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1. Cosa vuol dire scrivere una storia di vita

1. Cosa vuol dire scrivere una storia di vita

L’antropologia ha sempre avuto interesse per le storie di vita come una strategia per ottenere dati, da integrare in una più ampia analisi etnografica. Le storie di vita come testi indipendenti, d'altra parte, erano solitamente identificate come caratteristiche della tradizione antropologica americana boasiana, interessata alla documentazione sui mondi nativi che stavano scomparendo ed alla relazione tra psicologia e cultura (Eastmond, 1996:249).

Negli anni Ottanta, il collezionare storie di vita, come uno dei generi della scrittura etnografica, divenne oggetto di interesse, sia in quanto forma di scrittura che poneva in risalto questioni e problemi, sia perché capace di offrire nuove possibilità come testo culturale. La critica maggiore a questo modo di scrittura etnografica era che le storie di vita rappresentavano resoconti che avevano la pretesa di proporre autorevoli generalizzazioni su un’intera cultura, facendo riferimento ad un individuo selezionato come ‘il membro più rappresentativo di una cultura’ (Eastmond, 1996:249). L’attenzione all’esperienza personale e al significato soggettivo segna una rottura significativa con questa tradizione, che mirava a storie ‘oggettivamente vere’ in relazione ad una particolare realtà sociale, con poco valore attribuito alle narrazioni come realtà soggettive o intersoggettive; il narratore era pressoché invisibile in quei testi. Il maggiore interesse attribuito alla ‘vita’, al ‘sé’ e alla ‘narrativa’, come costrutti generati in specifici contesti storici e culturali ha anche messo in dubbio l’etnocentrismo delle storie di vita viste come paradigma e prodotto della cultura ‘occidentale’.

Il sé e la vita, invece, devono essere messi in relazione con altri ordini sociali, e, piuttosto che nella vera e propria confessione, le risposte alle domande possono essere trovate all’esterno dell’individuo, ad esempio nei miti.

Negli ultimi anni soprattutto, e grazie alle riflessioni legate al pensiero postmoderno, sono stati messi in dubbio alcuni capisaldi riguardanti la ricerca sul campo e la trasposizione di quest’ultima in un testo etnografico. In primo luogo è stato messo sotto esame il ruolo dell’antropologo e inoltre le

rivendicazioni, fatte dall’autorità etnografica, di strutturare le culture come testi e di rappresentare gli ‘altri’ durante questo processo. La domanda fondamentale che viene posta a questo riguardo è: come possiamo noi conoscere qualcosa riguardo l’esperienza degli altri e come possiamo rappresentarli in modo da rendere loro giustizia?

2. Cos’è una storia di vita?

Il termine ‘storie di vita’ si riferisce ai risultati di un approccio di ricerca

che consiste nel raccogliere la testimonianza di una persona riguardo alla sua vita e agli aspetti speciali di quest’ultima (Corradi, 1986: 106). L’inizio della narrazione è segnato da una richiesta specifica del ricercatore e il dialogo che ne segue è diretto da quest’ultimo verso il suo campo di interesse. Una storia di vita, quindi, comporta una situazione di interazione durante la quale prenda forma tutta la vita di un individuo, nel tentativo di spiegare e dare significato ai fenomeni sociali.

L’approccio basato sulle storie di vita dà origine a problemi metodologici; cito solo i più evidenti, che possono essere riscontrati nel condizionamento che il ricercatore esercita sopra il suo ‘oggetto’, nell’esperienza individuale espressa dalla narrazione, e nella flessibilità della situazione in cui avviene l’interpretazione, che mira soprattutto a far emergere gli aspetti problematici. D’altra parte, l’interesse crescente verso questo tipo di documenti indica che l’approccio biografico permette, forse proprio grazie alla sua peculiarità, di studiare i fenomeni che hanno assunto grande importanza nelle scienze sociali negli ultimi anni. Le storie di vita

attribuiscono un valore cognitivo all’esperienza umana e mettono in luce aspetti importanti, come le discriminazioni di genere, le esperienze di malattie o emarginazione dovuta alla vecchiaia, l’emergenza di movimenti sociali e politici, e così via.

Naturalmente i criteri di valutazione che venivano precedentemente applicati alle investigazioni delle scienze sociali, non sono più del tutto validi per quanto riguarda le storie di vita. Se si trasferiscono semplicemente questi criteri all’approccio biografico senza i dovuti cambiamenti , ci si trova di fronte a due alternative. O si nega la legittimità delle storie di vita come materiale di ricerca, poiché esse non rispondono ai canoni scientifici tradizionali, oppure bisogna forzare questi ultimi, inficiando in questo modo il valore dell’ intera ricerca.

Cos’è esattamente, però, una storia di vita? In primo luogo, una narrativa che cerca di dare un ordine a tutto l’insieme degli eventi passati, di trovare una linea continua che stabilisca una relazione necessaria tra ciò che il narratore era e ciò che è oggi. La narrazione funge da mediatore tra passato, presente e futuro, ad esempio tra le esperienze del passato ed il significato che queste hanno assunto per il narratore anche in relazione ai suoi progetti futuri. Una storia di vita non è semplicemente una collezione di memorie del passato, e non è neppure una finzione. Essa occupa uno spazio intermedio tra la storia e la letteratura, poiché, come la prima, è essenzialmente legata al passato, e, come la seconda, deve usare strumenti retorici (Camino, 1986:107). La relazione necessaria tra passato e presente espressa dalle storie di vita ci impedisce di considerarle come una riproduzione esatta del passato,

ma allo stesso tempo indica che c’è un legame tra passato e presente, un’identità individuale che si mantiene nel tempo.

In secondo luogo, c’è da tenere in conto che la narrazione trae origine da una domanda e da un interesse del ricercatore e prende la forma di un dialogo che mette il narratore e il ricercatore su uno stesso piano. Infatti, subito dopo l’inizio dell’intervista, non ci sarà più una persona che fa domande e una che risponde, ma una che cerca di comprendere e una che si fa comprendere. Inoltre, ognuno dei partecipanti è cambiato dall’interazione con l’altro. Questa relazione faccia a faccia è un tratto fondamentale delle storie di vita e le rende il prodotto di un processo intersoggettivo di conoscenza. La storia di vita contiene in sé sia il narratore che il ricercatore; attraverso il dialogo quest’ultimo diventa una parte integrante del suo oggetto di studio.

Uno degli scopi della ricerca basata sulle storie di vita è quello di trovare gli elementi costanti attraverso il processo di cambiamento, un altro è quello di colmare il vuoto tra il sé e l’altro. Infatti, per rispondere alla domanda fondamentale che sta alla base di tutte le storie di vita e cioè ‘chi sono?’, vengono messe in moto sia la ‘dialettica dell’identità’ che quella della ‘diversità’.

Se si parte dal punto di vista della dialettica dell’identità, non è possibile dare un giudizio di veridicità alle risposte a domande come: ‘è questo quello che è realmente accaduto?’, ‘il narratore è stato onesto?’, ‘fino a che punto il passato è distorto dal presente?’. Questo perché la narrazione non è uno specchio del passato, ma piuttosto funge da mediatore tra eventi passati e il loro significato presente, stabilendo tra di loro una relazione di necessità. La

veridicità può essere stabilita con maggiore successo focalizzando l’attenzione sulla relazione necessaria tra eventi passati, presenti e futuri. Allo stesso tempo, il significato generale di una narrazione può essere comparato con quello delle altre storie di vita raccolte nello stesso contesto e riflettenti lo stesso periodo storico o la stessa famiglia di problemi. La veridicità si basa dunque non tanto sulla sincerità del narratore, quanto sulla sua abilità nel trovare le connessioni esistenti nella sua esperienza personale.

La dialettica dell’alterità dà a sua volta origine a speciali criteri di valutazione. La presenza del ricercatore, che rappresenta un ponte per capire meglio l’alterità, è vista tradizionalmente come un fattore che distorce la vera realtà. Se invece si prende la dialettica dell’alterità come una delle premesse del materiale biografico, essa diventa, al contrario, l’origine del criterio di analisi di quel materiale.

Non è l’interesse unilaterale del ricercatore che porta avanti il dialogo. Il dialogo comincia se e quando le motivazioni del ricercatore nel condurre l’investigazione trovano un punto d’incontro con le motivazioni del narratore a prenderne parte. La narrativa si sviluppa a partire da questo punto di partenza ed è guidata dal modo in cui il ricercatore si presenta ed è percepito dal narratore, e dagli obiettivi della ricerca espressi dal ricercatore e accettati come il punto fondamentale della storia di vita. Nell’analisi del materiale, è anche necessario identificare l’incontro di motivazioni che rende possibile la ricostruzione della storia, il venire alla luce della rappresentazione di un’identità.