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Non dubito infatti che, se l’affermazione, «i tre angoli di un triangolo sono uguali a due angoli retti», fosse stata contraria al diritto di dominio di qualcuno o all’interesse di persone che detengono il dominio, quella dottrina sarebbe stata, se non messa in discussione, addirittura eliminata col rogo di tutti i libri di geometria, per quanto ne fosse stato capace colui al quale la cosa interessava.

Thomas Hobbes

Leviatano

Inizialmente, è utile affrontare il significato giuridico della parola “bene/i”79 per poi comprendere come questa venga declinata con l’aggettivazione “comune/i”. Per tale motivo, si dovrà prima rispondere alla domanda circa cosa sia una “cosa” in un contesto giuridico e quale sia il significato del termine “proprietà” per analizzare in che relazione questo possa porsi rispetto a “comune”.

Relativamente al diritto dei beni, «il primo compito della dottrina giuridica consiste quindi nel mettere ordine nell’uso delle parole»80, ragion per cui oggetto di questa indagine ordinativa sono i termini centrali “cosa”, “beni” e “proprietà”. Se è vero che tali termini hanno un immediato significato nelle prassi discorsive quotidiane è ugualmente vero che, attraverso un’analisi più attenta e approfondita, emergono le differenti scelte fondamentali degli interpreti e di conseguenza una vasta diversità di opinioni81.

79 La parola “beni” presenta un numero elevati di significati come emerge da S. Pugliatti, Beni e cose

in senso giuridico, Giuffrè, Milano, 1962, p. 2 e ss. nonché in A. Gambaro, Gli statuti dei beni pubblici,

in U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 56, «iniziamo con l’osservare che nel contesto normativo la parola beni è altamente anfibologia veicolando una pluralità di significati discordanti».

80 A. Gambaro, I beni, Giuffrè, Milano, 2012, p. 2.

81 «[…] termini quali ‘bene’ e ‘cosa’ sono usati dal legislatore, dalla dottrina e dalla giurisprudenza

pratica all’insegna della più ampia (e talvolta incoerente) disinvoltura poli-semica» in P. Grossi, I beni:

itinerari fra ‘moderno’ e ‘pos-moderno’, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 2012, p.

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In particolare, è difficile anche l’analisi a partire dai dati normativi. Difatti, il Libro III del Codice civile appare, oggi, inadeguato rispetto l’evoluzione storica subita dagli istituti ivi disciplinati. In un mercato globalizzato e globalizzante, ad esempio, appare superata la distinzione tra beni mobili ed immobili e lo stesso significato di proprietà come diritto reale sembra fortemente in crisi rispetto a forme economiche dematerializzate:

In questo senso, quel libro terzo aveva l’ambizione di costruire la sintesi di una serie di indicazioni tutt’altro che secondarie, che venivano dalla legislazione non sempre arretrata di quel momento. Rileggendolo oggi si palesano caratteristiche di eterogeneità, confusione, e irrazionalità complessiva del sistema82.

D’altra parte, come accennato, si ritiene assai improbabile condurre un qualsiasi discorso sui beni comuni se prima non si affrontano i concetti basilari impiegati in tale discorso.

Insomma, una preliminare operazione di messa in ordine delle parole è necessaria, tenendo tuttavia conto che

se è facile ammettere che si tratta di un compito imprescindibile, si deve però ed anzitutto essere consapevoli che non si tratta di un compito agevole83.

82 S. Rodotà, Linee guida per un nuovo codice dei beni pubblici, in U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà,

Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 358. 83 A. Gambaro, I beni, cit., p. 3.

37 Capitolo 1 Il rapporto tra cose e beni

All’articolo 810 del Codice Civile italiano attualmente in vigore così è dato leggere: «Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti»84. Questa basilare definizione85 può essere riformulata nel seguente modo: se una cosa può essere oggetto del diritto, essa va considerata quale bene in senso giuridico.

Si tratta, dunque, di una proposizione normativa che presuppone l’esistenza della cosa, la quale, divenendo oggetto di diritto, viene giuridicamente qualificata come bene.

Di conseguenza, è evidente che le nozioni di cosa e di bene sono da distinguersi nettamente: la nozione di cosa è il presupposto di fatto alla nozione giuridica di bene.

Così intesa, la nozione di cosa è “pre-giuridica”86 e pertanto ininfluente rispetto all’ordinamento; solo la nozione di bene manifesta quando la cosa diviene oggetto del diritto.

Fin da subito bisogna premettere che il termine “cosa” sconta l’assoluta indeterminatezza dell’origine latina classica “res”, termine questo che ha significati illimitati, denotando sia oggetti della natura sia oggetti astratti (si pensi all’uso dei termini res corporales, incorporales, res publica)87; ma ugualmente anche nella linguaggio ordinario88 il temine “cosa” è di assai difficile precisazione: forse, per questo

84 L’articolo 810 Codice Civile è inserito in apertura del Libro III Della proprietà, Titolo I Dei beni,

Capo I Dei beni in generale, la Rubrica “nozione”.

85 Ampie le critiche all’art. 810 nel suo complesso: «Esso sembra essere il frutto della deprecabile

mania per le definizioni che ha afflitto il nostro legislatore, nel caso specifico ancora più censurabile, dal momento che, nella fase dei lavori preparatori, la dottrina aveva ripetutamente insistito sull’inopportunità di dare la definizione di bene in senso giuridico» in O.T. Scozzafava, I beni e le forme giuridiche di

appartenenza, Giuffrè, Milano, 1982, p. 109.

86 S. Pugliatti, Beni immobili e beni mobili, Giuffrè, Milano, 1967, p. 192; O.T. Scozzafava, I beni e le

forme giuridiche di appartenenza, cit., p. 33. 87 In questo senso, A. Gambaro, I beni, cit., p. 4.

88 Basti il seguente riferimento: “Cosa” «è il nome più indeterminato e più comprensivo della lingua

italiana, col quale si indica, in modo generico, tutto quanto esiste, nella realtà o nell’immaginazione, di concreto o di astratto, di materiale o d’ideale» in Vocabolario Treccani online

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motivo, l’articolo in questione89 rinuncia alla definizione di “cosa” offrendo quella di “beni”. Tuttavia, ed in tutta evidenza, la nozione di “beni” viene individuata come sotto- insieme del più vasto insieme delle cose; infatti, le cose, a determinate condizioni, possono essere beni. Ecco, chiaramente, l’ambiguità di tale definizione: come è possibile individuare un sotto-insieme se non viene definito il più vasto sovra-insieme? Ossia: come poter individuare la nozione di “bene” se questa è una species del genus “cose”90, genus del quale non si fornisce alcuna indicazione91?

Logica e necessaria conseguenza: la fondamentale definizione di “cosa” deve provenire dalla dottrina e attingere al lessico extra-giuridico92.

Ecco che, a ben vedere, la definizione di cui all’art. 810 c.c. è assai vaga poiché propone di definire i “beni” attraverso il rinvio alle “cose” ma di queste ultime non si dà un’autonoma definizione. Di conseguenza, in dottrina si è proposta una definizione generalissima di “cosa” con la peculiarità di adattarsi a un numero potenzialmente illimitato di casi93.

E dunque quali sono le “cose” di cui all’art. 810 c.c.?

In particolare, due sono le alternative fondamentali affrontate dagli interpreti: le cose sono «entità dotate del requisito della corporalità» oppure sono «tutte le entità immaginabili dal soggetto e diverse da lui»94?

89 Si esprime nei termini di «notevole assurdità della formula linguistica stampata all’art. 810 c.c.» e

«norma enigmatica» A. Gambaro, I beni, cit., p. 29.

90 A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2009, p. 169.

91 G. Alpa, Manuale di diritto privato, Cedam, Torino, 2011, pp. 316 e ss. preferisce rappresentare la

relazione tra cose e beni come l’intersezione tra due insiemi: nella parte comune vi è coincidenza e si trovano le cose (intese naturalisticamente) che possono essere oggetto di diritti; nelle due rimanenti parti, proprie di ciascun insieme, non vi è coincidenza poiché o le cose non sono oggetto di diritti (ad es. l’aria), oppure l’oggetto dei diritti si riferisce a beni immateriali che, appunto, non sono cose (ad es., creazioni intellettuali, riservatezza, strumenti finanziari, etc.).

92 Di questo avviso Z.V. Zencovitch, Cosa, in «Digesto delle discipline privatistiche», Utet, Torino,

1989, pp. 438 e ss.

93 Limpide le parole di O.T. Scozzafava, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, cit., pp. 32 e ss.:

«il termine cosa […] allude a qualcosa di pregiuridico, o, se si vuole, ad un elemento materiale che, una volta assunto dal diritto, cessa di essere tale, per diventare bene in senso giuridico».

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Nel progetto preliminare al Codice civile del 1942 la connotazione “fisicista” è assai accentuata: «cose nel senso della legge sono tutti gli oggetti corporali o altre entità naturali suscettibili di appropriazione o utilizzazione»95. Di conseguenza, l’art. 810, andrebbe interpretato in un’ottica fisicista, stante il riferimento alla “corporalità dell’oggetto”; tuttavia, in dottrina non vi è mai stata uniformità di vedute96 e, forse, il passaggio da un’economia legata ai classici riferimenti “naturalistici” (la terra, il fondo agricolo) verso forme di circolazione economica “immateriali”97 ha spinto gli interpreti a differenti conclusioni, di fatto aprendo la via a concezioni della cosa assai relative98.

D’altra parte, non potendo sciogliere questo nodo (forse impossibile da sciogliere)99, il termine “cosa”, così anche nel lessico del codice civile, è stato definitivamente accettato da molti interpreti con il significato generale di «porzione determinata del mondo esterno»100.

95 Ivi, nel testo alla nota 42.

96 Tagliente il giudizio di G. De Nova «l’impressione è che la dottrina civilistica dei beni sia

caratterizzata da gravi ritardi», G. De Nova, I nuovi beni come categoria giuridica, in G. De Nova, B. Inziatari, G. Tremonti, G. Visentini, Dalle res alle new properties, Franco Angeli, Milano, 1991, p. 12.

97 Sul questo punto: T. Ascarelli, Ordinamento giuridico e processo economico, in Problemi giuridici,

Giuffrè, Milano, 1959, p. 37 e ss.

98 Così commenta A. Gambaro, La proprietà, Giuffrè, Milano, 1990, p. 45: nella elaborazione civilista

in tema è riscontrabile una tale diversità di opinioni per cui «ogni giurista [tende] ad edificare un sistema concettuale suo proprio» e «ciò dispensa gli autori da ogni ricognizione di quelle [opinioni] concretamente riscontrabili in ciascun momento. Questa beata situazione di libertà si riscontra sia in opere monografiche sia in articoli di pura dottrina sia in parti di trattati e voci enciclopediche». Da condividere la conclusione di N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Giuffrè, Milano, 2013, p. 119 «Il nostro codice civile, all’art. 810, astenendosi da un esclusivo riferimento alle cose ‘corporali’, definisce i beni come “le cose che possono formare oggetto di diritti”: il che peraltro non ha escluso la possibilità di ammettere (accanto a cose che non sono beni) anche beni che non sono cose e la cui appetibilità per il soggetto discende da un procedimento qualificativo non necessariamente connesso ad una fisicità materiale».

99 Lapidario il giudizio di O.T. Scozzafava, I beni e le forme giuridiche di appartenenza, cit., p. 94

«non è possibile reperire una spiegazione razionale dell’art. 810».

100 U. Breccia, U. Natoli, Diritto civile, vol. 2, Utet, Torino, 1993, p. 3; similmente «“Cosa” è una

parte di materia (non importa se allo stato solido, liquido o gassoso)» in A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., p. 169.

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Pertanto, alcune “porzioni del mondo esterno” quando sono oggetto di diritti101 “diventano” beni, ossia ricevono dall’ordinamento una qualificazione giuridica che ne attesta il particolare interesse.

Tenendo presente un rapporto cosa/bene così conformato, si può affermare che la “cosa” acquista rilevanza giuridica102 nella misura in cui è utile a soddisfare un bisogno del soggetto; detto diversamente, la cosa è utile quando stimola un particolare interesse nei soggetti, interesse positivamente valutato sub specie iuris103. Si può sostenere, quindi, che l’ordinamento opera un giudizio su quali interessi siano da riconoscere e tutelare e, di conseguenza, attribuisce alla relative “cose”, intese sempre come porzioni di mondo, la qualificazione normativa di “bene”.

101 L’affermazione per cui una cosa essendo oggetto di diritti diventa un bene va intesa nel senso

precisato alla nota 72; le norme non si riferiscono direttamente alle cose poiché disciplinano sempre comportamenti umani. Tuttavia, i comportamenti umani, frequentemente, hanno a che fare con le cose, dunque le norme indirettamente disciplinano anche le cose, il loro uso, la loro circolazione. In questo senso, una cosa “normata” diviene un bene giuridico.

102 Sempre più frequentemente in dottrina si preferisce parlare di new properties in luogo di “beni”

quando si indicano oggetti latu sensu immateriali; a tal proposito: A. Gambaro, Dalla new Property alle new Properties, in Scienza e insegnamento nel diritto civile in Italia, a cura di V. Scalisi, Giuffrè, Milano, 2004; G. Resta, Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, Utet, Torino, 2010.

41 1.1 Il criterio appropriativo

Su questo punto varie sono le prese di posizioni in dottrina.

Alcuni autori104 qualificano ulteriormente il rapporto cosa/bene attraverso una specificazione della nozione di “interesse”: una cosa è giuridicamente rilevante- interessante quando è funzionale alla soddisfazione di bisogni umani, ovverosia è utile; ma l’utilità, a sua volta, è definita attraverso la nozione di appropriazione105.

Detto diversamente: una porzione del mondo diviene un bene giuridico se essa è oggetto di interesse; per interesse si intende la capacità della cosa (porzione del mondo) a essere utile per soddisfare bisogni umani; ma ancora: come si realizza una tale utilità? Per gli autori presi in esame, l’utilità si collega necessariamente all’appropriazione della cosa, poiché solo appropriandosi dell’oggetto è possibile utilizzarlo per soddisfare i bisogni umani; quindi, tale oggetto è utile, e di conseguenza è giuridicamente “importante” e può esser (e deve essere) qualificato dall’ordinamento come bene.

Così, l’appropriabilità106 diviene presupposto logico della capacità di soddisfare bisogni umani in quanto si ritiene che soltanto una cosa fatta propria possa produrre dei vantaggi (soddisfare dei bisogni) per un soggetto. Detto ancora diversamente, l’interesse

104 Non è qui possibile citarli tutti, né dare conto, per ciascuno, delle differenze, talvolta assai sottili; si

veda G. Pugliese, Dalle «res incorporales» del diritto romano ai beni immateriali di alcuni sistemi

giuridici odierni, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 1982, pp. 1137-1198.

105 Preliminarmente, è opportuno distinguere tra appropriazione e proprietà. L’appropriazione è un

fenomeno fattuale, consistente nel momento reale dell’impossessamento di cose da parte degli uomini; si tratta, in altre parole, del processo dinamico per il quale l’uomo fa proprie le cose che fino ad allora non erano sotto il suo dominio. L’appropriazione, quindi, si inserisce in un ambito pregiuridico, costituendo la base reale sulla quale si viene a formare il diritto di proprietà.

In questo senso, la proprietà è la traduzione giuridica dell’appropriazione; con ciò si vuole dire che il diritto di proprietà si costituisce sulla base del momento appropriativo ed in relazione alle condizioni materiali ed economiche di ciascun periodo storico; così intesa, la proprietà assicura una certa stabilità del fenomeno appropriativo, con il fine di consentire, in virtù della normazione connessa, la previsione e, dunque, il dominio dei rapporti tra gli individui ed i beni.

106 F. Piraino, Sulla nozione di bene giuridico in diritto privato, in «Rivista critica del diritto privato»,

n. 3, 2012, pp. 477 e ss.; in particolare, l’Autore sostiene che il criterio di qualificazione giuridica di un’entità come bene sia da rinvenire interamente nella possibilità di esclusivo sfruttamento economico della cosa.

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sotteso alla qualificazione “da cosa a bene” si esprime, sul piano pratico, nella possibilità per la cosa stessa d’esser fatta propria da qualcuno, eventualmente, d’esser messa sul mercato e, quindi, fondamentalmente, nell’utilità economica che se ne ricava: una cosa di nessun utilità economica non è, e non può essere, un bene107.

Pertanto, secondo questa prospettiva, possono esser qualificati come beni solo quelle cose «appropriabili, suscettibili cioè di entrare a far parte del patrimonio individuale o collettivo ed essere commercializzate attraverso scambi che il diritto regolamenta»108. A contrario non sono beni «né le cose dalle quali non si è in grado, allo stato, di trarre vantaggio alcuno»109 e, ugualmente, «le cose extra commercium comuni a tutti (aria, luce solare, acqua marina) non sono beni in senso giuridico»110. In quest’ottica, quindi, divengono beni soltanto le cose appropriabili poiché solamente il momento appropriativo è capace di dimostrare l’interesse umano verso una cosa. Infatti, si ha appropriazione quando la scarsità e l’utilità di una cosa a soddisfare bisogni umani producono un conflitto di interessi tra i membri della società; a questo conflitto l’ordinamento risponde con la regolamentazione giuridica del rapporto tra uomini e cose, ossia stabilendo essenzialmente chi e come diviene proprietario111.

In linea con questa argomentazione, dunque, si può concludere che costituiscono il “sotto-insieme” beni quelle cose considerate suscettibili d’essere oggetto di diritti nella misura in cui sono utili, dove “utili” deve intendersi come capacità di soddisfare un bisogno umano; tale utilità giustifica l’interesse dell’ordinamento che si traduce in una disciplina giuridica. Tuttavia, in questa argomentazione, si inserisce una non secondaria

107 A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., pp. 169-170, per i quali sono beni le

cose suscettibili di appropriazione e di utilizzo ossia cose dotate di valore da intendersi sostanzialmente come «negoziabilità».

108 F. Gazzoni, Manuale di Diritto Privato, Esi, Napoli, 2009, pp. 197 e ss. 109 A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., p. 169.

110 F. Gazzoni, op. cit., p. 197 e, analogamente, A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto

privato, cit., p. 169 «né le c.d. res communes omnium, ossia le cose di cui tutti possono fruire, senza

impedirne una pari fruizione da parte degli altri consociati (ad es., la luce del sole, i venti, le acque degli oceani), a meno che non ne venga assicurato un separato godimento (ad es., l’aria compressa in bombole)».

111 Aa.Vv. Diritto privato, vol. 2, Utet, Torino, 2004, p. 792; evidentemente, questa argomentazione

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sfumatura alla nozione di utilità come requisito per l’attivazione dell’interesse da parte dell’ordinamento; si sostiene che i beni, per essere tali, devono essere necessariamente suscettibili di appropriazione poiché:

le cose non appropriabili, ancorché atte a soddisfare un bisogno umano, proprio perché comuni a tutti, come l’aria, l’acqua fluente e simili, non formano oggetto di rapporti giuridici112.

Riassumendo e semplificando i termini: possono essere beni, e quindi suscitare l’interesse dell’ordinamento e conseguire una certa tutela giuridica, solo quelle cose che sono (a) utili a soddisfare bisogni umani e (b) suscettibili di appropriazione.

Orbene, se è comprensibile che una cosa, per assurgere alla tutela ordinamentale, debba avere una qualche rilevanza nella vita umana113, come certamente è il caso di (a) “soddisfare bisogni umani”, molti dubbi emergono circa la caratteristica (b) dell’appropriabilità.

Infatti è ben possibile ragionare differentemente. Si accetti pure che una cosa possa ricevere la qualificazione giuridica di “bene” esclusivamente rivelando un interesse da parte dei consociati in quanto idonea a soddisfare bisogni umani; inoltre, si può dire che se una cosa soddisfa bisogni umani è utile. Tuttavia, perché collegare l’utilità, e quindi risalendo il percorso logico la qualificazione di bene, all’appropriabilità della cosa?

L’argomentazione qui addotta si fonda sull’affermazione secondo la quale solo una cosa di cui ci si può appropriare è utilizzabile; ma ciò è vero solo in parte, o meglio solo per alcune cose. Al contrario, molte cose possono essere interessanti per i consociati, e quindi meritare una qualificazione giuridica, al di là dell’appropriazione.

Siano sufficienti alcuni semplici esempi: un giardino pubblico può essere utilizzato per varie attività dei privati senza che nessuno di questi se ne appropri; l’aria che respiriamo, massimamente utile, potrebbe configurarsi come un bene ed essere tutelato giuridicamente contro l’inquinamento, eppure ne è impossibile l’appropriazione114; un

112 F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, Napoli, 2002, pp. 55-56.

113 In effetti, a contrario non vi sarebbe alcun motivo per offrire tutela giuridica a cose assolutamente

inutili.

114 Successivamente sarà approfondita la questione del bene giuridico ambiente: tale bene, per la sua

complessità ed eterogeneità, non è appropriabile eppure certamente è utile e difatti è tutelato dall’ordinamento tramite il c.d. Codice dell’ambiente D.Lgs. n. 152/2006. A. Gambaro, I beni, cit., pp.

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fondo librario in una biblioteca privata può essere destinato ad un’utilizzazione pubblica in favore di molti utenti, che certamente soddisfano propri bisogni, eppure nessuno di questi si appropria dei libri. Insomma, le varie situazioni che vengono ad esistere intorno alle cose ed al loro uso per soddisfare bisogni umani, sembrano mostrare né la centralità né l’indispensabilità del momento appropriativo.

Anzi, sembra che tra le due caratteristiche (capacità di soddisfare bisogni umani e appropriabilità) attribuite ai beni vi possa essere una incompatibilità eventuale115: una cosa suscettibile di (b) appropriazione, in particolare nel caso di appropriazione privata, può perdere completamente l’attitudine (a) a soddisfare bisogni umani nella misura in cui l’unico soggetto destinatario delle utilità del bene è il proprietario; questi, infatti, detiene sia la facoltà di escludere gli altri dal godimento del bene, sia il potere di

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