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Le circostanze della mia nascita tracciarono il disegno del de- stino sulla tela dell’amaca che mi fece da culla. Sono nato in mare aperto durante una traversata nella quale mio padre, vecchio uf- ficiale di marina, portò in Francia mia madre, una giovane creola sposata durante il soggiorno della nave a Les Gonaïves. Mio fratello venne alla luce nello stesso momento, durante la stessa rollata, nella violenza di una burrasca. Nell’istante in cui la nostra nave veniva colpita di traverso da un tremendo maroso, mia madre, quasi morta per la paura, ci partorì, dopo una difficile gravidanza durata sette mesi. Arrivati a Brest, nostro porto di destinazione, il primo pensie- ro di mio padre fu quello di far battezzare solennemente il “doppio peccato della sua vecchiaia”, come ci chiamava con ironia.

Malgrado le obiezioni del curato di Saint-Louis, egli ci volle avvolti sul fonte battesimale nella bandiera di poppa della nave e per un caso, considerato allora il più felice dei presagi, accadde che, agitandomi in quelle insolite fasce, infilai la testolina in un foro di proiettile che aveva lacerato lo stendardo nel corso di un combattimento memorabile. I testimoni del prodigio, basandosi su quell’episodio, pronosticarono che un giorno sarei certamente diventato un eroe della marina francese. I vecchi marinai sono su- perstiziosi, ma è raro che la loro credulità si associ a idee diverse da quelle suggerite dai codici di onore o dai ricordi di gloria. I miei esordi non furono all’altezza delle brillanti speranze riposte

con troppa sicurezza nel destino che mi era riservato. A nove anni sapevo già nuotare ma non scrivere. A dodici ero già abbastanza monello da essere il tormento dei professori e la disperazione di mia madre. Mio fratello vinceva tutti i premi del collegio dove i nostri genitori ci avevano mandato per sbarazzarsi di me qual- che ora al giorno. Se qualcuno attaccava Auguste, mi battevo al suo posto, più di quanto egli stesso avrebbe voluto. Quando mi punivano con compiti supplementari che non potevo svolgere, se ne occupava lui. Gli volevo bene a modo mio, per quanto potessi voler bene a qualcuno, con foga e incostanza. Anch’egli mi amava teneramente, ma la sua amicizia dolce e affettuosa, associata a una sorta di ritegno, mi dava talvolta l’impressione del rimprovero o dell’indulgenza. Pur con tutti i difetti, e forse proprio per questi, ero il beniamino di mio padre che, con piacere, rivedeva in me l’impetuosità un po’ sregolata della sua gioventù. Tutta la tenera sollecitudine di mia madre si concentrava su Auguste. Mio padre aveva voluto chiamarmi Léonard come lui. Era un nome vibrante e risonante, con un suono fiero che ben si addiceva a un marinaio.

Ogni settimana, i nostri genitori ci davano qualche spicciolo che la domenica spendevamo secondo le diverse inclinazioni. Con i suoi piccoli risparmi, Auguste comprava libri e disegni. Io salivo furtivamente sulle barche di passaggio al porto per avere dai barca- ioli il privilegio di maneggiare un remo o di brandire con orgoglio un alighiero, che usavo come un tridente del tutto inoffensivo.

Spesso, vagabondando sulle spiagge, riuscivo senza essere osserva- to a disormeggiare dalla riva una barca isolata e su di essa mi abban- donavo ai capricci delle correnti, che volevo imparare a conoscere e dominare, anche a rischio di inabissarmi nelle profondità del mare.

Seduto a poppa, sulla barca malandata che avevo espugnato, governando il timone bordeggiavo con la vela di trinchetto a bran- delli i vascelli di linea ancorati nel bacino. Fumavo con impegno un pessimo sigaro che mi dava il voltastomaco, a dispetto del mal di mare che avrei provato solo in seguito. In quei momenti di delizia, cedendo al destino che credevo mi fosse promesso, con il sottofon- do delle onde che mi cullavano lievi, sognavo il giorno in cui avrei potuto combattere, affrontare tempeste, domarle o perire intrepi-

damente nella loro foga. Quelle piccole lotte preparatorie, che per inesperienza ingaggiavo contro i marosi e i venti della rada di Brest, sono i soli divertimenti dell’infanzia che ricordo ancora con la com- mozione tipica delle cose innocenti del passato. Le mie illusioni ave- vano solo un oggetto, la mia memoria ha conservato preziosamente un solo ricordo. I giovani delle famiglie agiate di Brest, come tutti quelli degli altri porti di guerra, possono scegliere pressappoco tra tre carriere che portano allo stesso risultato: servire in mare come medico, aspirante o commesso di marina. Sembra che in questi ba- stioni marittimi della Francia i bambini nascano così vicini all’Oce- ano da essere precocemente pronti a offrirgli il sacrificio della loro esistenza, dedicandosi a una delle professioni che ho appena men- zionato. Era giunto il momento in cui i nostri genitori, privi di qual- sivoglia ricchezza, pensassero seriamente al nostro futuro. I marinai giurano e spergiurano che preferirebbero soffocare la propria prole nella culla piuttosto che vederla intraprendere il mestiere al quale hanno consacrato, talvolta inutilmente, gli anni migliori della vita. Ma poi tutti finiscono per piangere di gioia quando, loro malgrado, i figli abbracciano la carriera per la quale i padri hanno lasciato un nome, un ricordo e degli amici. Mio padre, pur non condividendo l’avversione dei marinai per la loro condizione, era consapevole dei disagi di una occupazione che gli aveva procurato, come eredità, so- lamente qualche cicatrice, lo scorbuto, la febbre gialla e una modica pensione. Ma per un giovane con le sue idee, influenzate dall’epoca in cui era vissuto, un ragazzo nasceva soltanto per servire la patria. Applicava impietosamente le etichette infamanti di brutti sfaticati e di ventri senza cuore a tutti coloro che non avevano mangiato,

almeno per una decina d’anni, il pane o la galletta del governo nella gamella di un vascello o di un reggimento. Poter vantare sullo stato di servizio tre o quattro combattimenti, qualche naufragio e aver sacrificato un braccio o una gamba sul campo di battaglia significa- va aver compiuto la propria missione di uomo e avere assolto a una parte del dovere civico. Con queste idee non era difficile prevedere il mestiere che avrebbe voluto per i propri figli. La nostra piccola casa a Brest era situata sul Cours d’Ajot, splendido e lungo viale che domina a cento piedi di altezza la costa nord orientale di uno



spazioso braccio di mare, e da ciascuna delle finestre anteriori della modesta dimora si vedeva, in tutto il suo maestoso splendore, la parte più ampia della costa bretone. Un giorno, durante l’esercita- zione di fuoco dei vascelli della squadra navale ancorata davanti a noi, mio padre ci chiamò alla finestra da cui contemplava da un’ora l’imponente spettacolo di un combattimento navale simulato. Ur- lando sopra il rumore continuo del cannone, e inebriato dal fumo della polvere da sparo che la brezza portava fino a lui, ci chiese: “Allora! Cosa volete diventare, figli miei?”

– “Marinaio, se lo vuoi, rispose mio fratello, con la sua consueta remissività”.

– “E tu, Léonard?” (riprese fissandomi negli occhi) – “Marinaio, anche se tu non lo volessi!” esclamai subito.

– “Davanti a quello spettacolo cos’altro avrei potuto desiderare?” mormorò il bellicoso artefice dei nostri giorni, piangendo di gioia e stringendomi amorosamente sul petto gonfio d’orgoglio. “Vieni, vie- ni”, aggiunse, “vieni da tua madre per riferirle che mi hai dato una risposta degna di me!”

Da allora fu stabilito che io e mio fratello avremmo intrapreso quella carriera che inizia positivamente per coloro che vi si impegna- no con il grado di mozzo, e termina per due o tre di loro ogni mezzo secolo con il grado di ammiraglio. Per pretendere il titolo significati- vo di aspirante, primo gradino da salire per le future personalità della marina, allora come oggi, bisognava aver prestato servizio almeno un anno sulle navi dello Stato e aver arricchito la mente e la memoria di nozioni di matematica. Fummo imbarcati su un antico e venera- bile vascello che, attraccato da dieci anni nella rada, avrebbe potuto levare le ancore arrugginite solo per rientrare in porto. Salivamo a bordo per fare atto di presenza e intascare i dodici franchi di paga mensile che ci erano concessi come remunerazione per i nostri utili servizi. All’epoca ciò si chiamava farsi i propri mesi di mare sotto le

vele. I corsi di matematica erano pubblici e gratuiti nei porti di mare

così fortunati da avere classi di idrografia. Le lezioni erano tenute da un rispettabile settantenne, che non concepiva come in un popolo civilizzato potessero esistere persone diverse dagli atei. Mi piacque l’originalità di quel patriarca degli scettici, non tanto per l’increduli-

tà un po’ sconveniente che ostentava in ogni occasione, quanto piut- tosto per il fascino singolare di quel dubbio matematico sul quale improntava tutto il suo modo di essere. Il professore, accortosi della curiosità che la sua persona mi ispirava, si interessò a me, non tan- to per la mancanza di predisposizione che mostravo per la scienza, quanto per l’attitudine che avrei potuto avere un giorno per l’empie- tà. Ogni volta che andavo alla lavagna per dimostrare una proposi- zione e dicevo un’assurdità anziché provare una verità matematica, il vecchio borbottava tranquillamente tra i denti che gli restavano: “È

falso come la vita dei Santi”, oppure: “è vero com’è vero che c’è un

Dio!” A quel punto dovevo cancellare le cifre scritte alla lavagna ed enunciare di nuovo la proposizione da dimostrare.

È grazie alle attenzioni di quel nemico privato di Dio, come lui stesso si definiva, che sono riuscito nel mio fugace passaggio tra i banchi di scuola a raccogliere qua e là qualche elemento di aritme- tica e le conoscenze di geometria nautica strettamente necessarie per fare il punto sulla carta nautica e misurare la latitudine nella maniera più semplice.

– “È un vero peccato, Léonard, mi ripeteva talvolta il miscre- dente, che non ti sia applicato di più nello studio delle sole verità che si possano dimostrare rigorosamente con A più B. Avresti fini- to per essere ferrato come me in ateismo. Vedi, una buona propo- sizione di geometria è la sola cosa alla quale un uomo equilibrato possa credere; inoltre la matematica ha un grande vantaggio mo- rale poiché ci spiega come stare al mondo guidati dal lume del giudizio piuttosto che dagli errori dell’immaginazione: ci insegna, poco a poco, a non avere fiducia in nulla e a vivere e morire come uomini onesti, disprezzando la specie umana e mandando Dio al diavolo!”

Un prete, uno dei poveri ecclesiastici che egli chiamava lugu-

bri commedianti, un giorno gli chiese di suggerirgli una massima

da incidere sul frontone del suo confessionale; sul vostro chiosco, gli disse l’empio professore, scrivete: “l’ipocrisia sta all’imbecillità

come un confessore sta al penitente”.

Democratico come quasi tutti gli atei, questo discepolo incallito di Lucrezio e di Archimede fu scelto tra i repubblicani più arden-



ti di Brest per esercitare le funzioni di vicesindaco nei giorni più difficili del Terrore. Incaricato di consacrare i matrimoni civili e di registrare i divorzi che allora abbondavano, impiegava tutto il suo potere persuasivo non, come si potrebbe pensare, per fare bei discorsi ai fidanzati sulla santità dei legami che stavano per forma- re, ma per farli recedere dall’idea di stringere nodi quasi sempre funesti. “Anch’io sono stato sposato, diceva loro, e posso affermare che, tra tutte le condizioni umane che ho sperimentato, non ve n’è una più innaturale e meno sopportabile del matrimonio; e se qual- cosa potesse aiutarmi a credere all’esistenza dell’inferno, sarebbe proprio questa specie di accoppiamento legale, che solo avrebbe il privilegio di convertirmi a una fede stupida che ci dipinge il demo- nio perennemente occupato a torturare vittime per l’eternità. Per poco che teniate a farmi cosa gradita, evitando di mettervi la corda al collo, non sposatevi”.

Allorché i futuri coniugi resistevano alla sua eloquenza pressan- te, diceva loro, facendo un ultimo, disperato tentativo: “Ebbene, dato che volete provare la dannazione anticipata, vi sposerò, per- ché è un vostro diritto e un mio dovere. Ma almeno concedetemi otto giorni durante i quali rifletterete sulla stupidaggine che state per commettere, e se dopo persisterete nella vostra convinzione, affronterete questa dannazione come tutti gli imbecilli che non hanno voluto credere all’evidenza del mio pensiero e all’autorità dell’esperienza”.

Quando una coppia di fidanzati così informati e congedati non tornava più, egli diceva tra sé, felice: “Ancora due sventurati strap- pati al supplizio coniugale e un’ulteriore buona azione da contare nel corso della mia attività pastorale”. Questa maniera di ammini- strare il matrimonio civile fu talmente criticata che, dopo qualche mese di esercizio, il nostro funzionario municipale si vide costretto a rassegnare il mandato accettato tra l’entusiasmo dei suoi concitta- dini. Il curato della parrocchia volle impadronirsi sul letto di morte degli ultimi istanti di vita di quel miscredente fanatico per strap- pargli una conversione che gli avrebbe fatto gola e onore. Dopo aver ascoltato pazientemente il lungo sermone dell’uomo di chiesa, il vecchio dannato si accontentò di dirgli: “Mi avete parlato a lun-

go del vostro Dio vendicatore e remuneratore, ma, signor giullare, questo è tutto da dimostrare”. Morì dopo aver pronunciato questo enunciato, simile a quello che precede le formule matematiche.

Insisto sui principi del professore poiché è a lui che devo le sole nozioni di scienza mai entrate nella mia testa dura, e l’indifferenza religiosa che per troppo tempo mi ha reso indifferente a quei prin- cipi morali ai quali la maggior parte degli uomini resta saggiamen- te e immutabilmente ancorata. Per i candidati all’eminente grado di aspirante di seconda classe giunse il momento del concorso. Mio fratello si presentò e fu ammesso per acclamazione. Anch’io mi presentai e fui respinto dagli esaminatori immediatamente e all’unanimità. A questa prima avversità, il mio carattere irritabile si ribellò come al cospetto di un’ingiustizia. Provavo una vergogna segreta per quell’insuccesso che testimoniava palesemente la mia inferiorità. Non potendo riparare in alcun modo alla situazione determinata dalla pigrizia, aggirai l’ostacolo: già in questo primo atto si rivelava l’inclinazione della mia indole. Un bel brigantino, il corsaro Sans-Façon, era da poco giunto a Brest per riparare le avarie subite nel corso di un combattimento. Doveva salpare dopo qualche giorno per tentare audacemente la fortuna in una nuova crociera. Le linee da filibustiere di quella maestosa nave, eviden- ziate dalla grazia dell’alberatura affilata, i larghi portelli dipinti di rosso brillante, i pezzi di artiglieria di rame che splendevano al sole come gioielli scintillanti e l’aria graziosamente furfantesca, mi avevano affascinato; non mi stancavo di ammirare da mattina a sera quel capolavoro di costruzione e di allestimento, per effetto di quell’istinto marinaresco che mi faceva presagire un congegno perfetto laddove credevo di vedere solo una bella nave. Uno degli ufficiali di bordo spesso mi aveva visto guardare la sua nave corsara con occhio rapito e bramoso: “Dimmi, mozzo, vuoi imbarcarti con me?” mi disse un giorno. Questa proposta mi sembrò un segno del cielo manifestatosi attraverso un ufficiale dell’imbarcazione. Sal- tare a bordo, indossare una casacca rossa e un berretto scarlatto e chiedere di essere assunto sul Sans-Façon con il titolo che l’ufficiale mi aveva appena conferito, fu davvero questione di un attimo. Se avessi chiesto a mio padre il permesso di salire a bordo sul bri-



gantino, l’avrei sicuramente ottenuto. Sarei partito ricolmo delle benedizioni della mia commossa madre e dei generosi doni del mio soddisfatto genitore. Ma arrampicarmi furtivamente sulle griselle di un’imbarcazione, senza lasciare una sola traccia della mia fuga misteriosa, e far versare ai miei genitori lacrime inesauribili per una sorte sconosciuta, mi sembrava un inizio degno di un marinaio che voleva costellare la propria carriera di atti memorabili e di eventi romanzeschi. Così, senza protezione, per caso e clandestinamente, divenni mozzo di una nave corsara. Al colpo di cannone che indi- cava la partenza, le nostre vele di gabbia issate alla testa degli alberi furono spiegate alla brezza del nord che ci spingeva nel Goulet di Brest. Uno dei tenenti di bordo, rilevando il comando, chiamò a poppa il primo nostromo: “Philippe”, – gli disse, prendendomi con forza per l’orecchio – “ti ho portato il mozzo che mancava all’equi-

paggio, aggiungi una gavetta. Non ha mai navigato. Se accusa il mal di mare, gli farai allungare quindici frustate nel didietro per la prima volta, venti per la seconda e venticinque per la terza, e continuando di cinque in cinque fino alla perfetta guarigione di sua altezza sere- nissima”.

– “Basta così, tenente”, rispose nostromo Philippe, con uno sguardo severo e sprezzante, calcolando le dimensioni del mio corpo, dalla testa ai piedi. Riguadagnai il castello di prua, rifletten- do già preoccupato su quale forma di indisciplina fosse, a bordo, soffrire il mal di mare. Fu allora, ma solo per qualche minuto, che il rimpianto di aver lasciato un’accogliente famiglia per mettermi nelle mani di gente del genere mi fece versare qualche lacrima, che ebbi almeno la prudenza e la fierezza di nascondere. Il mare era agitato fuori dagli stretti che dovevamo attraversare per tro- varci in acque tranquille, prima di essere sorpresi dalla notte. La terra natale scompariva per la prima volta ai miei occhi più stupiti che commossi, tra i vapori di bruma diafana, con i contorni già confusi degli isolotti e degli scogli che ci lasciavamo alle spalle da entrambi i lati della rotta. Il brigantino navigava di bolina stretta, e correndo a sette o otto nodi faceva spumeggiare i flutti in cui lo scafo slanciato si immergeva per poi riemergere. I marosi, così urtati e divisi, saltavano a bordo rombando e ogni beccheggio del

Sans-Façon, che si sollevava e ricadeva continuamente nel cavo

delle onde che solcava una a una, mi faceva girare la testa, mi dava il voltastomaco e mi torceva le budella, malgrado avessi ricevuto una severa ingiunzione e avessi preso la ferma risoluzione di non sentirmi male.

– “Dimmi un po’, Filo da Vela”, esclamò il nostromo (era il nome di battaglia che gli sembrò opportuno assegnarmi per tutta la durata della campagna), “mi sembri disturbato, amico mio! Per caso hai voglia di raccare pure l’anima?”

– “Ma neanche per sogno, nostromo Philippe!” risposi con il tono più disinvolto che riuscissi ad assumere in quella circostanza.

– “Meglio così, sai; non sopporto che un giovane mozzo si dia delle arie da fanciulla svenevole. Ma per abituarti ben bene al mare, figliolo mio, fammi il piacere di andare sulla coffa di trinchetto”.

– “Sì, nostromo Philippe, vado subito”.

E io, malgrado la debolezza delle ginocchia tremanti e la fre- quenza dei singhiozzi che reprimevo a malapena, mi arrampicai sulla coffa che vacillava per i rudi scossoni causati dalla terribile combinazione di rollio e beccheggio.

– “Credo che questo cristiano con il tempo diventerà un vero e proprio mascalzoncello” – disse il nostromo, vedendomi in due

o tre minuti sulla sommità dell’albero di trinchetto, senza essere passato dal buco del gatto, passaggio stretto ma sicuro, amato so- prattutto dagli arrampicatori inesperti. Le parole del nostromo giunsero alle mie orecchie proprio quando rimettevo i resti di una colazione mal digerita. Mi reggevo appena sulle gambe malferme, ma il nostromo aveva predetto il mio futuro in termini che non mi permettevano ulteriori debolezze; scesi sul ponte con una sicurezza

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