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1. Accorgimenti pratici per sopravvivere al viaggio

Al di là della finalità esterna del viaggio, che come abbiamo visto ad un tempo ne testimoniava la ragione (causa) e ne determinava i modi e i tempi (effetto), fosse esso un viaggio privato (di affari, o di conoscenza) con le sue necessità personali e professionali, un viaggio diplomatico con le sue incombenze po- litiche, un viaggio regale con le sue necessità logistiche e necessità rappresen- tative, esisteva un filo sottile che tesseva di trama comune i rudimenti della mentalità dei viaggiatori del Cinquecento. Tra di essi abbiamo accennato a quelli più direttamente connessi con le condizioni materiali dei viaggiatori italiani in Francia, e la loro elaborazione sotto forma di reazione agli stimoli del viaggio (quantificazione e misurazione delle distanze, rudimenti di mete- orologia), tutti elementi di un «sapere di viaggio» finora non chiamati a far parte della «mente del viaggiatore»1.

Se le certezze date dallo scopo del viaggio e le risorse fornite dalla propria attrezzatura mentale di viaggiatore costituivano in un certo senso il bagaglio di sicurezze del viaggiatore italiano2, che potevano – sia chiaro: entro i limiti concessi dai tempi – fargli sembrare rapido e semplice il cammino, c’era però una realtà ignota, oscura, che probabilmente avrebbe, con la sua drammatica

1 Perlomeno non da E. J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, trad.

it., Bologna, il Mulino, 1992, che non si occupa della percezione e misurazione del tempo e dello spazio del viaggio. É. Bourdon, Le voyage et la connaissance des Alpes, thèse, cit., vol. II.,

pp. 771-772 e sgg. analizza il contenuto, del «savoir viatique» dei viaggiatori attraverso le Alpi occidentali in età moderna.

2 M. H. Smith, Voyageurs italiens en France au début du règne de François Ier, in Passer les

monts, cit., pp. 297-312, tenta un primo approccio di repertoriazione e tematizzazione senza

eccedere in tentativi di tipizzazione per ‘mentalità’, ma fornendo quantomeno, almeno per il periodo preso in esame, una base da cui muoversi per l’utilizzazione del concetto.

asprezza, fatto sembrare quello stesso cammino arduo, la Francia lontana. C’e- rano cioè delle questioni pratiche da affrontare, e oltre agli strumenti mentali che abbiamo visto fornire le coordinate teoriche per inquadrare i grandi pro- blemi del viaggio, ne sarebbero occorsi anche di più pronti e spiccioli («mini- mi» e «ridicoli») per affrontare le evenienze più banali ma determinanti sul corso e sulla prosecuzione del tragitto, talora addirittura sulla sopravvivenza del viaggiatore.

Ancora viaggiando al di qua dei monti c’era già, ad esempio, di che preoc- cuparsi per le abitudini alimentari altrui, rese tema assai corrente dai malori che potevano cogliere chi viaggiasse in situazioni precarie, con un occhio alla strada e uno alla scarsella3. Per questo Machiavelli avvertiva chi si recasse in Francia come ambasciatore affinché «per la via, come passate Asti, e massime per tutta la Savoia e Buriana, dove poi trovate buon pane, cioè che non scrosci, fatene tôrre per la tavola vostra qualche poco; perché se ne truova assai bello, e per quel difet- to non si può mangiare, ed è molto molesto ad uno lasso e delicato»4.

L’alimentazione non era però l’unico problema per chi si avviasse a com- piere una missione diplomatica al di là delle Alpi. Ad esempio, la pratica di alloggiare in locanda, che aveva lentamente sostituito nel corso del tardo Me- dioevo l’abitudine a far uso della cosiddetta ospitalità spontanea5, provocava danni e rischi che non riguardavano solo la tasca del viaggiatore ma che, in alcuni casi, mettevano in pericolo la stessa capacità logistica di proseguire nel viaggio. Era ancora Machiavelli, evidentemente scottato da esperienze perso- nali non proprio piacevoli e tali da farlo parlare a ragion veduta, a mettere in guardia come segue un ambasciatore diretto in Francia: «i vostri servitori abbino cura, per tutti li alloggiamenti farete, alla roba; e guardino i panni e gli stivali da’ topi, cioè appicchino alto i vostri stivali: ché benché questa sia cosa minima e ridicula, pure expertus loquor»6.

Non meno fastidiosi erano poi talora gli uomini, dei topi7. Se il locandiere doveva o poteva ritenersi soddisfatto (forse più al momento della partenza che

3 Dell’alimentazione del viaggiatore, come abbiamo visto, si occupava Guglielmo Gratoaroli

nel suo Regimen omnium iter agentium (1563), per cui cfr. supra, con rimando a I. Melani, «Ne liber maior fiat quam iter agenti conveniat», cit., in particolare pp. 131-132.

4 Niccolò Machiavelli, Notula per uno che va ambasciadore in Francia, in Id., Opere, cit., vol.

I, pp. 55-56.

5 Come messo in luce da H. C. Peyer, Viaggiare nel Medioevo. Dall’ospitalità alla locanda,

trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1990. Dal titolo originale (Von der Gastfreundschaft zum Gas- thaus) si desume ancora più chiaramente come su questo passaggio alla pratica dell’alloggio

contro denaro in locanda si incentri la nascita di un nuovo modo di viaggiare. Della questio- ne si occupa assai estesamente anche D. Roche, Humeurs vagabondes. De la circulation des hommes et de l’utilité des voyages, Paris, Fayard, 2003, pp. 479-566 (chap. VIII, L’hospitalité: du don à l’économie).

6 Niccolò Machiavelli, Notula, cit., p. 55.

all’arrivo delle chiassose comitive di ambasciatori e relativi servitori), c’era chi col veder partire l’avventore avrebbe tentato un ultimo assalto (magari con- tenuto, certo) alla sua borsa, stringendolo in un assedio di parole che forse il cantilenare di una lingua straniera avrebbe reso fastidioso a chi era già mental- mente orientato verso faccende più importanti e fisicamente pronto ad un al- tro tragitto, ad altri rischi, ad altre fatiche. Motivi per cui, tutto sommato, non c’è da stupirsi se l’oculatissimo Machiavelli consigliava «la mattina, al partire dall’osteria, una favola di beneandata alla ciamberierea ed al varletto di stalla non vi dia molestia a farla dare, per non avere quella seccaggine agli orecchi»8.

Talora non si trattava di una semplice scocciatura, ma di ben più serie con- seguenze di un atteggiamento aggressivo, che spesso era reciproco, cioè dei forestieri nei confronti delle persone del luogo, soprattutto se di origini umi- li, o comunque più umili delle proprie: osti, locandieri, camerieri (in questo caso, l’aggressività sarebbe stata frutto di arroganza), e di questi ultimi nei confronti dei primi (frutto invece di diffidenza). Alla volontà di risparmiare del viaggiatore faceva spesso riscontro la volontà di guadagnare dell’esercente, e da questo dissidio sarebbero nate, immancabilmente, contrattazioni dalle quali ci si sarebbe potuti esimere solo con la chiarezza dei patti («quando en- trate in uno logis, fate fare i patti della bella cera con l’oste, per non aver poi a disputare con loro. questo dico dei logis dati per foriere drieto alla corte»). Più in generale, richiamandosi al topos della disonestà e aggressività dei fran- cesi, si poneva la chiarezza come consiglio da non disattendere («communiter, in ciò che avete a fare di là, fate fare innanzi i patti chiari»). Le conseguenze di un atteggiamento da ‘attaccabrighe’, di prevaricazione («maggioranza»), in effetti, sarebbero forse state gravi e inevitabili («sia la brigata avvertita di non fare quistione, o usar maggioranze, per che la si gastighi ogni modo»)9.

Secondo Antonio de Beatis, la dedizione al furto e all’inganno era conna- turata alla natura dei francesi: non certo a quella dei nobili, abituati a vivere splendidamente, ma a quella della plebaglia sordida, vile, ingannatrice. Tutto l’opposto di quella tedesca e fiamminga, popolazioni dei cui ceti poveri egli tesseva un elogio che andava di pari passo con la condanna di quelli francesi: un commento che nasce come conseguenza del furto di una bisaccia durante il viaggio e che, anche per questo, costituisce non solo un’interessante testi- monianza di fatti ma altresì un’ancora più interessante dimostrazione della nascita di un processo conoscitivo che faceva leva sull’osservazione (peraltro: diretta) di un caso, sull’estensione dello stesso a termini generali sulla base di luoghi comuni, sulla generalizzazione e propagazione degli stessi a dato di fatto o certezza. Vale forse per questo la pena di riportare per intero il non lunghissimo passo:

8 Niccolò Machiavelli, Notula, cit., p. 56. 9 Cfr. ivi, p. 55.

appresso una hora de nocte mi fu tolta dal arcione la mia bugecta con alcune suppellec- tile usuali, scripture et dinari che montavano dicine de ducati, ne tengo bona memo- ria. Et come de Thodeschi et Fiamminghi, quali più volte lassandose per rescordo de repostero alcun pezzo de argento in loro hosterie ce li restituevano gratiosamente, ho scripto assai bene, essendo con effecto grandissima lealità et fede in tucta quella gente etiam in poverhomini et disgratiati, che è tanto più laudabile, cusì de Franciosi, haven- do da essi recevuto tal burla et ad tempo che mi ferno assai malcontento, son constrecto non occultare il vero; et certo che de tucte quelle provintie franciose, postponendo li gentilhomini, quali lli più che in parte de Christiani viveno franchi, splendidi et libe- ralmente [...], la plebe è tanto vile, pultrona et viciosa, quanto homo si possa pensare10.

Giungere in un luogo di riparo dalle difficoltà del viaggio e del clima, fosse esso una locanda, un’osteria o un ospedale11, non era del resto sempre cosa sem- plice. Sulle vie che conducevano in Francia ne esistevano infatti di assai famosi, alcuni posti anche in luoghi impervi e talvolta molto difficili da raggiungere. L’ascesa del Moncenisio, confine geografico, politico e linguistico («a mezo il monte gli è una croce di legno, grande, quale si chiama La Gran Croce, qua- le partisse la Lombardia da la Savoya») poteva rivelare, accanto alle consuete considerazioni di un viaggiatore («come si è salitto il monte miglia tre si trova La Ferrara, loco ove sono tre o vero quattro bone osttarrie»), anche sorprese spiacevoli, legate forse alle contingenze politiche, alle congiunture economiche, alle considerazioni reali in merito ai costi dell’accoglienza gratuita da parte di un’istituzione, la Chiesa, che forse non vedeva nei pellegrini la prima mossa per il contenimento politico dell’emorragia di consensi causata dalla Riforma (i cui esponenti, in fuga dall’Italia, non di rado passavano da questi paraggi). «Pas- satta dicta Croce Grande per una lega se trova una giesa con uno casamentto, quale si chiama lo Hospedaletto, quale a de intrata circa a scutti 400 et he fatto per subvenire agli poveri viandanti quali non hano da vivere, ma non si observa, et però molti ogni anno o per fame o per fredo moreno in necessitate su quello montte, quali si trovano poi mortti et fu[r]no butatti dentro a una casa li ap- presso, quale si domanda il Carnaro»12. Viaggiare significava però soprattutto guardare avanti e, superata la cima, il percorso si sarebbe reso più agevole anche a costo del necessario, tacito cinismo che avrebbe portato a considerare come «dopo si trova una hostariuza che si domanda Le Tavernelle»13.

10 Antonio de Beatis, Itinerario (1517-1518), cit., p. 128.

11 Sulla distinzione tra locanda, osteria e luogo privato di accoglienza gratuita (al cui modello

si può far risalire la tipologia dell’ospedale medievale), si veda H. C. Peyer, Viaggiare nel Me- dioevo, cit., pp. 139-147.

12 Si trattava di una vecchia istituzione, che aveva ormai compiuto quasi cinquecento anni,

la Domus Montis Cenisii su cui cfr. G. Sergi, «Domus Montis Cenisii». Lo sviluppo di un ente ospedaliero in una competizione di potere, «Bollettino Storico–Bibliografico Subalpino»,

LXX, 1972, pp. 435-488.

Non erano dunque soltanto i tragitti, gli spostamenti, che di solito avve- nivano a piedi o a cavallo (e che in alcuni casi comportavano il trasporto di un ingombrante bagaglio) a costituire il punto critico di un viaggio in Francia ma, come è facile immaginare da quanto abbiamo qui accennato, anche le soste. Ta- lora, i due fattori si combinavano, aggravandosi e peggiorandosi l’un l’altro. Le asprezze del viaggio di andata in Francia furono tali per gli ambasciatori veneti Matteo Dandolo e Vittorio Grimani che il primo ebbe a raccontare al Senato, il 17 dicembre 1547, che, partiti da Torino, «continuammo il viaggio nostro per l’aspre montagne del Moncenisio, e per quella valle della Savoia ci ammalam- mo», al punto che «dopo aver [...] persuaso» il collega Grimani «destramente al tornare», Dandolo narra che «chiamai da basso sotto il portico innanzi alla sua porta tutti i suoi e miei, e protestai ad alta voce, ch’io non sentiva per alcun modo ch’ei si avesse a partire, perché partendosi tenevo per certo ch’egli avesse a morire»14. Grimani si era ammalato di lebbra, o così diceva (anche se il Senato dubitava a dire il vero dell’onestà della denuncia), e se da una parte la verità della diagnosi darebbe conto della fatica del viaggio e delle scarse condizioni igienico- sanitarie degli alloggi, dall’altra anche la sua eventuale smentita testimonierebbe a favore della realtà della percezione di un viaggio in Francia come di un’imma- ne, ingrata fatica (al punto da fingersi lebbrosi, e rischiare di essere scoperti men- daci, pur di tornarsene a casa, evitando di sottoporvisi ulteriormente).

2. «Sermo volubilior», «volubiliores Galli». Comunicare a parole

Una volta giunti in Francia, passati cioè i monti, gli italiani del Cinquecento avrebbero avuto a che fare con una serie di difficoltà di ‘spaesamento’, quali sempre aveva affrontato chi si fosse messo in viaggio, normalmente reagendo con risposte di tipo accumulativo (paragone dell’ignoto al già noto, dell’oscu- ro all’immaginato, e così via)15. Non è da escludere che, sulle prime, le difficol- tà sarebbero derivate loro da normali necessità comunicative: il problema non è stato affrontato, forse, in quanto il regime epistemologico della linguistica storica non lo rende confacente alla tesi secondo cui «nel Cinquecento e nel Seicento il viaggio era visto come un’impresa filosofica e scientifica perché per- metteva al viaggiatore di fare confronti, di “riconoscere il meglio e il peggio” e formulare così valori più universali indipendenti dai costumi»16. Occorre tut- tavia presumere che, essendo nel corso del Cinquecento il numero delle lingue conosciute assai più ridotto di quello attuale17, le differenze intercorrenti tra

14 Cfr. Matteo Dandolo, Relazione di Francia (1547), in Albèri, S. I, vol. II, pp. 162-164. 15 Cfr. E. J. Leed, La mente del viaggiatore, cit., pp. 93-94.

16 Ibid.

17 Come messo in luce da P. Burke, Lingue e comunità nell’Europa moderna, trad. it., Bolo-

le singole lingue (evidentemente considerate più distanti tra loro) dovevano essere percepite in numero maggiore e in modo più spiccato, e che dunque le difficoltà linguistiche di un viaggiatore in terra straniera dovevano essere più accentuate rispetto a epoche successive.

Sul finire del terzo quarto del XVI secolo il celebre linguista Henri Estien- ne, mostrando una certa attitudine a considerare in stretto rapporto lingua e gens (in una sorta di determinismo linguistico che faceva il paio con quella specie di determinismo biologico-geografico che, sulla scorta del pensiero di Galeno, attribuiva alle diverse latitudini diverse tipologie umane, fisiche e mo- rali: questione di cui ci occuperemo, sotto due differenti propositi, nel prosie- guo del volume) avrebbe avvertito i viaggiatori che avessero voluto imparare la lingua francese che l’oggetto scelto per il loro studio era «volubile» più di ogni altra lingua, proprio come i francesi che lo parlavano: «la lingua francese è più volubile di molte altre, e allo stesso tempo lo sono i Galli, in gran parte, al di sopra delle genti che parlano altre lingue»18.

La cultura linguistica italiana era, all’epoca, in agitato fermento, e non sen- za una qualche relazione con la situazione francese, non solo per la questione dell’apporto della lingua d’oil e d’oc ai dialetti padani (questione che sembra affiorare, ad esempio, nelle Prose della Volgar lingua di Pietro Bembo, a stam- pa nel 1525), ma anche per una sorta di aspro dibattito sulla preminenza del valore letterario dell’una o dell’altra19. In un trattato di comportamento e di relazioni sociali, oltreché grandioso affresco di costume cinquecentesco, al di fuori del più circoscritto dibattito sulla lingua italiana e sulle lingue europee (e, all’interno di esso, nell’ambito della fazione cortigiana), Il libro del Cortegiano,

XVI, se ne parlano oggi nel mondo da 3000 a 5000. I confini tra le differenti lingue (che ave- vano ambiti territoriali più estesi, suddivisi all’interno in un certo numero di dialetti), erano inoltre, in conseguenza del maggior ‘spazio’ a loro disposizione e alla minore importanza del legame lingua-nazione rispetto al secolo XIX, meno definiti.

18 Cfr. Henri Estienne, Hypomneses de Gallica lingua, peregrinis eam discentibus necessariae; quaedam verò ipsis etiam Gallis multum profuturae. Inspersa sunt nonnulla, partim ad Grae- cam, partim ad Lat. linguam pertinentia, mimine vulgaria. Autore Henr. Stephano: qui & Gallicam patris sui Grammaticen adiunxit. Cl Mitalerii Epist De Vocabulis quae Iudaei in Galliam introduxerunt, M.D.LXXXII (rist. anast. Genève, Slatkine Reprints, 1968), p. 1:

«Gallicus sermo alliis plerisque est volubilior, simulque volubiliores Galli» (traduzioni nostre). Sul rapporto tra lingua e caratteri nazionali cfr. P. Burke, Lingue e comunità, cit., pp. 91-93. 19 Pietro Bembo affronta la questione della lingua francese sotto due distinti profili: da una

parte egli la associa al provenzale e alla sua diffusione nella lirica medievale non solo francese ma «per tutto il Ponente» (anche nella «patria mia»), dove si era soliti «verseggiar [...] pro- venzalmente» se si voleva «bene scrivere» (I, viii, 2 sgg.); dall’altra, relativamente al tempo presente, egli ne trattava come di una delle lingue parlate «cortigiane» di vari Paesi («parlare della Francia»; «quella che nella corte s’usa della contrada, a differenza di quell’altra che rima- ne in bocca al popolo») dalla commistione e «mescolamento» delle quali, secondo Calmeta, si era formata la lingua cortigiana per eccellenza, quella parlata alla corte papale di Roma (I, xiii): cfr. Pietro Bembo, Prose della Volgar Lingua. L’editio princeps del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano latino 3210, ed. critica di C. Vela, Bologna, CLUEB, 2001, pp. 18-35.

Baldassarre Castiglione, nel 1528, consigliava o meglio metteva in guardia con- tro la tendenza degli uomini di corte, soprattutto di quelli dell’Italia del nord, ad accogliere nella propria lingua parlata ‘esotismi’ linguistici assorbiti duran- te viaggi o soggiorni all’estero, che derivavano, a suo avviso, dalla volontà di ostentare «affettazione», con lo scopo di mostrare conoscenze, cultura, modi superiori a quelli altrui. I risultati relativi al loro apprendimento delle lingue erano peraltro, secondo lui, assai scadenti: «sarà adunque il nostro cortegiano stimato eccellente ed in ogni cosa averà grazia, massimamente nel parlare, se fuggirà l’affettazione; nel qual errore incorrono molti, e talor più che gli altri alcuni nostri Lombardi; i quali, se sono stati un anno fuor di casa, ritornati subito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o francese, e dio sa come; e tutto questo procede da troppo desiderio di mostrar di saper assai»20.

Era piuttosto diffusa, in effetti, questa tendenza a mostrare la propria cono- scenza della lingua francese una volta tornati in patria e, fortunatamente, le fonti ci tramandano qualche testimonianza, qualche residuo scritto di una tendenza che doveva riguardare principalmente il mondo dell’oralità. In un documento ufficiale, che però nasceva come resoconto scritto di un discorso orale qual era la redazione della propria relazione al Senato veneziano (e questo fatto potreb- be spiegare meglio l’anomalia), l’ambasciatore Matteo Dandolo mostrava con compiacimento i propri successi personali a corte, presso il sovrano, così come segue: «a Compiègne [«sua maestà»] mi venne incontro per due o tre passi, abbracciandomi molto umilmente, con dirmi che io fossi il très-bien venuto, ringraziando molto l’eccellenze vostre di questa amorevole dimostrazione»21. quasi dello stesso tono la citazione di un dialogo diretto avuto col sovrano Luigi XII da parte dell’ambasciatore fiorentino Francesco Pandolfini: «Pandolpho non aveva fede: et che elli era un pagliardo (che cosi fu il motto suo)»22.

Cosa ben diversa dall’ostentare, di ritorno in patria, l’«affettazione» di qualche prezioso francesismo23, erano però le necessità comunicative che si sa-

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