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Sezione II. Discourse Politeness theory: (Im)politeness studies,

Capitolo 2. Cosa si intende per politeness conversazionale?

È ormai da molto tempo che l'importanza di una teoria conversazionale della politeness è stata riconosciuta. Già i creatori delle prime teorie sulla politeness pragmatica citati in precedenza (Lakoff, Leech, Brown e Levinson ecc.) fanno tutti riferimento al fatto che la politeness sia strettamente legata a elementi individuabili soltanto a livello conversazionale. Un esempio che viene spesso citato è quello dell'atto linguistico della richiesta: al momento di richiedere qualcosa, una delle esigenze sarà, certo, quella di considerare il grado di cortesia formale dell'espressione linguistica in sé. Quindi, in giapponese, si considererà, ad esempio, la selezione dell'onorifico da utilizzare (nel caso in cui la scelta dell'onorifico sia quella ritenuta più appropriata dal parlante). Ad esempio fra:

~shite itadakemasen ka = "sarebbe così gentile da...", forma costituita dalla ren'youkei del verbo suru (“fare”) e dal verbo itadaku (forma umile del verbo morau, “ricevere”), nella sua kanōkei (forma potenziale), più l'ausiliare cortese - masu e dalla particella finale ka usata per indicare l’interrogativa;

~shiteitadakemasenka = "non sarebbe così gentile da...", uguale alla forma precedente ma attenuata dall’uso della forma negativa;

~ shiteitadakeruto arigatai no desu ga = "Le sarei grato se fosse così gentile da...”, forma ulteriormente addolcita dallo spostamento del focus dall’interlocutore cui viene rivolta la richiesta, al parlante, che diventa il soggetto della gratitudine, ecc.

In ogni caso, prima di arrivare all'effettivo atto di richiesta, sulla politeness sostanziale avrà un ruolo fondamentale l'appropriatezza, da un punto di vista conversazionale, della catena di enunciati che la precedono, ovvero, ad esempio, se si saranno introdotti prima della richiesta vera e propria il motivo che porta a tale richiesta, un preambolo e un saluto appropriati, ecc.

Semplificando con un esempio: dovendo chiedere ad un professore di scriverci una lettera di raccomandazione, non ci si sognerebbe nemmeno di andare nello studio del proprio professore, e subito dopo aver aperto la porta passare alla richiesta, per quanto formulata in una perfetta cortesia linguistica formale (suisenjō o kaite itadakeru to taihen arigatai no desu ga, "Le sarei

infinitamente grato se potesse cortesemente scrivermi una lettera di raccomandazione").

Per inciso, tale considerazione vale tanto per il giapponese quanto per l’italiano o qualsiasi altra lingua, e anche per atti linguistici diversi da quello di richiesta, essendo infatti riconducibile ad un aspetto universale della politeness.

Inoltre, altri aspetti della politeness conversazionale in senso generico facili da immaginare sono la gestione degli argomenti di conversazione (ad esempio il modo e la frequenza con cui se ne introducono di nuovi), ecc.

Per esempio, finché ci si trova all’interno dell’ambito conversazionale (che ricordiamo consiste in un’azione di interazione reciproca) generalmente non sarà polite, o meglio, saranno avvertiti come impolite8, comportamenti come: ignorare l'oggetto di conversazione proposto dall'interlocutore cambiando all'improvviso argomento, oppure interrompere l'interlocutore mentre sta parlando.

Entrambi questi esempi, come si capisce, hanno più a che fare con il modo di introdurre un argomento o il contenuto degli enunciati, più che con il grado di cortesia formale degli enunciati stessi.

Finora, nel puntare sulla sistematizzazione, la classificazione e l'attribuzione di un ordine al grado di cortesia delle forme linguistiche in sé, non si sono trattati minimamente elementi a livello conversazionale come i già citati contenuto degli enunciati, o il modo di introdurre nuovi argomenti nella conversazione. E, a dire il vero, in tale tipo di approccio c'è comunque una grande utilità. Dato che è in effetti possibile, usando espressioni estremamente cortesi, cambiare l'argomento del discorso, interrompere l'interlocutore, ecc., se non si fossero eliminati per un attimo dall'analisi linguistica alcuni elementi (ovvero appunto, quelli a livello conversazionale), non sarebbe stato possibile procedere ad una sistematizzazione del grado di cortesia formale delle espressioni in sé.

E proprio tale sistematizzazione, come si è già ribadito, è stata il principale oggetto, per esempio, degli studi sul keigo effettuati finora in ambito giapponese. Questo appunto perché, in particolare in lingue come il giapponese, dotate di keigo (inteso come sistema molto articolato di realizzazioni a livello morfologico-

sintattico di politeness strategies), uno stesso contenuto comunicativo (ad esempio "chiedere all'interlocutore se voglia mangiare o meno"), corrispondono diverse forme linguistiche caratterizzate da gradi di cortesia formale molto diversi, selezionati dal parlante in base a situazione contingente e interlocutore. Si pensi all’esempio, appunto, del chiedere se l’ascoltatore voglia o meno mangiare. Si potrà dire: “taberu?”, “tabemasu ka?”, “meshiagaru?”, “meshiagarimasu ka?”, ecc.

Queste espressioni hanno tutte esattamente il medesimo contenuto ("mangi(a)?"), ma differiscono per il livello di cortesia della forma linguistica. Sono infatti rispettivamente: nella forma finale/piana (shūshikei), connettiva (ren'yōkei) più l'ausiliare cortese –masu, verbo onorifico nella forma finale/piana, verbo onorifico nella sua forma connettiva (ren'yōkei) più l'ausiliare cortese – masu.

Invece, nell'ambito della ricerca sulla cortesia pragmatica, che si propone di esaminare se l'effetto reale dell'atto comunicativo sia di cortesia per entrambi e nei confronti di entrambi (cioè se dopo l’atto linguistico sia parlante che interlocutore si trovino ancora, o ancor più di prima, a proprio agio), è fondamentale considerare attivamente i fenomeni a livello conversazionale. Questi ultimi hanno appunto a che fare con l'appropriatezza e correttezza del modo in cui gli enunciati vengono introdotti (si riporti alla mente l’esempio della richiesta al professore). Esempi di tali fenomeni conversazionali sono: il corso della conversazione fino a quel momento, il contesto (cioè in quale situazione un determinato enunciato sia stato effettuato), il quale a sua volta non può prescindere dal contenuto stesso dell'enunciato, in quanto altro elemento fondamentale in grado di determinare un effetto polite o meno.

In altre parole, tornando all'esempio del verbo "mangiare": si ipotizzi che avessimo manifestato implicitamente, nel corso della conversazione fino a quel punto, il desiderio o l'intenzione di non voler mangiare più, (facendo capire che quel piatto non ci piace, ad esempio). In tale contesto, se ci venisse chiesto ancora una volta: (meshiagarimasu ka? "vuole mangiare?"), per quanto venga chiesto in modo polite, usando l'onorifico nella sua forma cortese ulteriormente attenuato dall’interrogativa, non si potrà certo dire che l'effetto risultante sarebbe piacevole (Usami, 2002 (b), 7, p. 103).

Se si amplia l'oggetto di ricerca fino a tal punto, potrebbe sorgere il dubbio, nei confronti di questo tipo di approccio che ha come oggetto la politeness conversazionale, che il tutto smetta di essere semplicemente un problema della lingua.

Ed effettivamente è così. Bisogna partire dal presupposto che la politeness conversazionale non abbia come oggetto la politeness linguistica, ma quella dei comportamenti linguistici. Questi comprendono allo stesso tempo sia il problema della scelta della forma linguistica (usare il sonkeigo, linguaggio onorifico per azioni compiute dall’interlocutore, oppure no, ecc.), scelta, questa, che appartiene al livello di frase o enunciato, sia il "discourse behavior" (danwa kōdō, comportamento conversazionale), ovvero l’insieme dei fenomeni appartenenti al livello conversazionale, come la frequenza e il modo di introdurre nuovi argomenti nella conversazione, lo speech level shift (il passaggio da un registro linguistico ad un altro, sia esso superiore o inferiore), il modo di introdurre gli enunciati, il contenuto degli stessi (che è prodotto e plasmato sul contesto), ecc.

Proviamo ad allargare il contesto del precedente esempio del (meshiagarimasu ka? "vuole mangiare ancora?"), ed immaginare che sia l'enunciato di un ospite (il proprietario di un ristorante o il padrone di casa) che sta chiedendo conferma al cliente/ospite se possa portare via o meno il piatto su cui è avanzato del cibo. In questo caso, basandosi su tale contesto, si può dire che sarebbe stato più polite aver chiesto (osage shite mo yoroshii desu ka? "posso portare via?") del “meshiagarimasu ka” dal tono vagamente inquisitorio (Usami, 2002 (b), 7, p. 104). Si noterà certo che tale differenza nell’effetto finale fra forma linguistica dell’enunciato in sé e contenuto dello stesso sia naturalmente una caratteristica universale della cortesia, applicabile tanto al giapponese, quanto all’italiano, quanto a qualsiasi altra lingua.

Ragionando in tal modo, la politeness non tratta soltanto il grado di cortesia delle forme linguistiche come “tabemasu ka” o “meshiagarimasuka”, ma diventa naturalmente e profondamente collegata alla questione della scelta dei comportamenti linguistici in sé e per sé (chiedere “sagete mo ii ka” oppure “taberu ka”), anche se, ovviamente, è vero ed innegabile che rimane indissolubilmente collegata anche alla forma linguistica. In altre parole, in un approccio pragmatico, come lo è quello in questione, un’analisi della forma

linguistica in sé non sarà sufficiente, ma andrà correlata ad un’analisi di tipo pragmatico che comprenda, appunto, anche elementi quali il contenuto dell’enunciato, sia in giapponese che in qualsiasi altra lingua.

Di conseguenza, per scegliere il comportamento linguistico adeguato nel caso esempio precedente, bisogna considerare se nel corso della conversazione fino a quel momento c'era stato o meno un enunciato in cui il cliente/ospite avesse implicato che non voleva più mangiare. Questo significa riflettere sulla politeness conversazionale.

Fare ricerca sulla politeness conversazionale diventa perciò fare dei comportamenti linguistici l'oggetto di tale ricerca. In parte era già così anche nella teoria sulla politeness a livello di frase o atto enunciativo di Brown e Levinson (1987), ma fare ricerca sulla politeness conversazionale significa dover continuare ad espandere il campo di interesse verso una parte della ricerca sulla comunicazione interpersonale che non si limita al quadro linguistico all'interno della quale si è sviluppata fino ad oggi.

Come è già stato detto, il numero di studiosi che riconoscono l'importanza fondamentale della ricerca sulla politeness conversazionale, sta aumentando rispetto al passato. Inoltre, stanno aumentando anche il tipo di ricerche che toccano anche la politeness conversazionale a partire da un'analisi di una catena di enunciati (case study).

Ciononostante, i tentativi di prendere in analisi la politeness conversazionale come un comportamento comunicativo interpersonale, e di teorizzarla e sistematizzarla organicamente, si può dire siano stati finora pressoché assenti. Una delle ragioni cui si può pensare, in realtà estremamente semplice, è che, banalmente, lavorando su comportamenti conversazionali più che ad un livello frasale/enunciativo, poiché i fattori, primi nel caso conversazionale, diventano molti e molto complessi, è estremamente più difficile costruire e ordinare un sistema teorico. Oltre a ciò, c'è anche il fatto che tuttora, soprattutto fra i linguisti, sono ancora in pochi ad essere dell'idea che la politeness vada trattata oltrepassando la questione delle espressioni linguistiche. Ovviamente il fatto che esistano molteplici approcci alla ricerca sulla politeness non è affatto negativo, al contrario.

All'interno della Discourse Politeness theory, però, uno fra gli approcci ad essa che vengono considerati di estrema importanza, è quello di guardare alla

politeness come un atto di comunicazione interpersonale, e sistematizzarla ponendo al centro i tre principi della relatività (sōtaisei), dell'azione reciproca (sōgosayō), e della dinamicità (dainamikkusu).

Il primo passo verso la Discourse Politeness theory è stato compiuto nel 2001, con il “poraitonesu no danwa riron kōsō” (“l’idea della teoria conversazionale della politeness”) (Usami, 2001). In esso non vengono solo presentate, come risultato di ricerca, le opinioni già espresse fino a quel momento sulla base dei risultati delle ricerche sul campo compiute da Usami nei 10 anni precedenti, ma viene nuovamente spiegato, commentato e concettualizzato il concetto di Discourse Politeness. Si tratta dunque di una teoria elaborata su dati concreti nel corso (ad oggi) di più di vent'anni.

Ma che tipi di concetto è la Discourse Politeness?

Il concetto di Discourse Politeness nasce principalmente da tre punti di vista: 1. È necessario che la politeness in quanto effetto delle espressioni

linguistiche vada considerata come comportamento conversazionale. 2. Per esaminare e confrontare la politeness attraverso un quadro analitico

comune che superi le particolarità che caratterizzano le singole lingue, siano esse dotate di keigo o meno, non è sufficiente prendere in considerazione la politeness all’interno di una conversazione breve come potrebbe essere una catena di un certo numero di enunciati, o addirittura di un atto enunciativo costituito da una sola frase, poiché su questo piano l'influenza del grado di cortesia delle singole forme linguistiche e la dimensione della cortesia come espressione linguistica in sé è troppo forte.

3. Per sistematizzare i principi di dinamicità, relatività e azione reciproca, e portare la teoria sulla politeness verso un qualcosa di più universale, è necessario introdurre il punto di vista di una Discourse Politeness che aggiunga la conversazione stessa nella sua totalità, come una delle variabili che determinano la politeness.

La definizione di Discourse Politeness diventa dunque:

la globalità delle dinamiche delle funzioni che diversi fattori, comprendenti sia quelli a livello frasale, sia quelli che non possono essere considerati a livello frasale o di singolo atto enunciativo, ma che avvengono ad un livello