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Sezione I. Politeness studies, dall’approccio linguistico iniziale

Capitolo 3. La Politeness Theory di Brown & Levinson (1987): critiche,

3.2 Critiche

Riassumiamo dunque le tendenze riconoscibili all’interno del variegato insieme di studi, sia in contesto giapponese che non, che hanno tentato di mettere in discussione la teoria di Brown e Levinson (1987).

Prima di questo, però, sarà opportuno ricordare, come, per capire a fondo questa teoria, sia necessario tenere a mente che non si tratta di una teoria di linguistica. Si tratta di una teoria composita che consiste di aspetti e livelli diversi, che possono essere riassunti nei quattro punti principali che abbiamo visto in poc’anzi. È cruciale inoltre non dimenticare che tali punti non vanno considerati come unità a sé stanti, ma globalmente. La mancata comprensione di questo particolare si è rivelata infatti essere una delle cause principali che hanno portato a tante critiche nei confronti di questa teoria. Esse si possono dunque in gran parte ricondurre ad un fraintendimento, appunto, della stessa.

Usami (2002 (b), 3, p. 110) afferma addirittura con decisione:

A quanto vedo, anche all’interno dell’enorme numero di studi che sono stati finora compiuti proprio su stimolo di quello di Brown e Levinson (1987), fra quelli che hanno in particolare criticato la loro teoria, ce ne sono molti che fraintendono grandemente i concetti basilari che vengono utilizzati nella

politeness theory in questione. Proprio per questo, al contrario, si deve piuttosto

guardare con dubbio proprio alla credibilità e validità di molti di quegli stessi studi che presentano dubbi sull’universalità di tale teoria.

Si possono identificare due gruppi distinti all’interno degli studi più rappresentativi fra quelli che si sono scagliati contro la teoria di Brown e Levinson (1987) con critiche riconducibili all’aver preso in considerazione soltanto uno dei suoi quattro aspetti:

linguaggio onorifico in una determinata lingua, e hanno dedotto che la teoria di Brown e Levinson (1987) non potesse spiegare i princìpi del funzionamento del keigo in quella stessa lingua. Nel caso giapponese si pensi a Ide (1989), o Matsumoto (1988).

2. Studiosi che, mescolando il concetto di faccia, di cui, come abbiamo visto, Brown e Levinson (1987) danno una precisa definizione operativa, con i concetti propri di ciascuna cultura quali menmoku/menboku, kao (in Giappone) e menzu (in Cina), hanno avanzato dubbi sull’universalità di tale concetto chiave. Su tale base hanno poi rifiutato l’intera teoria di Brown e Levinson (1987). Si potrebbero citare, fra gli altri, Gu (1990) e Mao (1994) nel caso cinese, e ancora Matsumoto (1988) in quello giapponese.

Questa tendenza a mettere in discussione in toto la teoria di Brown e Levinson (1987) a partire da un’intuizione avuta su un aspetto di una particolare lingua, fraintendendo però uno o più concetti chiave di tale teoria, ha in realtà messo in evidenza la necessità di verificare in modo fondato e ragionevole l’universalità della stessa, da un punto di vista più globale. Come scrivono anche Dániel Z. Kádár e Sara Mills (2011, pp. 6-7): “in a certain respect, the major criticism of Brown and Levinson, such as Ide (1989) and Gu (1990), are ‘emic criticisms’, which are unable to provide theoretical alternatives for the framework criticised. […] Consequently, the Brown and Levinsonian framework continues to play an important role in the field, and some recent studies, such as Li (2005), apply Brown and Levinson in a rather uncritical way.”

D’altra parte, ci sono stati anche altri studi, d’impronta diversa da quelli ricordati sopra, che volevano verificare la correttezza dell’equazione per il calcolo del grado d’imposizione (feisu shingaido mitsumori no kōshiki) o delle condizioni per la scelta delle strategie della cortesia (sutoratejī no sentaku o kettei suru jōkyō tramite prove concrete, quali l’elaborazione di dati ottenuti da indagini effettuate tramite questionari. Tuttavia, anche nella maggior parte di questo tipo di studi, sono numerosi quelli in cui si affronta soltanto uno o due dei quattro aspetti su cui la teoria si sviluppa.

Cercando dunque di riassumere in modo schematico le principali “linee di fraintendimento” della teoria di Brown e Levinson (1987) otteniamo queste quattro ragioni:

1. Non viene compreso appieno come questa teoria non sia semplicemente una teoria linguistica, ma come sia una teoria della comunicazione interpersonale dinamica la cui struttura consta di quattro pilastri distinti. Conseguentemente viene criticata l’intera teoria, concentrandosi su soltanto uno di quei quattro concetti base.

2. Poiché il particolare linguaggio specifico che esprime i concetti chiave al nucleo di questa teoria, viene utilizzato come se fosse il suo equivalente generico comunemente usato, diventa difficile comprendere correttamente il vero significato di tale linguaggio specialistico e questo genera confusione. Si tratta ad esempio dei termini “politeness”, “positive” e ”negative” “face”, “strategy”, ecc.

3. La teoria della politeness di Brown e Levinson (1987) viene spesso confusa, come è già stato fatto notare, con le teorie sul keigo in lingue che, come il giapponese, possiedono un sistema strutturato di linguaggi onorifici. Questo errore genera spesso critiche che si basano su singoli princìpi dell’uso del keigo in singole lingue portati come esempio di eccezioni all’universalità della teoria in questione.

4. Connesso al punto 3, l’universalità della teoria di Brown e Levinson (1987) non è tale. Ad esempio, l’idea che la politeness sia la stessa cosa del keigo porta all’erronea conclusione che la teoria di Brown e Levinson (1987), se davvero fosse universale, dovrebbe essere in grado di spiegare i princìpi dell’uso del keigo in ciascuna ed ogni lingua. Tuttavia risulta lapalissiano che questi differiscano da lingua a lingua, e, in realtà, una teoria universale della politeness non ha né la necessità né l’obbiettivo di spiegarli. Tale teoria afferma invece che ad essere universali sono i meccanismi di scelta dei comportamenti linguistici (compreso, ma non soltanto, l’uso del keigo), che mirano all’armonia nella comunicazione interpersonale, anche in linguaggi molto diversi l’uno dall’altro.