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CAPITOLO 1 LA TRAVERSATA

Quanto un marinaio deve benedire il cielo se per un miracolo della sorte, dopo essere prodigiosamente scampato ai pericoli e alle torture di cui ho appena parlato, passa all’improvviso dal terrore alla sicurezza e dalla disperazione alla vita? In futuro dovrà combat- tere gli elementi ai quali sta per consegnare il proprio destino, ma è una lotta a cui è già abituato e che non potrebbe frenarne l’audacia né scoraggiarne l’orgoglio. La sua anima, al contrario, si pone sullo stesso piano dei pericoli che ancora prevede. Arrivano gli inglesi e le tempeste, pensavo, sento in me la forza e la risoluzione per tener- gli testa. Con un capitano coraggioso, una buona nave e l’Oceano davanti, cosa dobbiamo temere di più crudele delle prove appena superate? Ogni marinaio, dopo aver messo piede in mare e perso di vista le coste, crede di essere in un rifugio privilegiato e nel cuore di un santuario inviolabile.

Il capitano della Gazelle non tardò a prendermi sotto la sua ala, non già per la gentilezza di cui si erano invaghite Rosalie e la si- gnora Milliken, quanto piuttosto perché ritrovò in me l’ardente zelo e l’infaticabile operosità che gli appartenevano. Per onore dei marinai devo sottolineare che a terra essi possono giurare amicizia o accordare una preferenza a quelli che più amano; in questo caso per loro, come per tutti gli altri uomini, è solo questione di impulsi o di fantasia; ma una volta in mare, è solo per i più devoti e i più

capaci che provano una stima che si manifesta in modo abbastanza bizzarro, come giudicherete da questo avvenimento.

Il capitano Niquelet, che avevo trovato così cortese ed espan- sivo mentre raccontava le sue avventure nel bar di Rosalie, mi sembrò, una volta al largo, moralmente trasformato, al punto da rendersi irriconoscibile. Non era più il corsaro sciolto, brioso e bonaccione, che mi aveva colpito a prima vista. Era diventato orso o lupo tra un gregge di marinai intimoriti dalla sua presenza e attenti a mantenere i limiti del rispetto. Due belle passanti, che gli sfarfallavano attorno quando passeggiava meditabondo sul ca- stello di poppa, riuscivano a malapena a strappargli un sorriso o un monosillabo, lui che a terra avrebbe buttato una fortuna dalla finestra per attirare lo sguardo di quelle donne che a bordo cerca- vano così inutilmente di infastidirlo con civettuole smancerie. Due o tre giorni dopo aver lasciato la Manica mi diede del tu. Era già un buon segno. Mi aveva sgridato sette o otto volte: era ancora di migliore auspicio. Lavorando strenuamente giorno e notte, face- vo del mio meglio per avere una parola di approvazione, tuttavia gli incoraggiamenti non si facevano ancora sentire. Ma quando, davanti al capitano, un ufficiale mi dava quel che a bordo si chia- ma trivialmente un poil, notavo che Niquelet soffriva per la mia passività. Una sera, dopo una burrasca feroce per la quale mi ero adoperato valorosamente, mi annunciò che sarei stato considerato a bordo quanto un secondo tenente, e che sarei diventato secon- do di quarto agli ordini dell’ufficiale che mi avrebbe strapazzato meno nelle incombenze di un lavoro che si annunciava non troppo gravoso. Mentre ricevevo questa nota di favore con aria apparen- temente indifferente, Niquelet mi chiese:

– “Il signore, per caso, non è soddisfatto della promozione e della disposizione che ho appena comunicato?”

– “Ma no, capitano, al contrario, sono solo molto confuso, ma...” – risposi.

– “Ma, cosa?... cosa vuoi di più?”

– “Una parola di incoraggiamento da voi perché temo di avervi deluso...”

– “Ebbene, – disse, stringendomi bruscamente il braccio con

l’unica mano che gli rimaneva – hai forse bisogno di lagnarti così, piagnucolone?”

E il buono, il bravo capitano aveva già le lacrime agli occhi. Ma, come se si fosse vergognato della sensibilità che gli avevo appena dimostrato, mi rispose con vivacità e aggiunse: “Non parliamone più, svolgi sempre bene i tuoi compiti, e poi...” e poi mi strinse di nuovo la mano con un tremolio paterno. Tutti i passeggeri sorride- vano con dolce soddisfazione di fronte a questa scena quasi com- movente tra un vecchio marinaio indurito e un giovane debuttante che non conosce i rischi e le vicissitudini del mestiere.

Benché fosse appena quarantenne, tre o quattro reumatismi si risvegliavano periodicamente e tormentavano il capitano della Ga-

zelle. Era in quei momenti di esaltazione dolorosa che, sdraiato su

una lettiga, diventava più comunicativo e affabulatore, con smorfie provocate dalle sofferenze che a volte gli troncavano la parola. Du- rante le notti che trascorreva così, senza prendere sonno, l’ufficiale di quarto gli teneva compagnia, e quando arrivava il mio turno i nostri lunghi colloqui notturni si concentravano sul lavoro. Le lezioni di morale marittima, che mi concedeva con aspra bontà, recavano l’impronta di una meditazione profonda e di un’osserva- zione non priva di acutezza. “Ti ricordi – mi disse durante un turno di guardia? – la battuta dell’altro giorno? Ti avevo maltrattato un tantino, è vero, ma un capo deve comportarsi così con i propri subordinati per scuotere loro la milza senza esporli allo scorag- giamento. Hai notato, per esempio, il tono con il quale dico a un mozzo di cui sono contento: vai in cambusa a chiedere un sorso di grappa... dannato ubriacone!”

– “Sì, capitano; ma mi sembra anche che qualche volta vi ho sentito dire: e dai, Jean-fesse, vattene in cambusa a scolarti la

grappa!”

– “È vero ed è proprio così che si deve parlare ai marinai per insaporire i piccoli favori che elargiamo, senza dare l’impressione di trattarli con bontà troppo mielosa e con attenzione troppo de- licata. In una parola, bisogna vivacizzare e aggiungere un po’ di mordente a ciò che si concede loro. All’inizio, privo di esperienza, avevo provato a essere meno brusco, però mi guardavano come



una signorina o un parigino, li trattavo con i guanti bianchi. Oggi, benché mi mostri equo e, a volte, persino benevolo, ordino e di- spongo quasi come fossero barboncini, ed essi pretendono che sia come una noce di cocco, ruvido intorno, ma buono dentro, e tutto sommato credo di non essere più cattivo di altri. Hai colto l’allego- ria? O, come si dice nel nostro gergo, il trefolo dell’ormeggio?”

– “Oh! Sì benissimo, mio capitano, e in modo da trarne pro- fitto.”

– “Osserva tutto, anche le cose apparentemente più insignifi- canti, se un giorno vuoi comandare tipi come questi, ai quali farei saccheggiare per dieci fiaschi e una doppia razione in cambusa il primo bastimento francese che incontreremo sulla nostra rotta”.

Non si vantava: nessun capitano aveva una così forte influenza sul suo equipaggio. Non derideva mai i suoi mozzi, parlava poco con loro, all’occasione li pestava anche, quando sembravano an- noiarsi a bordo o avere bisogno di colpi sentimentali nelle reni, come diceva. Niquelet chiamava questa reazione morale frizionare

la sensibilità per ristabilire la circolazione del sangue dell’amicizia.

Ma con un solo gesto, con una sola parola, qualsiasi marinaio a un suo cenno avrebbe ucciso padre e madre, obbediente, senza esitazione alcuna. Era quello l’ascendente che esercitava più gelo- samente sulla sua ciurma, non per abusarne con malvagità, ma per ottenerne tutto ciò che giudicava indispensabile al buon servizio che, nel linguaggio di bordo, riassume in una sola parola l’idea del dovere di ciascuno e dell’interesse di tutti.

Ivon si prodigava a bordo, ma non accettava il tono e i modi del comandante della Gazelle. Questi due uomini, pur stimandosi reci- procamente, avevano poco in comune e passavano intere settimane senza scambiarsi una sola parola.

Una lunga traversata avrebbe potuto offrire alla sagacia dell’os- servatore un soggetto fecondo di studi filosofici. Quanti attriti negli umori distinti o opposti, nelle abitudini e nelle passioni di uomini, a volte così diversi, che il caso unisce spesso in modo fortuito tra i pericoli del mare e uno spazio ristretto denominato nave! Non è forse la stessa rappresentazione di una società retta da una monar-

chia assoluta quella che si vive nel bastimento dove regna dispotica- mente un capitano con i suoi ufficiali, i suoi ministri e i suoi mozzi assoggettati! Sono certo che le numerose osservazioni fatte durante la vita in mare mi permetterebbero di dare buoni consigli a quei passeggeri che affidano la propria vita a marinai che conoscono appena. Purtroppo restano ancora molti avvenimenti da registrare nel mio diario di bordo. Venendo meno al principio che mi sono imposto, di raccontare senza orpelli le mie avventure, consegnerò precetti di condotta che potrebbero risultare proficui per i terricoli che intraprendono una primissima traversata di lungo corso. Devo però arrivare allo scopo senza dilungarmi. Tuttavia, spinto dal desi- derio di giovare a qualche mio lettore, illustrerò brevemente alcune regole che i passeggeri meno esperti devono applicare. La prima norma che un viaggiatore si deve imporre, non tanto per piacere quanto per non dispiacere troppo al suo capitano, è di evitare, per quanto possibile, di immischiarsi nelle questioni che riguardano il servizio di bordo. Non c’è marinaio che non sarebbe dispiaciuto di sentirsi chiedere a quanti nodi corre la nave dopo aver buttato il solcometro per misurare la velocità. Ancora più inopportuno è colui che vuole appurare, quando il capitano traccia il punto sulla mappa, dove si trovi il bastimento. È un mistero, o a dir poco, un caso riservato che solo gli iniziati possono comprendere; sarebbe un errore scorgere nella circospezione dei marinai orgoglio e ritro- sia: la discrezione è solo la conseguenza, forse un po’ esagerata, di un atteggiamento di prudenza. Supponete, infatti, che un passeg- gero conosca il punto preciso del globo in cui è giunta la nave e che lo riveli sbadatamente a un equipaggio malintenzionato. Cosa diventerà l’imbarcazione dopo una rivolta che la avrà consegnata nelle mani di marinai illuminati, o che si credono tali, sulla rot- ta da seguire per approdare dove vorranno? Credete che senza le difficoltà della guida di una nave in mare aperto, le ribellioni e gli atti di pirateria non sarebbero più frequenti di quanto lo siano oggi, con equipaggi obbligati ad affidarsi, come a una Provvidenza, alla capacità teorica che solo gli ufficiali possiedono? E poi, pur nascondendo ai sottoposti il luogo in cui si trovano e quello dove saranno condotti, i comandanti non si assicurano il rispetto neces-



sario per esercitare l’autorità e ottenere la sottomissione assoluta, garantita solo dalla dipendenza dei subalterni all’abilità dei supe- riori? Si è spesso e a lungo cercato di rendere i calcoli della longi- tudine semplici come quelli della latitudine, che danno solo uno dei due elementi indispensabili per determinare la posizione esatta di una nave in alto mare. Ma non si dovrebbe considerare come uno dei più pericolosi regali che la scienza abbia fatto alla società, una scoperta, un processo di semplificazione, che mettesse nelle mani di uomini rozzi gli strumenti per orientarsi senza l’aiuto dei loro capi, di cui vorrebbero sbarazzarsi per abusare della libertà di azione acquisita con un crimine nell’immensità oceanica, dove i malfattori istruiti si credono così sicuri dell’impunità? Si deve im- maginare che sia per un effetto mirato, che si potrebbe definire provvidenziale, se la scienza dell’uomo di mare è rimasta finora accessibile solo a un ristretto numero di iniziati che, istruendosi per acquisirla, sono stati portati nello stesso tempo a conformarsi a quei principi d’ordine e di umanità che lo studio fa quasi sempre amare o rispettare.

Durante la manovra, i passeggeri devono evitare con cura di in- fastidire i mozzi. Quel che devono fare, quando a bordo tutto di- venta azione e preoccupazione, è ritirarsi in cabina allontanandosi dal ponte dove la loro presenza può diventare indesiderata e più inopportuna. In generale, il ruolo dei passeggeri a bordo, ammesso che credano di averne uno, deve essere, per quanto possibile, asso- lutamente passivo, se non nullo. Nessuno è più geloso dei marinai dell’autorità e della professione che esercitano; il loro mestiere è una specie di sacerdozio, la loro autorità è una sorta di dispotismo concorde grazie al quale essi allontanano il più possibile i profa- ni dal santuario. Se mai vi troverete a salire su una nave, vi farete un’idea del sovrano astio che provano per i modi da femminucce che tanto successo riscuotono a terra nei nostri salotti. Questi uomi- ni, abituati a regnare in mare e impregnati della potenza che il mare dà loro, cercano raramente di abusarne, mentre voi sembrate non conoscerla né contestarla! Si accontentano di disdegnare le arie ci- vettuole e le paure che vi ispira, al minimo sentore di brutto tempo, la forza degli elementi con la quale essi convivono e di cui si fanno

beffe: siate avveduti nel mostrarvi generosi, rassegnati nei momenti di pericolo; provate anche, se vi è possibile, ad aiutarli, ad assecon- darli quando il pericolo comune vi dà il diritto di intervenire e scor- gerete più fastidio che gratitudine. Se siete impalliditi nonostante vi abbiano assicurato che non c’è nulla da temere, vi prenderanno in antipatia e vi daranno uno di quei soprannomi che utilizzano con tanto sdegno e precisione, che deformano una fisionomia: non vi è uomo che riesca meglio a trovare e ad affibbiare questi nomi ridicoli che si attaccano come una lebbra al viso di un individuo per il quale provano disgusto o disprezzo. Nella marina militare ci sono ufficiali che non sono riusciti a sbarazzarsi dei nomignoli grotteschi che i mozzi gli avevano cucito addosso come una cattiva sorte, epiteti che li hanno accompagnati senza pietà nel corso della carriera, durante la quale la gloria dei servizi non è mai riuscita a fare dimenticare la consacrazione popolare dello scherno.

Una nave su cui ho navigato si stava riempiendo di acqua a se- guito di un uragano; come ultimo rifugio occorreva imbarcarsi in fondo alla scialuppa che minacciava di rompersi a ogni onda del mare ancora furioso. Ci contammo, l’imbarcazione poteva conte- nere soltanto l’equipaggio e due passeggeri.

– “Quali passeggeri faremo imbarcare?” – domandò il capitano, in un momento terribile in cui l’egoismo della conservazione parlò da sé e così intensamente al cuore umano:

– “Questo anziano signore, – rispose un mozzo – e questa brava signora”.

– “Perché la signora, anziché l’ufficiale di truppa che abbiamo a bordo?”

– “Perché la signora ha mostrato coraggio come se fosse un uomo, mentre il vecchio ufficiale ha avuto paura come una donna...”

Il povero ufficiale fu lasciato sul ponte, dove si trascinò con le poche forze rimaste, tanta era stata la paura durante la tempesta.

Mille esempi come questi testimonierebbero, se necessario, la benevolenza dei marinai per le persone incontrate in mare che mo- strano un coraggio e una risolutezza che li rende simili a loro.

I passeggeri, in generale, sono molto ben disposti a familiariz- zare con le persone dell’equipaggio, ed è un errore, perché spesso



questi uomini, la cui originalità nei modi e nel linguaggio si rivela così attraente per le persone a bordo, finiscono per abusare della parità indiscretamente concessa. Raramente si mostrano questuan- ti o esigenti; l’abitudine a mendicare è del tutto estranea e non converrebbe neppure alla loro ricchezza, che trae origine da un aspro sentimento di fierezza professionale. Per lo più, sono inclini a lasciarsi andare a licenze spesso scomode per coloro che hanno aperto un varco alla loro rozzezza per studiare con curiosità la vi- vacità dei costumi o per stupirsi della crudezza delle loro più spon- tanee arguzie. Così, consiglio vivamente ai passeggeri di tenersi a debita distanza dall’equipaggio e di imitare il riserbo degli ufficiali che parlano soltanto con i mozzi se i bisogni o i dettagli del servizio lo richiedono.

Le lunghe privazioni alle quali i marinai sono sottoposti fanno sì che si sottomettano a poco a poco a regole di astinenza che di- pendono più dalla consuetudine che dalla rassegnazione o dalla morigeratezza. Sopportano volentieri la necessità di bere una mez- za bottiglia di acqua putrefatta al giorno e di mangiare soltanto mezza libbra di biscotti infestati dai vermi. I passeggeri, dopo una difficile traversata, si dilettano pensando al giorno in cui potran- no stendersi su un comodo letto e pascersi di verdure fresche o carni succulente attorno a un tavolo sontuosamente imbandito. Raramente un marinaio, per quanto duro possa essere stato il suo viaggio, si abbandona a questi sogni; sa che dopo essere rimasto un mese o due a terra dovrà sottoporsi a nuove privazioni e pensa che è meglio abituarsi a stare male piuttosto che lasciarsi andare alle dolcezze di una vita che non sarà la sua. Quando può concedersi qualche fugace eccesso rispetto alle costrizioni che si è imposto, non ci rinuncia; al largo, però, non si crea illusioni che un’incappel- lata può distruggere o che un naufragio gli può strappare insieme alla vita. Non si sa quanto ci sia di istintivo nell’esistenza di questi esseri noncuranti dei pericoli e imprevidenti verso l’avvenire che appartiene loro ancor meno che a ogni altro uomo.

A volte, quando la terra si avvicina, nel momento cruciale e più pericoloso di una lunga traversata, quando sopraggiunge il brut- to tempo, si vede il capitano vegliare con inquietudine sul ponte

e rifiutarsi persino il riposo che gli sarebbe tuttavia così necessa- rio. Dunque! In queste circostanze terribili che devono decidere della sorte del viaggio e a volte della vita dell’equipaggio, sentite gli uomini di quarto sospirare quando i compagni assumeranno la responsabilità di ciò che accadrà sul ponte; poi, appena finito il quarto, si sdraiano cantando, incuranti dei venti, dei tuoni e di qualsiasi altro pericolo. Il capitano si fa carico di tutto, come taci- tamente stabilito; sembra che la vita e la salvezza riguardino sol- tanto i capi: “se anneghiamo, peggio per lui, è un problema suo, non

nostro”. Credete, dunque, che senza quest’imprevidenza da airone

o da struzzo si troverebbero uomini disposti a navigare per una razione di biscotti e cinquanta franchi al mese? Smettiamola, però, di parlare dei costumi degli equipaggi francesi e di dilungarci su questi dettagli con troppo compiacimento. Tali episodi possono ancora avere fascino per chi li rievoca come ricordi legati alle prime emozioni dell’esistenza, ma devono scoraggiare coloro ai quali li si racconta. Torniamo alla Gazelle.

Dopo aver superato i normali incidenti in mare, la nostra go- letta si avvicinava al Tropico e l’equipaggio aspettava con gioia il giorno in cui il capitano Niquelet avrebbe permesso di svolgere il rito solenne che consacra una delle fasi più interessanti delle grandi traversate. Finalmente giunse il giorno dei saturnali del mare. Dal mattino la nave assunse un’aria di festa. L’equipaggio e i passeg- geri indossarono i vestiti della domenica e si disposero, insieme a coloro che non avevano ancora visto Bonhomme-Tropique, a rice- vere il copioso battesimo che doveva iniziarli ai bizzarri misteri dei pontefici equatoriali e tropicali. Sul castello di poppa fu eretta una piccola cappella coperta con lenzuola e ornata con fiori presi dai cappelli delle passeggere. Come al solito con il cannocchiale venne mostrato a ciascun viaggiatore il cerchio del Tropico del Cancro mettendo un capello sull’obiettivo. Tutti si stupivano che si potesse scorgere una delle linee circolari della sfera celeste. Mai avrebbero voluto credere a un simile prodigio annunciato molto in anticipo; tuttavia bisognava arrendersi all’evidenza. Navigando si apprendo- no tante cose! A terra, invece, ci sono solo illusioni. Si deve vivere il mare per iniziare a conoscere le realtà.



Un grosso gabbiere, vestito con un abito bianco sul cui bavero scendeva una copiosa barba di stoppa, si arrampicava sulle barre di un grande albero, brandendo un rampone a mo’ di pastorale episco-

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