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11. I legami con il paese d’origine

In primo luogo, la presenza laggiù di parenti stretti (genitori, coniugi, fratelli e sorelle, discendenti). Quasi tutti i rifugiati mantengono contatti costanti con i parenti rimasti in patria (via telefono, lettere e, in alcuni casi, anche attraverso posta elettronica). Alcuni addirittura tornano per visitarli. Un motivo altrettanto importante per il mantenimento dei legami con la propria terra è rappresentato dagli obblighi sociali relativi alla famiglia estesa, soprattutto a livello economico.

Un terzo motivo per approfondire i legami con le comunità di origine riguarda il prestigio sociale. Contribuendo finanziariamente a progetti all’interno del proprio paese, i rifugiati possono elevare il proprio status, sia nelle comunità in cui vivono che nella propria patria (Koser, 2000:36).

Oltre ai legami con la comunità di origine, sono importanti anche quelli con i gruppi di connazionali rifugiati sparse in altri paesi del mondo. Questi contatti sono notevolmente facilitati dai nuovi mezzi di comunicazione.

12. La continuità

Un’altra autrice che dà particolare importanza al rapporto tra passato, presente e futuro all’interno dell’esperienza dei rifugiati è Karmela Liebkind, la quale sottolinea che questo rapporto pone gravi problemi di continuità. L’esperienza dell’asilo politico, infatti, può essere compresa solo all’interno del contesto più ampio della vita del rifugiato. Ristabilire un senso di continuità nella vita e nella persona nel tempo e soprattutto dopo un evento traumatico dipende dall’abilità individuale di integrare il cambiamento nella propria vita, dandogli un significato positivo. Diversi studi sottolineano

l’importanza della religione o dell’ideologia politica come sistemi che forniscono non solo una spiegazione ed un significato allo spostamento e al cambiamento, ma anche una speranza per il futuro (Corlin, 1990, Eastmond 1992; Eisenbruch,1991). Un altro aspetto rilevante è rappresentato dall’ambiguità sempre crescente di una situazione che non si sa quando e se finirà, e come, col tempo, emerga nei rifugiati un conflitto tra l'impegno morale, sempre rivolto a coloro che sono rimasti in patria e quindi ad un'altra realtà, e le richieste della vita quotidiana nel nuovo paese. Le comunità nel paese d’asilo spesso funzionano, almeno inizialmente, come un’estensione della possibilità di esercitare il proprio impegno politico ed i propri ideali, provvedendo ad un orientamento nella nuova vita e ad una negoziazione costante tra le richieste dell’adattamento nel paese ospite e l’impegno politico nel paese d’origine, che comporta la possibilità (o la necessità) del ritorno. In che modo i legami con la propria patria continuano a formare la persona e ad influenzare gli obblighi nel presente? L’essere rifugiati accentua difficili domande morali come questa, che riguardano direttamente la responsabilità morale verso gli altri.

13. La sofferenza

Un aspetto su cui molti rifugiati si soffermano nei loro racconti è la

sofferenza vista, in questo caso, non come un aspetto negativo, ma come

momento fondamentale e cruciale della propria esperienza personale. La sofferenza è solitamente legata all’unico periodo della vita che viene visto come produttivo di significato, quello dell’azione politica all’interno del

proprio paese. La sofferenza produce un merito morale e deve essere resa visibile e riconosciuta. Quando questo accade, essa produce una forza in grado di rigenerare, e costituisce una dimensione centrale di ciò che rende una vita piena di significato. Questa visione della sofferenza è tipica soprattutto dei rifugiati provenienti da paesi con una forte tradizione cattolica, ed essi nella loro esperienza intrecciano simbolicamente politica e religione. Le due opposte visioni del mondo (marxismo e cattolicesimo) sono condensate in una progressione simbolica che dalla sofferenza porta alla lotta ed infine alla trascendenza. Una è spirituale e divina (la trasformazione verso la redenzione e la vita eterna), l’altra è secolare (la trasformazione rivoluzionaria verso un nuovo ordine sociale). (Eastmond, 1996:245).

La sofferenza è però solitamente vista come significativa e redentrice solo quando si manifesta nel paese d’origine, quando è la conseguenza delle proprie scelte politiche o religiose.

Quando invece i rifugiati si trovano nel loro nuovo paese, sentono che tutte le sofferenze hanno perso significato e sono fini a se stesse. Eventi esterni di solito provocano una perdita di potere e della capacità di essere fautori del proprio destino, e inoltre avvengono in un contesto sociale in cui le proprie azioni sembra non siano più portatrici di alcun significato. La vita dei rifugiati sembra essere divisa in due parti: gli anni di una “prima vita“, quella attiva, vissuta in accordo con gli ideali definiti come positivi e accettabili nell’ambito di un sistema di valori condiviso. Il significato che essi assegnano a questi anni contrasta profondamente con le loro vite nel presente, che rappresenta, in antitesi, la seconda parte. Un senso di continuità

con il passato sembra sia ricreato dai rifugiati collegandosi a quanto potrà essere riconquistato e ricostruito in futuro nella propria patria. In termini ideologici e morali, tornare a casa risponde anche alle aspettative collettivamente definite riguardo la responsabilità nei confronti di coloro che sono rimasti.

Le storie dei rifugiati sono storie di persone “displaced”, che vivono relazionandosi costantemente ad aspettative ideologiche e culturali definite in un altro luogo ed in un altro tempo. Sembra quindi che le loro vite ruotino intorno ad un unico momento, quello traumatico che ha determinato la necessità di partire per l'esilio. Lifton (1993) definisce un evento traumatico come un’interruzione significativa nella “linea di vita” di una persona. La situazione del rifugiato politico può quindi essere vista come una situazione di discontinuità radicale, come una linea di vita interrotta da forze che vanno al di là del suo controllo, ed egli lotta per ristabilire un senso di continuità nella propria esistenza. Anche la sofferenza, allora, può ottenere una giustificazione nel fatto di dare un senso al cambiamento ed alla perdita; può giustificare l’esistenza nel paese d’asilo agli occhi degli altri, di una società ospite che esclude, da una parte, e di coloro che sono rimasti nel paese d’origine, dall’altra.