• Non ci sono risultati.

1. Confini e frontiere

Dove iniziava la Francia? La geografia, e non meno il senso comune degli uo- mini del Cinquecento1 nonché l’esperienza pratica dei viaggiatori italiani avrebbero detto: di là dai monti. Tuttavia, le vicende politiche e militari di un cinquantennio di guerre (le Guerre d’Italia), e prima ancora le incertezze geo- grafiche e politiche di un secolo (il XV) fatto per la corona francese di una poli- tica matrimoniale di annessioni e dei portati della fine di un’altra guerra ad un tempo territoriale e dinastica (la Guerra dei cento anni) che aveva condotto alla cacciata degli inglesi dal continente, avrebbero reso le considerazioni necessarie alla formulazione di una risposta non proprio facilmente determinabili.

Tra questi fattori, ad esempio, si inseriva una certa frammentazione tra la percezione comune, che aveva basi geografiche e culturali, e quella politica, che aveva basi giuridiche, anche a proposito di un altro problema, complemen- tare al primo, quello di dove finiva l’Italia. In questo senso, si può ribadire che erano i monti la vera frontiera. Tornando dalla Francia, nel settembre 1528, l’ambasciatore veneto Andrea Navagero ritrovava che «la Novalese è il primo loco d’Italia». È bene ribadire come egli stesso aveva poco prima affermato come proprio alla «Novalese» finisse (cioè iniziasse, per chi si fosse recato, nella direzione opposta, in Francia) la montagna del Moncenisio, mentre il giorno successivo, di fianco alla registrazione sul taccuino di viaggio della sua partenza da Susa, testa della biforcazione stradale Moncenisio-Monginevro, annotava che «de lì innanzi si comincia a parlar a miglia, alla foggia d’Italia», testimoniando un ulteriore arretramento al di qua dei monti per una frontiera

1 Inteso come atteggiamento mentale e sistema di conoscenza, «sistema culturale» (alla ma-

culturale fondamentale al mondo dei trasporti e delle comunicazioni transal- pine, quella del mutamento dell’unità di misura della lunghezza percorsa, il cui limite ultimo era, per l’appunto, l’inizio delle strade per la Francia2.

Uno dei luoghi da cui i viaggiatori italiani facevano più sovente iniziare la Francia era senz’altro il Ponte Belvicino. Nel 1528 Andrea Navagero vi co- struiva un triplice livello di confine: politico-dinastico (tra i territori del re di Francia e quelli del duca di Savoia), viario (per la maggiore o minore vicinan- za dal confine di località poste su cammini differenti), storico-geografico (il tracciato visto come funzione storica della natura geografica della regione, da cui era derivata la decisione di marcare il confine secondo il corso del fiume, «riviera [...] detta le Chi», Le Guiers, un affluente «che va nel Rhodano», passa per Ponte Belvicino, «& è il confino & quel che parte da questo canto il Delphinato dalla Savoia»)3. Egli affermava così che «Ponte Beau visin mezzo è del Re di Francia, dalla parte del fiume verso Francia, l’altro mezzo è del Duca di Savoia, molto più innanzi confina il Duca di Savoia con Franza, per- che per uno altro camino, uscendo de Lion a mezzo miglio comincia quel del Duca di Savoia, ilche forsi fanno le volte & camino di questo fiume»4.

A meno di quindici anni di distanza, nel 1542, un altro ambasciatore ve- neto, Matteo Dandolo, passando per il medesimo luogo, univa in una serie di molteplici considerazioni il ruolo di quel tratto di confine. Anzitutto, mette- va in luce il mezzo fisico della divisione, frutto dell’azione dell’uomo («una piccola trinciera»), poi evidenziava il suo significato culturale (linguistico ed etimologico): «così si chiama perché anticamente il re era chiamato da quel duca il Belvicin». Dopodiché, rendeva la sua descrizione più precisa attraverso l’introduzione di differenti elementi che si potrebbero disporre su di un du- plice piano di lettura, ad un tempo territoriale e dinastico. Dopo una sintetica introduzione alla località, che «divide la Savoia dalla Francia», Dandolo pas- sava infatti, attraverso quello che appare come il risultato dell’evocazione di un suo passaggio fisico (da viaggiatore) sul luogo, a una più complessiva descrizio- ne dell’assetto dei territori di tutta la zona di confine: «di qua da quel ponte, a man sinistra nell’andare, ha anco sua maestà il Delfinato, ch’è un grande e buon paese, che dà il nome ai primogeniti del re, i quali si chiamano Delfini»5.

2 Cfr. Andrea Navagero, Il viaggio fatto in Spagna et in Francia, cit., ff. 61r-v.

3 Si notino ancora una volta i non pochi problemi di pronuncia e di comprensione del France-

se orale cui doveva andare incontro un italiano: il nome del fiume che Navagero riporta come «le Chi», e di cui, peraltro, si presume che egli non dovesse essere proprio certo («detta»), era in realtà pronunciato dai Francesi dell’epoca «Iart», come attesta Charles Estienne, La guide des chemins de France, cit.,p. 162 («le pont Beauvoisin sur la riviere du Iart, laquelle en cest

endroit fait separation du Daulphiné & Savoye»), mentre, nell’attuale cartografia francese, è attestato come «Le Guiers».

4 Andrea Navagero, Il viaggio fatto in Spagna et in Francia, cit., ff. 59 r-v. 5 Cfr. Matteo Dandolo, Relazione di Francia (1542), in Albèri, S. I, vol. IV, p. 30.

La struttura della descrizione di Dandolo proseguiva poi attraverso un ulte- riore scarto, che conduce narratore (l’ambasciatore) e lettori/ascoltatori (il Senato veneto) al punto di passaggio ad una descrizione che coniuga le vicende storico- politiche con i loro risultati sul piano geo-politico, militare ed architettonico. Pur senza che venga analizzata la situazione delle frontiere francesi da un punto di vista ‘complessivamente’ politico come avrebbero fatto alcuni suoi successori diplomatici residenti veneziani in Francia (di cui ci occuperemo), nella descri- zione di Dandolo, il cui assetto è ancora per certi aspetti molto vicino alla forma narrativa propria del resoconto di viaggio, emergono elementi essenziali per la formulazione ed elaborazione di analisi più complesse: la storicità dei confini (il loro divenire nel tempo, cioè nella storia) e il rapporto tra la loro natura geogra- fica (dato) e quella politico-militare (dato e conseguenza). La formulazione più ambiziosa da questo punto di vista l’ambasciatore la offre nell’esempio relativo alla contea di Bresse («Bres»): «ha poi questa corona di Francia, per averla levata ultimamente al duca di Savoia, la contea di Bres a man dritta, buonissimo e bel paese, per il quale il duca veniva ad’ esser signore sin di mezzo il fiume Rodano: nella qual contea si trova Borgo [Bourg-en-Bresse], buonissima terra che questa maestà ha fatto e va facendo molto forte per esser frontiera da quella parte»6.

Ancora di seguito, il piano su cui Dandolo poggiava la sua analisi del terri- torio di confine tra regno di Francia e ducato di Savoia prosegue scorrendo su un ulteriore, duplice binario sul quale egli colloca la questione dei territori che il Duca possedeva o aveva posseduto non solo in Savoia ma anche in Piemonte (cioè al di qua dei monti). Su tale duplice binario egli avviava un processo di analisi e di ‘codificazione’ del presente ‘politico’ e militare del confine franco- savoiardo alla luce degli ultimi e più recenti eventi politici, di cui addirittura tentava un’analisi attraverso il rimando ‘intertestuale’ alla corrispondenza che aveva scandito i suoi rapporti di ambasciatore con il Senato durante la missio- ne in Francia, vale a dire in un tempo che (almeno sulla carta) doveva essere immediatamente precedente a quello della relazione. Dandolo osservava dun- que i mutamenti politico-dinastici nel passaggio tra le due dominazioni (fran- cese e sabauda) sul territorio di confine, attraverso quel complesso sistema di riferimenti alla sfera politica, militare, e non meno simbolica e rituale che era più proprio del suo compito di funzionario politico: «ha poi [il Re] nel Pie- monte quanto l’EE. VV. intesero per le mie da Torino nell’andar di là, dove scrissi che vedevo i francesi fortificare di sorte il paese, che mi pareva avessero in animo di non più restituirlo; e siccome nell’andare non trovai terra nella Savoia che avesse l’arme di Francia, così a questo mio ritorno le ho trovate anco in ogni minimo luogo, nuove e bellissime; il che conferma quanto già scrissi questo giugno alla S. V., che sua maestà aveva detto a Montepulciano [Legato pontificio] che ella aveva unita la Savoia alla corona».

Poco sopra, in apertura del passo, Dandolo aveva offerto la chiave di let- tura non solo militare, ma ancora una volta personale (della sua esperienza di viaggiatore diplomatico) di queste circostanze e delle ultime vicende della politica annessionistca della corona francese (un’introduzione che era ad un tempo conclusione e bilancio): «ha poi [il Re] la Savoia quasi tutta, per la qua- le si viene da quel Ponte Belvicino sin a Torino sempre per il paese suo, senza impedimento alcuno». L’osservazione geografica (ancora una volta diretta, propria cioè del viaggiatore) lo spingeva in questo caso a precise considerazio- ni politiche: «sono tanti passi così forti, che sua maestà manifestamente ha compreso che se il duca l’avesse voluto difendere, essa avrebbe avuto di gran fatiche ad ottenerlo»7.

Per mezzo di un ulteriore passaggio attraverso il vicolo non impervio ma certo piuttosto angusto della narrazione diretta – questa volta esplicita – della propria esperienza personale di viaggiatore politico, quasi svolgendo un lavoro che oggi diremmo di antropologo o di etnografo, ma che al tempo si sarebbe senza dubbio connotato come il lavoro di uno storico, Dandolo presentava il resoconto di un suo dialogo (una sorta di intervista orale, simile a quelle condotte talora per iscritto da Paolo Giovio)8 con gli abitanti di Chambéry, principale città all’interno del territorio del ducato di Savoia (diremmo, anzi, la capitale, se non fossimo negli ultimi decenni di un’epoca che ancora non prevedeva capitali stanziali): «essa terra di Zamberi per esser tra le montagne che è assai buona terra, & nella qual vi sta un numero de mercatanti, è la prin- cipal terra del Ducato di Savoia, & nellaqual il piu del tempo sta il Duca, et la corte»9. Il fulcro del suo interesse non era per così dire ‘psico-sociale’, come si potrebbe incorrere nell’errore di ritenere oggi, ma evidentemente politico, legato, come vedremo di seguito (e come abbiamo già accennato) a formula- zioni più complesse di problematiche legate ai confini e al territorio francese, e consistente essenzialmente nell’analisi degli effetti di un mutamento del- le linee di confine su uno degli elementi costitutivi («forze») di uno stato

7 Cfr. ivi, pp. 30-31 (corsivi nostri).

8 Di tali questioni ci siamo occupati, in merito a due dei più celebri esempi cinquecenteschi

di storici del presente dediti alla raccolta diretta del materiale che avrebbe costituito le proprie ‘fonti’ (Francesco Guicciardini e Paolo Giovio), nel par. 3 del cap. 5 di I. Melani, Il tribunale della storia. Leggere la «Methodus» di Jean Bodin, Firenze, Olschki, 2006, pp. 213-221 a

cui si rimanda. Ulteriore rimando ci sia consentito, per l’utilizzo da parte degli ambasciatori veneti di procedimenti di apprendimento delle informazioni simili a quelle degli storici loro contemporanei, a I. Melani, Gli ambasciatori veneti nella Francia del primo Cinquecento, cit.,

pp. 501-505.

9 Andrea Navagero, Il viaggio fatto in Spagna et in Francia, cit., ff. 59v-60r. Più esplicito, al-

cuni decenni più tardi, nel 1553, dieci anni prima dello spostamento della capitale del ducato a Torino, operato da Emanuele Filiberto (1563), Charles Estienne, La guide des chemins de France, cit., p. 163, nel descrivere «Chambery ville, chasteau» come «Siege capital, & Parle-

(in questo caso il regno di Francia): la popolazione. Gli strumenti con i quali Dandolo si trovava ad affrontare la tematica del senso di appartenenza politica («il cuore») delle popolazioni savoiarde erano il risultato della commistione di elementi diversi, che si rifacevano ad ambiti culturali tra loro differenti, come tendono a dimostrare le spie semantiche e concettuali «cuore costante» (al grado superlativo) e «animo fermo».

Di tali espressioni si noterà, nel caso della prima, il tenore letterario, o per meglio dire poetico e lirico, come dimostrano le sue frequenti occorrenze – per limitarci ai secoli XV e XVI – nell’opera di Luigi Pulci («amor costante»), Lorenzo de’ Medici («spirti miei costanti»), Torquato Tasso («la costante pietà, la fede invitta»)10. Nel secondo caso, invece, si dovrà rilevare una mol- teplicità di impieghi, e una loro evoluzione, da quelli più propriamente lirici due-trecenteschi (Rinaldo d’Aquino: «ferma sicuranza»; Guittone d’Arezzo: «grande e ferma voglia»; Meo Abbracciavacca: «lamento [...] quasi fermo per la molta usanza»; Ricciardo da Cortona: «el cuore fermo e forte»), ad uno più propriamente filosofico e storico, tre-quattro e cinquecentesco (Brunet- to Latini: «fare fermissime compagnie»; Bono Giamboni: «la confermata e fermissima Ecclesia di Cristo»; Matteo Palmieri: «mai alcuni popoli furono sì stabiliti e fermi»; Pier Francesco Giambullari: «mantenimento fermissimo della pace del Cristianesimo»), e finanche teologico-politico (come nella Bib- bia tradotta da Diodati: «io renderò fermo il suo trono in eterno»), i quali, si può dire, hanno tutti o quasi tutti la risultante in quello tra gli usi cinquecen- teschi che appare a nostro avviso più vicino al significato del compendio nel passo di Dandolo, vale a dire la formulazione di Giovanni Botero secondo cui «Stato è un dominio fermo sopra popoli; e Ragione di Stato è notitia di mezzi atti a fondare, conservare, e ampliare un Dominio cosi fatto»11.

È piuttosto naturale immaginare come e quanto l’uso di termini com- pendiosi talmente generali e dalle implicazioni di tale vastità costituisse ad un tempo la causa e l’effetto di una scelta precisa, quella cioè di confeziona- re una descrizione che non potesse non tener conto di un’ampia gamma di elementi, tale da condurre l’analisi dell’ambasciatore al di fuori di criteri di stretta ‘convenienza’ politico-istituzionale («danno», «ingiustizie infinite») nel momento stesso in cui avrebbe presentato la situazione della popolazione di Chambéry, che a suo avviso si sentiva sabauda e non francese: «ragionando meco quei di Ciamberì, principal terra in essa regione, mi dissero che quando il re la mandò a dimandare, e lui rispose che non voleva il danno loro, onde si dessero e conservassero il cuore. Il quale glielo mantengono costantissimo,

10 Cfr. S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, cit., vol. III, 1967, p. 895, ad

vocem Costante (4).

11 Cfr. ivi, vol. V, 1968, p. 844, ad vocem Fermo (5); e Giovanni Botero, Della ragion di Stato Libri dieci. Con tre Libri delle Cause della grandezza delle Città, In Venetia, appresso i Gioliti,

promettendo che se il re proprio glielo venisse a domandare gli risponderebbo- no d’aver in ciò l’animo fermo, se ben da molti vien detto ch’esso duca faceva dell’ingiustizie infinite»12. Le difformità intercorrenti tra realtà geografica, politica, e culturale di questo confine erano espresse dallo stesso Dandolo an- che poco oltre, a proposito del provvedimento amministrativo che imponeva l’uso della lingua francese orale e scritta nella discussione delle cause e nella redazione degli atti del Parlamento di Torino: «a Torino, che anco in questo, benché sia in Italia, in questo mio ritorno ho inteso che vogliono che si trat- tino le cause in lingua francese»13. Non era comunque casuale che la ricerca di una forma di appartenenza passasse, in una zona di confine così soggetta a mutamenti dinastici, per la fedeltà ad uno stato e non ad un sovrano (che, ca- somai, impersonava e non surrogava l’istituzione), visto ad esempio come nel corso del primo Cinquecento, per lo stesso ordine di motivi, un fenomeno del genere si era sviluppato tra i funzionari dello stato di Milano14.

Un altro punto nodale della percezione dei confini tra Francia e Italia da parte dei viaggiatori italiani riguardava un diverso tratto della frontiera tra i territori del regno di Francia e quelli del ducato di Savoia. In anni non lontani da quelli in cui Navagero descriveva il confine di Ponte Belvicino, Antonio de Beatis, di ritorno in Italia, enunciava la strana posizione della città di Nizza. Il prete napoletano, che già a Lione, come vedremo, aveva riscontrato una vici- nanza non solo geografica, ma anche culturale e di abitudini di vita con l’Italia, iniziava con la descrizione della città di Nizza una sezione del suo diario di viag- gio intitolata ormai «Italia bella». Elemento principale della sua descrizione vi era senza dubbio la sottigliezza del confine, la labilità del passaggio tra due realtà politico-amministrative diverse («essendo quella in tanta extremità de confini»). Si indovina in essa una lettura della posizione geografica della città di Nizza che, a suo avviso, la rendeva una città francese, controbilanciata però da elementi che ne fondavano, su diverse basi, l’«italianità». Fin dalla corogra- fia e dalla posizione geografica tra mare e montagna si lasciava, certo, presume- re l’ardua definibilità della sua appartenenza territoriale («la città de Nizza è sopra la marina, posta parte in monte et parte in piano»). Il risultato di questa strana posizione geografica stava tutto nell’incertezza: salda la posizione poli- tica («Signor ni è lo illmo signor duca de Savoya»), meno tipica e più peculiare era la natura del terreno, dai cui frutti non si sarebbero evinte caratteristiche

12 Cfr. Matteo Dandolo, Relazione di Francia (1542), in Albèri, S. I, vol. IV, pp. 30-31. 13 Cfr. ivi, p 32.

14 F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, in Id., Opere, vol. 3, t.

I, Torino, Einaudi, 1971, pp. 143-184 (si tratta del cap. I della parte III: «Il governatore e gli organi dell’amministrazione centrale nel periodo di Carlo V»), mette in luce con chiarezza la differenza tra fedeltà al principe e fedeltà allo Stato, che nel Milanese nasceva proprio dal continuo variare del principe nella prima metà del Cinquecento (Sforza, Re di Francia, Sforza, Imperatore, Sforza e poi di nuovo Imperatore).

locali al punto da renderla a suo modo desueta («essa ha di buoni vini, copia de agrumi et cetra de le più grosse che habia ancora viste»). Francia mediterranea? Liguria? Italia meridionale? Non si saprebbe dirlo con certezza... Alcuni altri elementi erano però, secondo i parametri dell’autore, decisamente italiani (e anche questo era un tratto di «italianità» in comune con la città di Lione): il fatto ad esempio di essere «dotata de belle donne», e la foggia dei loro abiti («l’habbiti de le quali tirano al genuese»). A differenza di quanto tentato da Navagero per il Ponte Belvicino, la spiegazione della natura del confine era in questo caso cercata non tanto e non solo nella politica e nella geografia (la nota- zione militarmente più interessante dal punto di vista del confine è addirittura relegata alla conclusione della descrizione: «dicta cita ha un castello su il monte che è forte»), quanto in fattori culturali, in una sorta di commistione tra ele- menti di paremiologia popolareggiante da un lato, e sapere erudito (araldica e studio delle etimologie) dall’altro: «Nizza secondo la opinione vulgare è decta perché non sta ne za ne lla, zo è ne in Italia ne in Franza, [...] et ad tale effecto per arma fanno una aquila con pie levato, che non posa in niun loco»15.

Seppur il più vicino, ovvero quello che nessun viaggiatore italiano avrebbe potuto evitare di passare per recarvisi, le Alpi non erano tuttavia l’unico confine montuoso del regno di Francia. La stratificazione dei livelli e dei significati di frattura che un confine rappresentava per natura era però molto varia, e dipen- deva, nell’immediato, da fattori politici che determinavano, come osservato, la realtà del tempo presente, sovrapponendosi, talora in posizione conflittuale, con strutture territoriali, linguistiche e culturali di più lungo periodo. Così, l’oscilla- zione tra una percezione (o un’ammissione di preminenza di significato) politica ovvero fisica del territorio francese era all’epoca (un’epoca di frontiere incerte, non definite e non certo stabili) tutt’altro che ferma e stabilizzata.

Al pari di quello nord-orientale, delimitato dall’arco alpino, anche il con- fine geografico sud-occidentale con la Spagna era costituito da montagne, i Pirenei. questa catena costituiva un saldo contrafforte almeno agli occhi di due osservatori italiani che, attraverso la Francia, avevano viaggiato in Spagna e sulla via del ritorno rispettivamente negli ultimi anni del regno di Ferdi-

Documenti correlati