largo una mezza lega e profondo qualche braccio, nel suo nucleo è solo uno stretto natu- rale che, irto di rocce alle estremità, separa da est a ovest l’isola di Batz da Roscoff sulla terraferma. Gli incrociatori inglesi si teneva- no a vista da questo comodo punto di approdo, spiando l’uscita dei brigantini, dei cutter, dei lougre e delle golette, sempre pronti, con il vento a favore, ad abbandonare il proprio rifugio per cercare fortuna in tutti gli angoli e i recessi della Manica.

L’avventura con la corvetta e le sue chiatte, trasmessa di bocca in bocca, e accresciuta per la nostra gloria dall’esagerazione di tutti coloro che la raccontavano, contribuì a diffondere, su me e Ivon, una luminosa reputazione. I marinai ci accolsero con la più cordia- le premura e con un certo orgoglio. Gli abitanti ci guardarono con sorpresa mista ad ammirazione e il travestimento maschile di Ro- salie, di cui non si mancò di fare un’amazzone marittima, divenne sin dal primo giorno ciò che doveva diventare in una piccolissima città: un caso di cui tutti parlavano. Il commissario di marina al quale gerarchicamente ci saremmo dovuti presentare sin dall’arrivo per fare rapporto, fu costretto a riceverci con gli altri uomini della nave catturata. Senza farci sentire troppo la scorrettezza di quella dimenticanza, ci invitò a informarlo di ogni dettaglio relativo al no- stro naufragio; certo, aggiunse, che l’Imperatore avrebbe ascoltato compiaciuto un avvenimento così onorevole per i suoi sudditi. La relazione di Ivon fu subito dettata al segretario incaricato di tra- scriverla: “Abbiamo un capitano della preda, disse mostrando Bon

-Bord, ubriaco fradicio di giorno come di notte. Una corvetta ci

caccia sugli atterraggi. Mentre cerco di indirizzargli qualche palla di cannone, quell’animale di capitano, parlando con rispetto, ci af- fianca a filo di costa sopra un banco di rocce che gli accecavano gli occhi e dove le ragazzine dell’Isola di Batz pescano le cozze quan- do c’è bassa marea. Dopo che il branco di farabutti qui presente

aveva abbandonato la nave, il piccolo Léonard, rimasto solo con me, ha deciso di far saltare la barca con un mozzicone di candela da due liardi e gli inglesi hanno pagato con il fuoco, disperdendosi nell’aria come vere e proprie scintille. Il resto lo conoscete e sareb- be dunque inutile ripeterlo”.

Durante il racconto del mio compagno di glorie mi ero quasi ad- dormentato sulla sedia che il commissario mi aveva generosamen- te offerto. La prostrazione prevalse sul piacere che avrei dovuto provare ascoltando Ivon che rendeva la testimonianza ufficiale del mio valore ancora più strepitosa. Il commissario, strappandomi al sonno con un sorriso, mi chiese il cognome, il domicilio di famiglia e mi invitò a farmi vivo spesso, cosa che feci durante il soggiorno a Roscoff. Buttandoci in mare per scappare agli inglesi, abbiamo fortunatamente messo in salvo con noi una parte delle piastre che ci erano toccate dalla spartizione dei barili di argento a bordo del

Sans-Façon e che avevamo imbarcato a bordo della preda.

Nel corso della traversata, avevamo indossato giorno e notte un cintura nella quale avevamo cucito i contanti, usanza utilizzata dai marinai per portare addosso tutto ciò che posseggono di più caro. Esposti incessantemente a ogni pericolo si adoperano a salvare la propria vita insieme a ciò che può contribuire a sostenerla o rispar- miare l’umiliazione di mendicarla.

Il filosofo Ivon, non tardò a utilizzare i barili che aveva strappa- to al naufragio. Iniziò ordinando abiti da gran signore, dalla testa ai piedi, com’era solito dire, e così eleganti da potersi fare una po- sizione a Roscoff.

Acquistò poi, al prezzo che gli si volle far pagare, tre o quat- tro orologi che sistemò alla cintura, la cui pesante catena sbatteva sull’addome in modo più scomodo che grazioso. Portava sempre con sé un ombrello, e le mani incatramate erano ricoperte da un bel paio di guanti bianchi. A vederlo così addobbato e agghindato si poteva immaginare che andasse a un matrimonio, o piuttosto che vi tornasse, poiché non aveva smaltito la sbornia nonostante il contegno che gli derivava dall’abbigliamento ricercato con cui si mostrava dalla mattina alla sera agli abitanti del luogo. Rosalie aveva indossato nuovamente abiti femminili. Non l’avevo mai vi-



sta così provocante come con il cappello di seta che le disegnava graziosamente il visino stanco, reso ancora più bello dall’aria re- spirata a terra. Si occupò del mio abbigliamento, che trascuravo in modo imbarazzante, e si impegnò con perseveranza a farmi vestire in modo meno grottesco del marinaio Ivon.

– “E ai tuoi genitori non pensi più?”, mi chiese qualche giorno dopo il nostro arrivo. “Non hai mai riflettuto sulle terribili preoc- cupazioni che tua madre ha dovuto sopportare per un figlio che non ha più dato notizie di sé?”

– “Ora piange per te come se ti avesse perso per sempre, e non hai ancora pensato, figlio crudele, a pronunciare la parola che le restituirà il riposo e forse la vita!”

– “Già – risposi – amo mia madre alla quale ho causato, come dici tu, molti dispiaceri, ma sarebbe uno sforzo enorme scriverle. Non ho mai scritto una lettera, e non so bene come chiedere per- dono ai miei genitori per averli abbandonati”.

– “Dunque! Se ti confessassi che ho inviato a tuo padre una lettera molto supplichevole al tuo posto, cosa diresti?”

– “Direi che hai fatto bene, meglio di quanto avrei potuto fare io”.

– “E non mi abbracci anche solo per ringraziarmi? Non vuoi più bene ai tuoi genitori?”

Abbracciai ancora una volta Rosalie.

– “Ma cosa credi che ci risponderà tuo padre? – mi chiese. – Questo sì che mi preoccupa”.

– “Risponderà quel che vorrà – dissi – questo non mi spaventa”. – “ Per fortuna dici di tenere ancora alla tua famiglia!”

– “Certo, ci tengo; come un bambino che le è sempre affeziona- to, ma che sente di poterne fare a meno. Ci tengo, a modo mio, e per quanto mi è possibile. In una parola, come tengo a te”.

– “Dunque, a modo tuo, mi ami ragazzaccio?”

Dopo queste conversazioni, spesso Rosalie mi prodigava tenere carezze alle quali rispondevo con effusioni da bambino, sufficien- ti alla mia felicità, e credo anche alla sua, perché il legame che il caso e l’età avevano fatto nascere nei nostri cuori era disinteressato da parte di entrambi. Non cercava in me un amante. Con il sen-

timento che involontariamente le ispiravo, diceva di poter fare a meno dell’amore degli altri uomini. In seguito, le ho spiegato la singolarità della simpatia e della riservatezza, che ci faceva incon- trare e provare, entrambi così giovani, tanta felicità da un’unione che non prevedeva il coinvolgimento dei sensi. All’epoca non era- vamo coscienti di ciò che nutrivamo, e spesso abbiamo ammesso che i momenti più piacevoli del nostro amore erano quelli in cui ci amavamo con tutto il candore e la tenera vivacità di un legame fraterno.

La gentilezza, le grazie di quella che era considerata la mia amante, e forse anche la reputazione che si era fatta per la rela- zione con un adolescente, attirarono attorno a lei i capitani e gli ufficiali più focosi. Tutti e tre abitavamo in una piccola locanda denominata iperbolicamente Hotel Tirard. Nell’alloggio c’erano due biliardi, logorati dall’uso, che in quel momento non avevano molti giocatori, ma che diventarono poco a poco l’appuntamento fisso per i galanti filibustieri che gironzolavano attorno a Rosalie. Il signor Tirard, colui che aveva onorato il locale dandogli il nome, ripeteva soddisfatto che se la moda fosse continuata, lo avrem- mo reso ricco. Questa confessione fu come un’illuminazione per Ivon.

– “È necessario – disse – che la signorina Rosalie faccia qualcosa con il suo corpo e che non si accontenti più di lavorare stupida- mente per gli affari degli altri. Quando può e senza troppa fatica, deve pensare ai propri profitti”.

– “Come, fare qualcosa con il proprio corpo? Cosa significa?” – chiesi a Ivon, che, come si sa, aveva voluto che gli dessi del tu.

– “Devo puntualizzare che è arrivata l’ora di lavorare. L’uomo e la donna, come insegnano le Sacre Scritture, sono stati creati e messi al mondo per utilizzare le quattro dita e il pollice”.

– “Di cosa vorresti che si occupasse?”

– “Di tener bottega in lungo e in largo, davanti o dietro, poco importa, basta che si occupi di qualcosa”.

– “Sai, ci avevo già pensato. Con i soldi che mi rimangono, pos- siamo aprire una piccola bottega di cuffie e nastri...”

– “Pessima idea! Soprattutto in un buco di topi come Roscoff.



La maglieria e la merceria si classificano come merce alla moda e chi dice mercante di moda dice immoralità patentata con vetrate che danno sulla strada”.

– “E se le facessimo vendere articoli di merceria o di bigiotte- ria?”

– “Peggio ancora! Vendere spilli a persone che corrono scollac- ciate e aghi a femmine che in tutta la vita non hanno mai cucito? Questo non è proprio un mestiere. Cerca qualcosa di meglio”.

– “Alimentari?”

– “Troppo comune, e in inverno fa arrossire le mani e la punta del naso. Devi mirare ancora più in alto per fare centro”.

– “E cosa mai potrebbe fare secondo te?”

– “Potrebbe aprire un piccolo caffè e vendere a caro prezzo tutti i bicchieri di grog, punch e rum che riusciremo a bere. Inol- tre, commercerebbe del buon tabacco per le pipe, barzellette varie, scatole di fiammiferi, accendini, cianfrusaglie, eccetera”.

– “Ma sai che per vendere tabacco è necessario ottenere una licenza dal Governo?”

– “Sì, per vendere cattivo tabacco è necessario il permesso delle autorità; ma per trafficarne del buono e senza l’autorizzazione di chi di diritto, non occorre licenza. Insomma, si fa contrabbando e a Roscoff, te lo posso garantire, non mancano truffatori pronti a commerciare illecitamente. Lo farò anche io quando mi converrà. Ma parlando di contrabbando, forse non hai notato come i corsari si destreggiano sotto le gonne della tua buona amica?”

– “Oh certo che sì! Forse più di te e prima che lo notassi tu”. – “Dai figliolo, apparentemente hai l’occhio più americano del mio. Ma dato che sembrano così interessati, ho pensato che sareb- be necessario far pagare una tassa di ancoraggio nella rada, dove abbiamo piazzato la nostra piccola corvetta armata, per il momen- to in stazionamento. In poche parole ecco il mio piano, ascolta bene. Suppongo che quando le avremo aperto un bar con cinque, sei mesi di provvigioni, la baracca sarà sempre piena, stanne certo. Rosalie farà buon viso a ciascuno, e dovrà dire buonasera a tutti ogni volta che le si vorrà augurare il buongiorno troppo da vicino. Il piombo cadrà sul suo bancone mentre la consumazione scenderà

nella nostra gola, e i contadini, se ciò li diverte, si leccheranno i baf- fi con il dorso della mano sinistra. Cosa pensi di questo piano?”

– “Dico che bisogna prima parlarne con Rosalie. In attesa del suo parere, mi permetto di farti notare che il mestiere di mercante di vestiti, che trovi immorale, non vale meno di quello dell’ostessa, per quanto riguarda la condizione, si capisce”.

– “La donna che vive in mezzo agli uomini, mi rispose il morali- sta, non è più debole. Al contrario è quella che, seduta dalla matti- na alla sera sulle sue natiche, con l’ago in mano e l’occhio rivolto in strada, incontra nella nebbia notturna gli uomini a cui ha fatto l’oc- chiolino tutto il giorno”. Consultammo Rosalie. Dopo una lunga e matura discussione, Ivon accettò il progetto. Ci mettemmo subito in moto per reperire un locale. Trovammo una buona occasione, una casetta carina a due piani, con al primo un salotto spazioso e una bottega davanti. Con il proprietario stipulammo un contratto di tre anni, pagammo l’anticipo ed entrammo immediatamente in pieno possesso. Fu necessario poi trovare un nome al nuovo bar. Per questa importante decisione, Ivon prese la parola durante una riunione collegiale.

– “Cosa ne pensate – disse – se lo chiamassimo il bar dei Tre

Amici?”

– “Forse è un po’ troppo banale, rispose Rosalie, e poi è certo che siamo tre buoni amici; ma io sono vostra amica e non vostro amico, e l’insegna non esprimerebbe o esprimerebbe troppo ciò che non conviene esporre”.

Rosalie mi guardava azzardando l’ultima parola con un timido sorriso che Ivon comprese benissimo.

– “Capisco, capisco la malizia, disse... basta!... C’è un nome da imbrattare con fierezza e con lettere dorate sull’insegna”.

– “Quale?” – chiesi –.

– “Dai Corsari, per esempio”.

– “Ma questa parola che utilizziamo tra noi, non è francese”. – “Perché non usare un termine francese”?

– “Perché non lo è e non lo si trova in nessun dizionario”. – “Tutti però dicono corsaro per indicare la nave, e corsari per intendere coloro che fanno la corsa”.



– “Hanno tutti torto”.

– “Quando tutti hanno torto, non hanno forse tutti ragione di avere torto”?

– “Solo il dizionario attesta l’uso delle parole che possiamo uti- lizzare”.

– “Cosa mi importa del dizionario? E poi chi mi potrebbe im- pedire di usare il termine corsaro quando voglio? Il tuo dizionario è stato forse scelto in nome dell’Imperatore e Re affinché lo si adotti nelle ventiquattro ore”?

– “No, ma quando si parla di lingua bisogna avere un riferi- mento”.

– “Se un capitano di vascello, un contrammiraglio e un prefetto marittimo dovessero venire qui per dirmi che il termine corsaro non è francese, risponderei che forse è più francese di loro, e non può essere diversamente”.

– “Come vuoi. La mia osservazione non ti deve contrariare, e se solo avessi pensato che arrischiandola...”

– “Non mi arrabbio affatto, porca M...; ma quando un termine è buono per la maggioranza, è sempre abbastanza francese per tutti coloro che lo ascoltano... In definitiva, ho appena detto una cosa che dimostra meglio del tuo stupido dizionario che questo nome non può andare bene. Di fatto utilizzando Dai Corsari, tutti gli ufficiali e i capitani di preda di Saint-Malo potrebbero crede- re, essendo corsari come noi, che per loro avremmo ingannato e messo sotto chiave, dietro il bancone di un bar, una bella donna. E dato che sono abbastanza puzzolenti, non dobbiamo dargli la soddisfazione di avere ragione, dimostrando di non aver voluto lavorare per il loro gradimento... Dai Corsari era tuttavia un nome importante”!

– “Vediamo, che nome daremo a questo bar, o piuttosto al bar di Rosalie”?

– “E se lo chiamassimo semplicemente Dalla bella bretone”? – “Pensateci, signor Ivon, riprese Rosalie, dichiarare sull’inse- gna del bar che sono bella”?

– “E perché no, se è la verità? Del resto la prima scimmia che, leggendo l’insegna, si azzardasse a fare una smorfia, riceverebbe

un pugno in faccia anziché un colpo di fortuna alla lotteria, e vi garantisco, avrebbe da pentirsene”.

– “Ma, ammettendo che fossi bella, come affermate, non spet- terebbe a me, in buona coscienza, proclamare pubblicamente e sfrontatamente il mio fascino a tutti i passanti.

– “No, no, risposi”, Rosalie ha ragione.

– “Ragione, ragione! Visto che pensi di essere così sapiente, cerca tu un nome al bar. A me, importa poco, come si dice, e a questo punto non mi interessa più”. Ivon stava per arrabbiarsi, lo sentivo. Rosalie calmò il suo amor proprio con le solite parole dolci che sapeva usare così bene nei momenti difficili. Il nostro amico, vinto dalla seduzione della nostra compagna, continuò a cercare un nome migliore rispetto a quelli proposti fino ad allora. Quando non ci speravamo più, reggendosi la testa tra le mani, esclamò con fervore: eccolo, eccolo! L’ho scovato dalla mia riserva di vino, que- sto fottuto nome!

– “Qual è dunque”? gli chiesi con lusinghiera premura.

– “Dall’inglese saltato! Eh! Hai ancora qualcosa da ridire?

Com’è possibile che non mi sia venuto in mente prima! Ci potreb- bero essere duemila dizionari, ma non ci sarebbe modo di farmelo rimangiare, questo nome che dice tutto in tre parole: Dall’inglese

saltato! È la nostra pallottola, ossia la nostra storia riassunta in dieci

o dodici lettere. Una bella nave di trecentocinquanta o quattrocento tonnellate con la bandiera inglese capovolta per annunciare che è una preda, che salta per aria come un razzo romano con due chiat- te, sarà un bel colpo d’occhio, come si dice, e sarà davvero difficile trovare un’immagine simile sulle insegne pubbliche di Roscoff. Che ne dite, voi due innamorati? Il tono con il quale Ivon chiedeva il nostro parere ci lasciava poca libertà nel trovare altre soluzioni, del resto aveva espresso la sua opinione con un entusiasmo tale che non poteva essere messo in discussione. Rosalie e io demmo parere favorevole al nome che aveva partorito con tanto sforzo di genio. Fu deciso che la nostra bella società sarebbe entrata presto in possesso del bar L’inglese saltato. Bisognava soltanto trovare l’artista al quale affidare il compito di rendere con esattezza e talento l’esplosione del Back-House. La difficoltà non era di facile soluzione a Roscoff



dove i pittori di marina sono sempre stati assai più rari degli eroi che avrebbero potuto fornire nobili soggetti ai loro pennelli. In ex-

tremis ci fu indicato un pittore vetraio di Morlaix, a sette leghe dal

nostro domicilio. Gli facemmo scarabocchiare con il rosso mattone e il verde cavolo una specie di tre alberi infiammato che ricopriva il mare di fuoco e fumo, disperdendosi in aria tra due tappi neri che rappresentavano le due chiatte da cui era accompagnato. La componente relativa ai liquori di cui dovevamo approvvigionare il locale provocò una nuova e sapiente discussione, che il nostro socio affrontò da uomo avvezzo alle questioni pratiche. Il rum è raro in Francia dalla guerra, ci disse; ma c’è ancora il modo di procurar- sene del buono in cambio di poca roba poiché, come vi ho detto, i frodatori non mancano qui. E poi, non c’è niente di più redditizio

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