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In che modo antropologia e studi sui rifugiati politici possono arricchirsi a vicenda

L’ANTROPOLOGIA E GLI STUDI SUI RIFUGIATI

2. In che modo antropologia e studi sui rifugiati politici possono arricchirsi a vicenda

Come già detto più volte, i rifugiati politici, costituiscono oltre che un oggetto di studio per l’antropologia e per altre scienze umane e sociali, anche e soprattutto un tema di attualità scottante che comporta l’intervento e l’aiuto umanitario di molteplici forze e condiziona gli assetti politici. E’ quindi importante, come sottolineano anche Harrel-Bond e Voutira, analizzare come l’antropologia possa dare il suo contributo teorico al problema dell’intervento umanitario nei confronti dei rifugiati politici.

Le riflessioni che l’antropologia ha sviluppato sul potere e sulle strutture di autorità possono contribuire all’adozione di politiche più adeguate alla soluzione del problema (Harrel-Bond e Voutira, 1992). Ad esempio, i teorici della politica tendono a sostenere che i movimenti all’interno di una regione richiedano un adattamento culturale minore, poiché ciò che divide le popolazioni è solo un confine artificiale imposto dalle potenze coloniali. Sebbene un linguaggio ed una storia condivisi possano alleviare il trauma dello sradicamento, tuttavia non eliminano gli aspetti dolorosi dell’esilio. Le ricerche hanno dimostrato che attraversare il confine di uno stato influenza profondamente le relazioni di potere tra i membri di uno stesso gruppo etnico; e il superamento delle difficoltà della vita all’interno di un campo profughi richiede che le persone assumano una miriade di strategie che includono la re-definizione delle gerarchie e degli obblighi sociali (Harrel-Bond,1986).

sostengono, inoltre, che l’adattamento alle società industrializzate è più difficile per i rifugiati provenienti dal Terzo Mondo e quelli più accettati sono quelli con una educazione più elevata, situazione che provoca differenze evidenti anche all’interno della popolazione rifugiata in uno stesso luogo.

Un altro campo in cui gli antropologi possono dare un contributo riguarda il significato sociale da dare al concetto legale di asilo e di rifugiato come definito dalle Convenzioni internazionali, e delle conseguenze delle diverse norme per il trattamento degli stranieri.

L’antropologia, dal punto di vista teorico, ha una posizione critica rispetto al lavoro umanitario, che considera troppo spesso le vittime solamente come coloro che hanno bisogno d’aiuto perché non riescono a fronteggiare da soli la situazione in cui si trovano, senza considerarli principalmente come individui in se stessi. Coloro che li aiutano assumono invece un ruolo autoritario, finendo anch’essi per spogliarsi della loro individualità e personalità. Le organizzazioni umanitarie tendono inoltre a trattare i rifugiati come una massa indifferenziata. Spesso viene data assistenza senza prendere in adeguata considerazione i valori distintivi, le norme e l’organizzazione sociale delle popolazioni afflitte. Waldrom (1988) sottolinea la necessità urgente per gli antropologi di agire per dare voce ai punti di vista dei rifugiati. I contributi degli antropologi che riguardano il terreno particolarmente spinoso degli interventi nell’ambito dei rifugiati politici sono particolarmente rilevanti per capire il comportamento umano e contribuire ad alleviare le sofferenze in situazioni che si trovano al di sotto delle condizioni minime di sopravvivenza.

Una domanda che può sorgere analizzando il rapporto tra antropologia e studi sui rifugiati politici, è quella sul perché questi ultimi siano emersi come oggetto di interesse solo negli ultimi anni e siano invece stati trascurati completamente nel recente passato. Elisabeth Colson (1989) tenta di dare una risposta a questo quesito sottolineando che “noi (antropologi) abbiamo sottostimato in passato la violenza, la crudeltà e la tristezza esistenti nelle aree dove abbiamo lavorato. Una ragione può essere stata la credenza che queste azioni erano momentanei allontanamenti dalle norme culturali che generavano un’armonia duratura”. Questa spiegazione non varrebbe per quel particolare tipo di antropologia, l’antropologia della violenza, che si occupa delle situazioni di disagio e di crudeltà presenti all’interno di ogni società. John Davids (1992) ad esempio, sostiene che l’antropologia della sofferenza è una sorta di integrazione tra due tipi di studi antropologici: quelli sulla

“manteinance”, che esaminano la struttura sociale e documentano

l’organizzazione di una società, e quelli sul “repair”, che trattano argomenti di politica ed intervento sociale. Per colmare la distanza tra questi due tipi di antropologia bisogna riconoscere che le cause della sofferenza umana sono aspetti essenziali di tutte le società, ma rappresentano in ogni caso “un’eccezione” che di solito non è prevista nel normale funzionamento delle strutture sociali e dell’impianto culturale.

Non penso che gli antropologi abbiano scelto consapevolmente di ignorare gli aspetti “meno armoniosi” di una società. L’antropologia ha prestato attenzione agli studi sui rifugiati solo ultimamente; infatti si può da sempre riscontrare un rapporto difficile con i problemi che presentano non

solo sfide teoriche, ma soprattutto sfide che da teoriche si traducano in azione efficace. Azioni da perseguire non solo in paesi lontani, ma negli stessi paesi dove gli studiosi vivono da cittadini.

Non bisogna inoltre dimenticare che la nozione di rifugiato politico non è stata inventata nei paesi che in prevalenza generano questo fenomeno, ma proprio da noi, e in epoca recente. E’ pur vero, infine, che la maggior parte dei profughi si ferma in paesi del Terzo Mondo, ma i grandi campi profughi in queste zone devono comunque la loro esistenza e la loro organizzazione ad interventi provenienti dall’occidente.

Anche l’antropologia, dal canto suo, si è essa stessa arricchita attraverso gli studi sui rifugiati politici. Lo studiare i rifugiati offre la possibilità di registrare il processo di cambiamento sociale non solo come un processo di transizione all’interno di un ristretto gruppo sociale, ma nel contesto drammatico dello sradicamento, dove la necessità di sopravvivere diventa un modello di cambiamento sociale (Harrel-Bond & Voutira, 1992). Le persone che sono state sradicate violentemente devono adattarsi al loro nuovo ambiente sociale, economico e fisico. Questo processo costituisce una sfida alle credenze, ai valori, alla tecnologia, ai sistemi di scambio e a tutti quegli altri aspetti della società che presentano un interesse per l’antropologia. In genere, si può notare (Hirschon**,1989) che, nonostante la loro sofferenza e la loro estrema povertà, i rifugiati tentano di mantenere la loro identità, per dimostrare la percezione che hanno di sé.

Più avanti nel corso del mio lavoro vorrei analizzare proprio questi due aspetti, e in modo particolare come un tema “classico” per l’antropologia culturale, quello dell’identità, e in particolare dell’identità etnica, sia particolarmente importante per lo studio del fenomeno dei rifugiati politici. Infatti uno sradicamento forzato e un radicamento in una società con valori completamente diversi dai propri comporta una messa in discussione particolarmente forte della propria identità etnica come di quella culturale.

Per cominciare, vorrei tentare di spiegare, con tutte le limitazioni dovute, che cosa si intenda per identità etnica in ambito antropologico.