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Sezione I. Politeness studies, dall’approccio linguistico iniziale

Capitolo 3. La Politeness Theory di Brown & Levinson (1987): critiche,

3.1 Struttura e contenuti

3.1.2 L’equazione per la stima del grado d’imposizione

Uno dei punti che ha fatto superare alla teoria di Brown e Levinson (1987) i confini della ricerca pragmatica, così come delle ricerche sulla politeness che si basavano sulla forma linguistica degli enunciati compiute fino ad allora, è l’aver formulato l’equazione per il calcolo del grado d’imposizione (feisu shingaido mitsumori no kōshiki). Nella politeness di Brown e Levinson (1987), un atto enunciativo (x) viene formulato dopo averne calcolato il grado di imposizione sull’interlocutore, ovvero il grado di minaccia alla faccia. Certo non è possibile quantificarlo numericamente, ma tale grado di imposizione (Wx) è determinato complessivamente da tre elementi, come si può vedere dalla seguente formula:

Wx = D (S, H) + P (H, S) + Rx (Brown e Levinson (1987), p. 76-77) S = Speaker (parlante, hanashite)

H = Hearer (interlocutore, kikite) X = Utterance (enunciato hatsuwakōi)

W = Weight (“peso” della minaccia, feisu shingaido)

Wx è dunque il grado di minaccia (cioè il grado di FT) dell’atto linguistico “x” nei

confronti dell’interlocutore (H).

D = Social Distance (distanza, shakaitekikyori)

P = Power (potere, chikara)

Indica il potere che l’interlocutore (H) ha rispetto al/sul parlante (S).

R = Absolute ranking of imposition (ranking assoluto di imposizione, zettaiteki

jun’i ni motozuku omomi)

È il grado assoluto di imposizione che in una determinata cultura un certo atto linguistico (x) ha sull’interlocutore (H).

In altre parole, il grado di imposizione (Wx) di un determinato atto linguistico (x),è costituito dalla somma dei tre elementi che consistono nella distanza sociale (D, relazione simmetrica), il potere relativo (P) che l’interlocutore (H) ha sul parlante (S) (relazione asimmetrica) e il grado assoluto di imposizione (R) che rappresenta quanto, nella cultura di riferimento tale atto linguistico sia “oneroso” per l’interlocutore (H) (si pensi, ad esempio, alla richiesta di farsi comprare un determinato souvenir dal luogo di destinazione di un viaggio).

Importante notare come il fattore R vari, per uno stesso atto linguistico, da cultura a cultura. Il mutevole fattore culturale, dunque, è effettivamente incluso nell’equazione per il calcolo del grado d’imposizione di Brown e Levinson (1987), diversamente da quanto sostengono quelle critiche affermanti che in questa teoria tale fattore non sia analizzato.

In Lakoff (1975), Leech (1983), e gli altri studi che avevano superato il problema del grado di cortesia delle forme linguistiche in sé, e che avevano tentato un approccio pragmatico alla politeness, il tutto è stato però ridotto ad una specie di “princìpi della conversazione”, del tipo che “se questo principio viene rispettato, allora il risultato sarà polite”. Di conseguenza, in fin dei conti, non si era riusciti a sfuggire ad un approccio normativo alla politeness. Poiché non era stato indicata una norma che determinasse un ordine di priorità fra i princìpi della conversazione, pur riuscendo ad interpretare caso per caso, qualora si presentasse una situazione in cui coesistessero diversi princìpi si presentava il problema di prevedere a quale fra essi sarebbe stata data la priorità. Oltre a ciò, in tali princìpi non era inclusa in modo soddisfacente il fattore culturale.

Per esempio, fra i princìpi della politeness in Lakoff (1975) c’è quello di “dare all’interlocutore lo spazio della scelta”. Thomas (1995) scrive che si tratta di un “elemento fondamentale della politeness occidentale”, ma si pensi ad esempio ad un cortese proprietario di ristorante cinese, che non aspetterà che il cliente

gli dica cosa preferisce, ma sceglierà per lui ciò che ritiene più adatto, e a seconda dei casi lo servirà direttamente sul piatto, come si farebbe con un ospite a casa propria. In questo caso risulta difficile dire che il principio di “give the receiver options” risulti in politeness.

Al contrario, Brown e Levinson (1987), basandosi sull’idea delle strategie per la preservazione della faccia, hanno elaborato l’equazione illustrata poc’anzi. Attraverso di essa, la politeness, che fino a quel momento era stata considerata come una serie di comportamenti riconducibili ad un certo numero di princìpi discontinui, si è evoluta in un concetto dinamico, entro certi limiti prevedibile, che consiste nello scegliere un comportamento linguistico a seconda del grado di imposizione ottenuto misurando globalmente e complessivamente il peso di fattori sociali e culturali come D, P, ed R. Questo è un punto di grande e decisiva differenza con gli studi di Leech (1983) e Lakoff (1975), che avevano riassunto la politeness in un certo numero di princìpi, e costituisce un grande merito di questa teoria.

Fra queste variabili sociali, D e P sono estremamente vicine a quelle indicate negli studi giapponesi sul keigo: jōge (gerarchia sociale)e shinso (confidenza, intimità), elementi in relazione relativa tra di loro. Tuttavia l’equazione di Brown e Levinson (1987) non considera tali fattori sociali in modo discontinuo, fisso e statico. Non mira neppure ad indentificare e indicare il fattore che, fra essi, abbia di volta in volta il maggior peso nella scelta della forma di keigo usata contestualmente, né se all’interno della gerarchia sociale sia maggiormente influente il gap nella gerarchia della posizione sociale o in quella dell’età anagrafica. Al contrario li prende in considerazione complessivamente, come somma, li riassume e concentra nel grado di imposizione dell’atto linguistico che, dopo essere stato valutato e misurato, determina il comportamento linguistico più appropriato da adottare in quelle circostanze. Questa visione ha aperto uno sviluppo storico ed epocale per le ricerche sulla politeness. Ha inoltre indicato la possibilità che la politeness, sia di lingue dotate di keigo che no, riceve l’influenza di grossomodo gli stessi fattori sociali, e che va

considerata all’interno dello stesso quadro analitico.

Altro punto fondamentale è che nel calcolo tenga conto, grazie

all’introduzione del fattore R, che il medesimo atto linguistico, a seconda delle culture, possa avere esiti diversi, e che tale fattore influenzi direttamente il

grado di imposizione e di conseguenza anche il modo di esprimere e veicolare la politeness. In altre parole, la differenza culturale diventa una variabile

fondamentale. Si richiami alla memoria l’esempio di richiedere all’interlocutore di acquistarci un souvenir specifico presso il luogo di destinazione del suo viaggio. Nelle culture giapponese e cinese tale richiesta potrà assumere un grado assoluto di imposizione diverso (ovviamente dietro tale differenza ci saranno un diverso sistema di valori, tradizioni, ecc.). Di conseguenza, anche la realizzazione linguistica di tale richiesta necessiterà, nelle rispettive lingue, di un grado di politeness diverso.