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Il dibattito sui beni comuni. Profili teorico-normativi e implicazioni filosofico-giuridiche.

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1 INDICE

PREMESSA. Una filosofia del diritto per i beni comuni ______________________3

INTRODUZIONE. __________________________________________________17

PARTE I.

Le cose, i beni, le proprietà

______________________________35

CAPITOLO 1. Il rapporto tra cose e beni ________________________________ 37 1.1. Il criterio appropriativo _________________________________________ 41 1.1.1. Proprietà, utilità e terre comuni: la riflessione di J. Locke____________47 1.2. Il criterio della qualificazione giuridica ____________________________ 72 1.3. Il criterio dell’interesse: la riflessione di R. Von Jhering _______________ 76 CAPITOLO 2. I beni ________________________________________________ 87

2.1. Nozione _____________________________________________________ 89 2.2. L’interesse nella qualificazione giuridica __________________________ 105 2.3. Un’analisi dei beni pubblici ____________________________________ 109 CAPITOLO 3. Le proprietà __________________________________________ 131

3.1. La proprietà e le proprietà ______________________________________ 135 3.2. Le proprietà in H.S. Maine _____________________________________ 141 3.3. Le influenze filosofico-giuridiche nella teoria della proprietà di Pugliatti _ 153 3.4. La proprietà nella Costituzione: la funzione sociale __________________ 164 3.5. La funzione sociale, le proprietà, i beni ___________________________ 188

PARTE II. I beni comuni

_________________________________________197

CAPITOLO 1. I beni comuni nella Commissione Rodotà ___________________ 211 1.1. La riflessione sui beni comuni di Stefano Rodotà ___________________ 233 CAPITOLO 2. Beni comuni e diritti fondamentali ________________________ 249

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CAPITOLO 3. Beni comuni e usi civici ________________________________ 263 CAPITOLO 4. Beni comuni: dalla tragedia alla gestione __________________ 291

APPENDICE: i beni comuni nell’esperienza giuridica romana tra storia e filosofia 317 1 Le res communes omnium ________________________________________ 321 2 Le proprietà nell’esperienza giuridica romana ________________________ 362

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ___________________________________403

Riferimenti bibliografici_____________________________________________425

AVVERTENZA

Nelle note le citazioni dei testi sono date in forma semplificata; nella bibliografia è possibile rinvenire i riferimenti completi. Nei casi in cui manca il rimando alla versione italiana di un testo in lingua straniera citato, la traduzione è di chi scrive.

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Premessa

Una filosofia del diritto per i beni comuni

Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.

Antonio Gramsci

Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura

Con la presente ricerca si intende fornire un contributo teorico e filosofico-giuridico al dibattito in corso circa la costruzione delle categoria concettuale dei beni comuni. In ordine a tale obiettivo sono doverose alcune premesse di tipo terminologico nonché metodologico.

Innanzitutto, e molto semplicemente, perché “filosofia del diritto e beni comuni”? Ovvero, qual è la ragione di una ricerca di filosofia del diritto inerente il tema dei beni comuni?

Evidentemente, per rispondere a tale domanda, occorre concentrare l’attenzione sulle due espressioni collegate dalla congiunzione, dunque, preliminarmente, è indispensabile rispondere alle domande: cos’è la filosofia del diritto? Cosa sono i beni comuni?

Entrambe le questioni non sono semplici e non hanno risposte scontate, poiché la prima rappresenta, verosimilmente, il fondamentale quesito sul quale ogni studioso della materia è chiamato a riflettere in ordine alla statuto epistemologico della propria attività; la seconda questione risulta parimenti complessa poiché, come si vedrà, molteplici, e talvolta incompatibili, sono gli approcci e le definizioni intorno al tema dei beni comuni. Per comodità espositiva, onde render palesi i punti più critici, è conveniente procedere con ordine, dando risposta alla prima domanda inerente la filosofia del diritto.

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La filosofia del diritto è la filosofia che si occupa del diritto1; tale definizione, come appare, è tautologica e, come avviene per tutte le tautologie, nulla aggiunge a quanto già contenuto nel definiendum; infatti, non appena ci si spinge un po’ più in là da tale rassicurante – in quanto nulla aggiunge di nuovo – definizione, la navigazione si fa assai problematica:

Al di là di questa nozione volutamente banale iniziano le controversie tra i filosofi del diritto, per i quali la natura della propria disciplina è essa stessa oggetto di indagine e discussione2.

E ciò in quanto definire cosa sia la filosofia del diritto comporta, inevitabilmente, fare già – e magari, scegliere una – filosofia del diritto3.

Infatti, se volessimo compiutamente cercare una definizione di filosofia del diritto dovremmo definire prima i termini che compongono tale espressione e dunque rispondere alle domande: cos’è la filosofia? Cos’è il diritto?

Orbene, rispondere a queste domande, forse, non è impossibile ma, di sicuro, comporta una riflessione che non può essere contenuta in uno spazio chiamato “premessa”; tuttavia, pur senza scendere troppo nel dettaglio, emerge una considerazione: dalla nebulosità delle stesse espressioni “filosofia” e “diritto”, possiamo sostenere che sia sensato parlare di filosofie del diritto, nella misura in cui, al variare del

1 In proposito è utile richiamare l’opinione di G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. 1,

Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 3: «Si può discutere – e molto si è discusso – se sia legittimo parlare di una filosofia del diritto; e pur trascurando le ormai dimenticate negazioni di essa dei vecchi positivisti che volevano ridurla alla teoria generale del diritto, alla sociologia, o magari al diritto comparato, bisogna riconoscere che è assurdo pensare una qualsiasi filosofia particolare, una filosofia che non sia la filosofia puramente e semplicemente: ragione per cui di una filosofia del diritto distinta dalla filosofia pura e semplice non si dovrebbe parlare».

2 M. Jori, A. Pintore, Introduzione alla filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2014, p. 1.

3 E così non può non essere, poiché se da un lato è certamente auspicabile una precisione

terminologica nelle definizioni e di conseguenza una chiarezza generale del linguaggio, dall’altro non si possono sempre considerare le definizioni come agevoli porti da cui salpare; una definizione, al contrario, è un faticoso approdo – spesso instabile – al termine di una lunga, complessa e pericolosa navigazione. E. Ripepe, Fragilità del potere, il tuo nome è uomo, in «Rivista di filosofia del diritto», 2/2014, Il Mulino, Bologna, pp. 338-339: «[…] in filosofia le definizioni devono costituire il punto d’arrivo, e non il punto di partenza di un percorso, e questo vale, come non può non valere, anche per la filosofia del diritto […]».

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senso dell’espressione “diritto”, muta anche la filosofia relativa di cui il “diritto” ne rappresenta l’oggetto4. Insomma, se a ciascun significato di diritto corrisponde almeno una filosofia del diritto allora si dovrà dire che esistono più filosofie del diritto5, tante quante sono le concezioni relative al diritto.

Allora più di che cosa è la filosofia del diritto, si dovrebbe parlare di che cosa sono le filosofie del diritto nella misura in cui esistono differenti punti di vista su cosa sia il diritto e su cosa sia e come sia da farsi la filosofia6; insomma, per definire cosa sia la

4 H.L.A. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1965, p. 3: «Poche questioni riguardanti la

società umana sono state poste tanto insistentemente e sono state risolte da pensatori seri in modi tanto diversi, strani e perfino paradossali come la questione “Che cos’è il diritto?”. Anche se limitiamo la nostra attenzione alla teoria giuridica degli ultimi centocinquant’anni e lasciamo da parte la riflessione classica e medievale sulla “natura del diritto”, ci troviamo di fronte a una situazione che non ha eguali in nessuna altra materia studiata in modo sistematico come disciplina accademica a sé».

5 Sul tema della o delle identità della filosofia del diritto si veda l’interessante discussione contenuta

nella «Rivista di filosofia del diritto», 1/2012, Il Mulino, Bologna, 2012; da tale discussione emerge con nettezza proprio la plurale identità della filosofia del diritto come giustamente nota E. Ripepe, Fragilità

del potere, il tuo nome è uomo, cit., pp. 336, 339: «Da tempo, infatti, i filosofi del diritto non soltanto dicono cose diverse, e magari incompatibili tra loro – il che, se non è frequentissimo in campo scientifico,

tra i filosofi è quasi la norma – ma anche fanno (cioè si occupano di) cose tra loro assai diverse in modo assai diverso. Se si guarda a quello che essi fanno, e a come lo fanno, può addirittura sorgere il dubbio che non ci sia in realtà una filosofia del diritto, ma tante: tante, quasi, quanti sono i filosofi del diritto; e può venire da chiedersi come possano essere tutte riportate a un comune denominatore, quello, appunto, di filosofia del diritto»; il denominatore comune della filosofia del diritto consiste proprio in una identità plurale di metodi d’indagine ed argomenti di studio: «E da questo punto di vista, non si vede come sarebbe possibile non riconoscere che ad accomunare le opere tradizionalmente ascritte alla filosofia del diritto (ante, non meno che post litteram, se così si può dire), sia stato il fatto che vi si trovino esposte, in modo sistematico o meno, riflessioni e considerazioni, affermazioni e ipotesi relative a (ciò che si è comunemente inteso come) diritto, giustizia, società, potere, e ai rapporti tra essi intercorrenti».

6 Infatti, il problema della definizione della filosofia del diritto riguarda non solo l’oggetto “diritto”

della filosofia, ma anche la filosofia stessa; ad esempio, in riferimento ai principi concettuali ed ai metodi da adottare, si distingue tra filosofie analitiche e filosofie sintetiche, entrambe declinate al plurale: «Poiché gli approcci analitici alla filosofia sono diversi e non sempre interamente compatibili è meglio parlare di filosofie analitiche al plurale. Certamente al plurale si deve parlare delle filosofie sintetiche» M. Jori, A. Pintore, Manuale di teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino, 1995, p. 112. In riferimento alla complessità dell’oggetto “diritto”: G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 10: «Il vocabolo “diritto” è tra i più ambigui e polisenso tra quelli impegnati scienze politiche». F.

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filosofia del diritto dovremmo prima aver chiarito cosa sia il diritto e cosa sia la filosofia; se l’ultima questione appare di per sé di difficile soluzione, la prima si presenta logicamente complessa in quanto chiarire cosa sia il diritto è proprio il tradizionale compito della filosofia del diritto7.

Come sostenuto in precedenza, e rinunciando qui a dare una definizione unitaria, si può così dire che esistono differenti filosofie del diritto8 in ragione altresì del metodo da esse adottato; peraltro, proprio a partire da tale considerazione, e per i fini del presente lavoro, è utile distinguere le differenti filosofie anche a seconda dei soggetti che le “praticano”. Infatti, è nota a tutti la distinzione proposta da Bobbio tra filosofie del diritto dei filosofi e filosofie del diritto dei giuristi9; secondo Bobbio, la filosofia del diritto dei filosofi consiste nell’applicazione di una filosofia generale al tema del diritto, mentre la filosofia del diritto dei giuristi, secondo un’autorevole interprete:

si fonda sulla convinzione che l’analisi debba precedere la sintesi e che la soluzione dei problemi del diritto debba essere ricercata attraverso l’osservazione dell’esperienza giuridica10.

Bonsignori, Diritto, valori, responsabilità, Giappichelli, Torino, 1997, p. 9: «Non s’incontrano molte obiezioni oggi a sostenere che l’oggetto giuridico in generale, cioè l’insieme dei dati a cui guarda il sapere giuridico, rappresenta non un ente obiettivo, distinto e autonomo al quale lo studioso si rivolge, bensì il risultato di una complessa operazione in cui l’intervento stesso dello studioso è determinante».

7 E. Ripepe, Fragilità del potere, il tuo nome è uomo, cit., p. 334: «E si potrebbe definire la filosofia

del diritto sulla base di una definizione del diritto che dovrebbe essere proprio la filosofia del diritto a mettere a punto?». G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. 1, cit., pp. 3-4: «Questo oggetto della nostra esperienza, questo prodotto dell’agire umano che è il diritto propone anche sul piano filosofico problemi particolari, da quello della sua peculiare essenza a quello del suo fondamento e del suo valore, da quello del suo rapporto con le altre creazioni dell’uomo a quello della natura e del metodo della scienza che lo studia: problemi spesso fondamentali per la coscienza umana in ogni tempo – basti pensare a quello della giustizia – e la cui diversa impostazione e soluzione nelle diverse epoche ha rilevanza capitale nella storia del pensiero».

8 Cosa che si ritiene non dissimile da quanto affermato in precedenza circa l’identità plurale della

filosofia del diritto.

9 N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Giuffrè, Milano, 1997, pp. 37 e ss.

10 C. Faralli, Introduzione, in G. Zanetti (a cura di), Filosofi del diritto contemporanei, Raffaello

Cortina, Milano, 1999, p. XV. In particolare N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., pp. 43-46, con l’espressione filosofia del diritto dei giuristi vuole intendere un lavoro volto a dare «precedenza all’analisi sulla sintesi, precedenza fondata sulla convinzione che, pur essendo sintesi ed

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Orbene, la presente ricerca, con molta modestia, si inserisce nella seconda categoria delle filosofie nella misura in cui intende assumere prevalentemente il punto di vista meta-filosofico fondamentale della concezione giuspositivistica in ragione del quale si intende filosofia del diritto come filosofia del diritto positivo11.

Non per questo, però, si è rinunciato ad interrogarsi sui problemi del diritto, proponendone soluzione in riferimento, come si dirà meglio poco oltre, alla questione dei beni comuni. Insomma, e molto semplicemente, si è cercato di analizzare un diritto positivo com’è (quello italiano vigente) con il fine di capire se, ed in che misura, vi sia spazio per i beni comuni. Per adempiere a tale compito, consapevoli delle difficoltà, si è cercato di tenere sempre ben distinti i piani del discorso (descrittivo e prescrittivo) facendo, allo stesso tempo, tesoro della lezione di Bentham per cui ad un lavoro di conoscenza del diritto – giurisprudenza espositiva – si può affiancare un lavoro di proposta politica del diritto, ovvero una giurisprudenza censoria-valutativa:

A book of jurisprudence can have but one or the other of two objects: 1. To ascertain what the law is; 2. To ascertain what it ought to be. In the former case it may be styled a book of expository jurisprudence; in the latter, a book of censorial jurisprudence: or, in other words, a book on the art of legislation12. Seguendo le orme di Bentham, e detto altrimenti dalla sue parole, si è cercato di portare avanti un discorso che si potesse muovere su due piani, quello descrittivo e quello prescrittivo13, avendo ben chiaro che si tratta di piani distinti, ma avendo ancora più chiaro che se si vuol proporre qualcosa è opportuno conoscere preliminarmente il

analisi momenti necessari di ogni ricerca» sia da preferire un’analisi senza sintesi piuttosto che una sintesi senza analisi poiché la prima almeno fornisce «materiali buoni per costruire, mentre la seconda dà luogo il più delle volte a case di sabbia, in cui nessuno andrebbe volentieri ad abitare».

11 Sul punto, G. Pino, A. Schiavello, V. Villa (a cura di), Filosofia del diritto. Introduzione critica al pensiero giuridico e al diritto positivo, Giappichelli, Torino, 2013, p. XVIII.

12 Imprescindibile il riferimento a J. Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, by J.H. Burns, H.L.A. Hart, Clarendon Press, Oxford, 1996, pp. 293 e ss.

13 Sul punto, G. Tarello, Diritto, enunciati, usi, cit., in particolare pp. 367-386 “Linguaggio descrittivo

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sistema ove si vuole inserire proprio quel qualcosa proposto14. Ed entrambi i piani di ricerca, quello descrittivo-espositivo e quello prescrittivo-pratico, appartengono alla/e filosofia/e del diritto:

Se si vuole tracciare una nuova mappa che aiuti ad orientarsi negli studi di filosofia del diritto della seconda metà del Novecento, bisognerebbe – credo – almeno distinguere due tipi di ricerche: il primo di tipo descrittivo o teorico volto ad indagare il diritto com’è e ad esplorarne la natura; il secondo di tipo normativo o pratico interessato al diritto come deve essere e alla valutazione critica del diritto positivo15.

Orbene, una filosofia del diritto dei giuristi, tendenzialmente scientifica, che restringe il campo d’indagine ad un determinato diritto positivo, quello italiano vigente, per analizzarlo com’è, ed una volta analizzato com’è, un’altra filosofia del diritto dei

14 Non si può dire, quindi, d’aver fatto costantemente ed in ogni caso della “scienza giuridica” intesa

come «discorso sul diritto puramente cognitivo, e dunque descrittivo, a-valutativo, assiologicamente neutro», ma semmai della “dogmatica giuridica”: R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 213 e ss. Differente l’opinione di Ferrajoli secondo il quale, in un regime giuridico a costituzione giuridica, la scienza giuridica è scienza normativa nella misura in cui si tratta di un discorso di tipo prescrittivo, poiché critico del diritto esistente e propositivo di diritto nuovo; sul punto, altamente problematico, L. Ferrajoli, “Lo Stato di diritto fra passato e futuro”, in P. Costa, D. Zolo, Lo Stato di

diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 354 e ss. In un senso analogo, sono illuminanti

le parole di Scarpelli sull’interpretazione politica del positivismo giuridico: «Mentre per l’interpretazione scientifica la positività è in funzione della scientificità, si fa una scienza del diritto come scienza del diritto positivo perché interessa fare la scienza del diritto e, identificando nel diritto positivo l’oggetto che la rende possibile, le si assegna appunto questo oggetto, ci si volge con la scienza al fatto e, incontrando come fatto il diritto positivo, questo fatto si conosce nella scienza, per l’interpretazione politica al contrario la scientificità è in funzione della positività, si fa un lavoro scientifico sul diritto positivo, ci si preoccupa di intenderlo e di precisarlo e di ricostruirlo in un rigoroso sistema, si elabora l’apparato concettuale atto alla traduzione delle norme interpretate in espressioni rigorose ed alla formulazione delle relazioni interne al sistema, per servire la volontà politica che in quel diritto positivo si è manifestata, per attuare la disciplina dei rapporti sociali cui quella volontà politica tende, per rendere effettiva e funzionante la struttura di norme di diritto positivo che è lo scheletro dell’organizzazione politica. Il giurista giuspositivista, stando a questa interpretazione del positivismo giuridico, non è uno scienziato ispirato da un puro amore per la scienza, ma piega forme scientifiche di pensiero, di linguaggio e d’opera a fini e interessi politici: i fini e gli interessi politici dello stato moderno» in U. Scarpelli, Cos’è il

positivismo giuridico, Comunità, Milano, 1965, p. 50.

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giuristi, tendenzialmente dogmatica, che propone come dovrebbe essere quel diritto positivo: due tipologie di riflessioni giuridiche, differenti per fini e metodi, ma pur sempre all’interno della filosofia del diritto.

Detto ciò, è indispensabile rispondere alla seconda domanda che avevamo posto in precedenza: cosa sono i beni comuni? Anche per questa domanda occorre rispondere con ordine poiché, come per la precedente, non si tratta di una risposta semplice.

Nel contesto italiano16, l’interesse verso i beni comuni è emerso con forza nell’ultimo decennio probabilmente in reazione alle politiche di privatizzazione di beni ed imprese pubbliche che hanno caratterizzato il decennio precedente17; tuttavia, «si può dire che il 2011 sia stato l’anno dei beni comuni»18, poiché è l’anno del referendum sulla gestione dei servizi idrici pubblici locali, l’anno in cui il tema diviene al centro della discussione pubblica19. O meglio, paradossalmente, è la discussione pubblica che entra al centro del

16 All’estero, specialmente nei paesi di lingua inglese, il tema dei beni comuni (commons) è oggetto di

un dibattito vivace che coinvolge studiosi di differenti discipline. Come si dirà, è possibile individuare l’emersione internazionale del tema a partire dall’articolo di G. Hardin, The Tragedy of the Commons, in

Science, vol. 162, n. 3859, 1968; come esempio della vivacità del dibattito internazionale, si rammenta

che Elinor Ostrom, “oppositrice” delle tesi di Hardin è stata un’economista premiata con il Nobel nel 2009 proprio per le ricerche sui commons.

17 V. Cerulli Irelli, L. De Luca, Beni comuni e diritti collettivi, in «Politica del diritto», n. 1/2014, Il

Mulino, Bologna, p. 3.

18 S. Rodotà, Il valore dei beni comuni, in “la Repubblica” del 5 gennaio 2012: «Quasi all’improvviso,

l’Italia ha cominciato ad essere percorsa da quella che Franco Cassano aveva chiamato la “ragionevole follia dei beni comuni”. E questo è avvenuto perché la forza delle cose ha imposto un mutamento dell’agenda politica con il referendum sull’acqua come “bene comune”. Da quel momento in poi è stato tutto un succedersi di iniziative concrete e di riflessioni teoriche, che hanno portato alla scoperta di un mondo nuovo e all’estensione di quel riferimento ai casi più disparati. Si parla di beni comuni per l’acqua e per la conoscenza, per la Rai e per il teatro Valle occupato, per l’impresa, e via elencando».

19 Come nota con una certa e comprensibile enfasi Mattei: «Erano quelli i mesi, che oggi sembrano

lontanissimi, in cui nell’Occidente liberale i “beni comuni” stavano abbandonando le scrivanie di un numero circoscritto di studiosi, per lo più economisti negli Stati Uniti (Ostrom e altri) e giuristi in Italia (Commissione Rodotà), ponendo le premesse, tradotte in quesiti referendari, per divenire importante categoria del dibattito politico, capace di infliggere una delle sue pochissime sconfitte al modello neoliberale trionfante dalla caduta del Muro di Berlino» in U. Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino, 2015, edizione ebook senza numeri di pagina.

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tema dei beni comuni generando così una pluralità di prospettive, teorie, visioni, proposte, all’interno delle quali non sempre è facile orientarsi.

In un tale contesto, e dal referendum in poi, l’intensificazione del dibattito non ha conseguentemente comportato uno sviluppo teorico della nozione “beni comuni”20: anzi, l’espressione “beni comuni”, infatti, fortemente inflazionata21, è divenuta una sorta di contenitore vuoto di volta in volta riempito con le aspirazioni politiche, ideologiche, filosofiche, economiche di ciascun partecipante al dibattito.

Ecco che della nozione di “beni comuni” è impossibile dare una definizione univoca nella misura in cui si tratta, ancor oggi, di un argomento costantemente in divenire. Tuttavia, se ne possono riportare alcune e tra queste scegliere quelle più convincenti, come s’è fatto in questa ricerca, in quanto teoricamente dense e feconde; dunque, quando si parla di beni comuni, in questa sede, si intende principalmente far riferimento alla nozione datane dalla Commissione Rodotà come «cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona»22 e, seppur con minor frequenza23, alla definizione di Elinor Ostrom di

20 Come suggerisce il sottotitolo, una puntuale critica del caotico dibattito è contenuta in E. Vitale,

Contro i beni comuni. Una critica illuminista, Laterza, Roma-Bari, 2013.

21 Sempre Rodotà, “la Repubblica” del 5 gennaio 2012, già metteva in guardia dall’incontrollata

proliferazione del termine “beni comuni”: «L’inflazione non è un pericolo soltanto in economia. Si impone, quindi, un bisogno di distinzione e di chiarimento, proprio per impedire che un uso inflattivo dell’espressione la depotenzi. Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza».

22 La proposta della Commissione Rodotà è esaminata in una sezione dedicata.

23 Affrontando una ricerca di filosofia del diritto è del tutto evidente come il punto di vista adottato

con maggior frequenza sia quello giuridico e, pertanto, la definizione più usata è quella della Commissione Rodotà. All’occorrenza, sarà dato conto delle numerose altre prospettive intorno al tema dei beni comuni, in riferimento al quale si può tener presente fin da subito il lavoro di M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona, 2012, che offre una vasta e articolata panoramica del dibattito, con contributi di autori afferenti a diverse discipline.

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«risorse condivise da un gruppo di persone e soggette a dilemmi ossia interrogativi, controversie, dubbi, dispute sociali»24.

Già a questo livello si possono intuire alcune difficoltà intorno alla nozione di beni comuni; per esempio, nella definizione della Commissione sono implicati i diritti fondamentali e, dunque, i beni comuni affondano le loro radici nel campo giuridico; nella definizione di Ostrom, i beni comuni sono “risorse” dunque inseriti nella sfera economica con riferimento alle possibilità gestionali derivanti dal loro utilizzo. Ma la stessa definizione giuridica della Commissione pone limiti alla circolazione dei beni comuni sul mercato, implicando così valutazioni economiche; del resto, il lavoro di Ostrom contiene un’analisi precisa dei sistemi di regole volti alla gestione delle risorse comuni con ciò accostandosi al tema degli usi civici; ancora, in entrambi i casi si dibatte della relazione tra persone e cose, ponendo l’attenzione e la critica sui modi di possedere e discutendo della proprietà. Insomma, con una metafora non originale25, si può dire che l’espressione “beni comuni”, semioticamente, è una sorta di rizoma capace di intrecciare ed intersecarsi su piani differenti, connettendo ambiti, teorie e discorsi assai diversi fra loro.

Se così è, rispondere alla domanda su cosa sono i beni comuni non è facile, anzi non è possibile: se definire qualcosa, come si è sostenuto poco sopra, è un punto d’arrivo d’una riflessione, un porto d’attracco, allora, in questo caso, siamo ancora lontani dai sicuri e saldi ormeggi poiché in piena ed aperta navigazione; tuttavia, pur procedendo in mare aperto, è preferibile scegliere una rotta, una direzione, e quella presente in questo lavoro consiste nella definizione proposta dalla Commissione Rodotà poiché ad avviso di chi scrive la più feconda: ci indica il percorso di navigazione più sicuro per giungere ad un saldo approdo sui beni comuni. Così posta la questione, pur nella precarietà della definizione, è possibile dirsi, preliminarmente, soddisfatti rispetto a cosa sono – e non sono ancora – i beni comuni.

In questo modo abbiamo risposto alle domande iniziali su cosa si intende per “filosofia del diritto” e per “beni comuni” ma manca ancora la risposta a perché “filosofia del diritto e beni comuni”. Anche in questo caso, occorre andare per ordine.

24 E. Ostrom, La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Bruno Mondadori, Milano,

2009, p. 3.

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Se si sceglie come definizione di beni comuni quella offerta dalla Commissione Rodotà allora bisogna constatare che i beni comuni non esistono nel nostro ordinamento positivo; difatti, il lavoro della Commissione è stato quello di proporre una riforma del Codice civile inerente i beni pubblici con il fine di introdurre i beni comuni. Dunque, si parla di beni comuni come beni che non esistono nel nostro ordinamento positivo, eppure si fa riferimento a cose della realtà già interessate da una disciplina normativa26, appunto da innovare; insomma, si propone che alcune cose del mondo, attualmente beni privati (in proprietà privata) o pubblici (in proprietà pubblica), domani siano beni comuni nella misura in cui si ritiene auspicabile che quelle cose divengano, per l’appunto, comuni27. Detto ancora diversamente, i beni comuni esistono come proposta poiché non esistono ancora nell’ordinamento positivo; ma esistono sia realmente sia giuridicamente quelle cose-beni oggetto della proposta e per le quali si auspica la qualificazione come “comuni”.

Ecco che ci si è inseriti nella tensione tra il diritto com’è e il diritto come potrebbe e dovrebbe essere se introdotti i beni comuni nel nostro ordinamento: può il nostro diritto positivo, essendo un regime a costituzione rigida, accogliere la nozione di beni comuni? E se accolta, con quali mutamenti per le vigenti categorie giuridiche, in particolare per quel terribile diritto che è la proprietà?

Allora, anche giuridicamente, il tema dei beni comuni si presenta come una questione di notevole vivacità28 che interroga il giurista su più fronti; infatti, le domande

26 «Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i

parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate» così, a titolo esemplificativo, la proposta di articolato elaborata dalla Commissione Rodotà.

27 In questo senso, saremmo- in presenza di una lacuna assiologica secondo la terminologia di R.

Guastini, Interpretare e argomentare, cit., pp. 134 e ss.: «Si dice “lacuna assiologica” la mancanza di una norma che – secondo le soggettive preferenze etico-politiche (assiologiche, appunto) dell’interprete –

dovrebbe esserci. Deve essere chiaro che affermare l’esistenza nell’ordinamento di una lacuna assiologica

è non un giudizio di fatto, ma un giudizio di valore: non una descrizione del diritto com’è, ma una critica del diritto esistente e/o una prescrizione di come dovrebbe essere».

28 E di notevole complessità: «Per non parlare della nozione giuridica, e ancor prima

analitico-descrittiva, di “beni-comuni”, vero e proprio caso paradigmatico di “notte in cui tutte le vacche sono nere”» E. Vitale, Contro i beni comuni. Una critica illuminista, cit., p. VIII.

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di cui sopra implicano una discussione ampia ed aperta alla quale può fornire il proprio contributo, innanzitutto, una riflessione filosofica sul diritto che sappia raccogliere la duplice sfida di misurarsi pienamente con i problemi della contemporaneità e di lasciarsi contaminare dalle altre discipline:

Il fatto è che l’evoluzione del diritto contemporaneo costringe tutte le discipline che di esso si occupano a divenire necessariamente porose, a farsi attente a ciò che avviene in campi diversi dal proprio e ad abbandonare ogni rigida specializzazione29.

Ed è proprio in quest’ottica che si sono scelti i “beni comuni” come oggetto di un’indagine di filosofia del diritto, onde misurarsi con compiti d’analisi e di sintesi su di un campo aperto e con un terreno sotto i piedi scivoloso ed instabile; per questo non si può che essere d’accordo con la seguente affermazione:

[…] la filosofia del diritto, così come io la concepisco, non dovrebbe discostarsi troppo dalle trasformazioni del diritto positivo, per non correre il rischio, nel caso contrario, di essere soltanto “una filosofia del diritto dei filosofi”. Questa raccomandazione non è un invito a rinunciare alla radicalità dell’indagine filosofica, ma, al contrario, io ho sempre pensato che l’aderenza alla realtà, per quanto ruvida sia, costituisca una sfida alla quale la speculazione non può sottrarsi; e certamente essa vi troverà una fonte di rinnovata ispirazione30.

Si è operata, in tutta modestia, un’indagine giuridica, filosofica e teorica, che contribuisce – questo è l’obiettivo, così ci si augura – ad influenzare la realtà: e proprio in relazione al tentativo di influenzare la realtà i beni comuni si prestano come ottimo banco di prova.

Ecco che, se nel nostro ordinamento non esistono i beni comuni, come intesi dalla Commissione Rodotà, allora si è ritenuto interessante operare un’analisi volta a conoscere i margini per un loro inserimento; e tale scopo non può essere assolto senza confrontarsi con le vigenti categorie giuridiche a partire da quelle direttamente coinvolte di “cose”, “beni” e “proprietà”31. Ma se, come abbiamo detto, le cose che devono

29 F. Viola, Presentazione, cit., p. 4.

30 F. Ost, Quale filosofia del diritto?, in «Rivista di filosofia del diritto», 1/2012, Il Mulino, Bologna,

2012, p. 27

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diventare comuni esistono già allora l’attenzione maggiore deve essere dedicata alla questione dei beni in senso giuridico e della proprietà: su queste due connotazioni si attua la trasformazione giuridica della cosa in comune. Come si vedrà a breve. attualmente i beni o appartengono a privati in proprietà privata o appartengono ad enti pubblici in proprietà pubblica; l’introduzione della categoria dei beni comuni si inserisce proprio all’interno di questa dicotomia scuotendola nei fondamenti ed il mutamento più forte sembra potersi individuare in un nuovo assetto della proprietà nella misura in cui appaiono fortemente limitati i poteri del soggetto titolare del bene: i beni comuni, infatti, possono essere a titolarità sia pubblica sia privata ma deve essere garantita la loro fruizione per la collettività con ciò mettendosi in radicale discussione il diritto d’esclusione32. Ad esempio, è ammissibile, nel nostro ordinamento, che un privato proprietario di un bene ipotizzato “comune” non abbia il diritto di escludere gli altri dall’uso del proprio bene? È ammissibile in capo a ciascun individuo una pretesa all’uso di un bene comune di cui è tuttavia proprietario un singolo? E se sì, si tratta ancora di proprietà privata?

Queste domande interrogano lo studioso e mettono in discussione le discipline giuridiche, e non solo, fin nei loro fondamenti, così che le relative risposte, senz’altro provvisorie, devono provenire, come detto in precedenza, da un confronto, ampio ed aperto, che sappia mettere in relazione – in questo senso “contaminare” – differenti saperi. Infatti, la questione “beni comuni” è complessa sia da un punto di vista generale (politico, filosofico, storico, economico, giuridico), sia dal punto di vista particolare filosofico-giuridico; allora, per cercare di comprendere la complessità dietro ai beni comuni è stata necessaria una compenetrazione di discipline con lo sguardo rivolto anche oltre la filosofia del diritto dei giuristi che rimane, ad ogni modo, l’orizzonte di riferimento.

32 S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Il Mulino, Bologna,

2013, pp. 462-463: «Accesso e proprietà si presentano come categorie autonome e, in diverse situazioni, potenzialmente o attualmente in conflitto. Si può accedere a un bene, e goderne delle utilità, senza assumere la qualità di proprietario. In questo senso, l’accesso costituzionalmente previsto ben può essere inteso come strumento che consente di soddisfare l’interesse all’uso del bene indipendentemente dalla sua appropriazione esclusiva».

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Ecco che, come si sostiene, e come si è cercato di operare nella presente ricerca, c’è bisogno di una filosofia del diritto “contaminata” che sappia interrogare e rispondere alla complessità del presente mettendo in discussione, e facendo discutere, i saperi; così, in sintesi, la storia della filosofia del diritto diviene una genealogia dell’emergenza della proprietà moderna attraverso l’opera di Locke; la qualificazione giuridica della cosa in bene è indagata, tramite la filosofia del diritto dei giuristi, attraverso la nozione di interesse messa in luce da Jhering; la storia del diritto fornisce interessanti spunti sull’esperienza giuridica romana all’interno della quale la proprietà vive varie trasformazioni ed istituisce differenti relazioni tra le persone e le cose, come Maine testimonia; inoltre, sempre nell’esperienza giuridica romana, si conosce l’esistenza delle res communes omnium, nei testi sia dei filosofi sia dei giuristi dell’epoca; in maniera analoga, dalla storia dell’esperienza giuridica medievale e moderna emergono gli usi civici che ancora oggi esistono e rappresentano, sulle orme di Grossi, un fecondo punto di riflessione; inoltre, come ulteriore contaminazione, è la riflessione posta in essere dal diritto civile e costituzionale intorno ai regimi dei beni che rivela, in tempi recentissimi e come Pugliatti testimonia, una vasto dibattito su la proprietà e le proprietà; infine, ma non per questo escludendo a priori ulteriori contaminazioni, la riflessione economica offerta da Ostrom sul miglior governo dei vari tipi di beni offre una prospettiva ancora differente arrivando a mettere in discussione sia la gestione pubblica sia quella privata delle risorse.

In conclusione, il diritto dei beni comuni è una proposta tutta da costruire33, da studiare e da meditare, una proposta in relazione alla quale la riflessione filosofica sul diritto è in grado di dare il suo contributo a partire, proprio dall’identità plurale della filosofia del diritto; tuttavia, ciò solo è necessario ma non sufficiente poiché risulta

33 Seppur con un approccio differente in quanto fortemente filosofico-politico, è sicuramente

interessante: S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri

costituenti, ombre corte, Verona, 2012, p. 9 dove, molto nettamente, ribandendo la differenza sostanziale

d’approccio al tema, si afferma: «Rivendicare diritti comuni – rivendicare il diritto del comune – vuol dire in prima approssimazione almeno questo: far saltare la dialettica tra pubblico e privato e ridislocare su di un altro piano il momento appropriativo. Chiamiamo perciò commons, beni comuni, è meglio precisarlo, quei beni che solo in comune possono essere prodotti e che solo come tali possono, perciò, essere fruiti e goduti. Non (o almeno non solo) quelli che altri intende invece riconoscere come inscritti nella natura o semplicemente legati ai diritti fondamentali della persona».

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indispensabile che, come si è detto, le filosofie del diritto, o la filosofia del diritto che con la sua identità plurale tutte le comprende, si spalanchino alla complessità del presente sfidandola apertamente grazie anche ai saperi provenienti da altre discipline. E per far ciò, lo si ripete in sintesi, non basta affermare una pluralità di filosofie del diritto, ma occorrono più filosofie del diritto che dialoghino tra loro e con altri ambiti del sapere.

In altre parole, e chiudendo queste lunghe premesse, si pone un’avvertenza: affrontando un tema così vivo e pulsante, ancora “caldo” e per questo avvolto da una spessa cortina fumogena tale da renderne poco decifrabile il contenuto, è stato indispensabile – e stimolante ed interessante – assumere punti di vista da diverse angolazioni: l’auspicio è che in questo gioco di specchi siano sufficientemente chiare le coordinate per orientarsi, un po’ per capire da dove si viene, un po’ per conoscere dove siamo e un po’ di più per muovere qualche passo in avanti.

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Introduzione

Voler dare una definizione della proprietà come d’un rapporto indipendente, di una categoria a parte, di un’idea astratta ed eterna, non può che essere un’illusione della metafisica o della giurisprudenza.

Karl Marx

Miseria della Filosofia

Negli ultimi tempi, il tema dei beni comuni è stato presente in numerosi dibattiti relativi a diverse discipline: economisti, filosofi, giuristi, scienziati della politica si sono confrontati con questa nozione34, alla ricerca di una maggiore comprensione di un concetto assai sfuggente.

Tale dibattito, impegnato in così differenti discipline, ha assunto dimensioni assai notevoli spaziando in diverse direzioni; infatti, l’argomento, ossia i beni comuni, è complesso e presenta implicazioni di natura giuridica, filosofica, politica ed economica. Inoltre, all’interno del dibattito stesso si è spesso registrata una mancata chiarezza iniziale in ordine a cosa si debba intendere, almeno in via approssimativa, con l’espressione “beni comuni”35:

34 Assai limitandosi ai più recenti: G. Arena, C. Iaione (a cura di), L’Italia dei beni comuni, Carrocci,

Roma, 2012; A. Di Porto, Res in usu publico e ‘beni comuni’. Il nodo della tutela, Giappichelli, Torino, 2013; A. Montebugnoli, L. Pennacchi, Tempo di beni comuni. Studi multidisciplinari, Ediesse, Roma, 2013; A. Lucarelli, Beni Comuni, Dissensi, Lucca, 2011; A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Roma-Bari, 2013; P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli, Roma, 2014; U. Mattei, Beni Comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2011; M.R. Marella (a cura di), Oltre il

pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona, 2012; L. Pennacchi, Pubblico, privato, comune. Lezioni dalla crisi globale, Ediesse, Roma, 2010; S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Il Mulino, Bologna, 2013.

35 Già metteva in guardia dallo scarso rigore del dibattito in lingua inglese sulla materia, C. Hess, E.

Ostrom, Idea, Artifacts, and Facilities: Information as a Common-Pool Resource, in Law&Contemporary

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A seconda degli autori, vi rientrano, ad esempio, la scuola, l’università, la cultura, l’acqua, la sanità, la poesia, le opere di ingegno, il clima, l’accesso a internet, il lavoro, alcune creazioni dell’intelletto, ecc.36

Ad avviso di chi scrive, il discorso intorno ai beni comuni, nel contesto culturale italiano, si è principalmente orientato verso direzioni politiche «anti-sistema»37 senza che ne conseguissero, nella pratica, gli sperati (dai sostenitori, ovviamente) risultati38.

In particolare, si è verificato uno scarto semantico non da poco: nei primi lavori intorno al tema dei “beni comuni” 39, vari autori hanno cercato di individuare quali siano tali beni, quali caratteristiche abbiano ed in che rapporto stiano con gli altri beni; da ciò, la necessità di approntarne una disciplina giuridica coerente con l’attuale ordinamento.

36 V. Cerulli Irelli, L. De Luca, Beni comuni e diritti collettivi, in «Politica del diritto», n. 1, 2014, Il

Mulino, Bologna, p. 5.

37 C. Donolo, I beni comuni e l’episteme repubblicana, in «Politica e Società», n. 3, 2013, Il Mulino,

Bologna, p. 384, “anti-sistema” «nel senso di anticapitalistico e antiglobalizzazione, ma poi anche rivolto contro la sinistra “tradizionale”». Un discorso a parte meritano le opere di A. Negri dove è centrale la nozione di “comune” quale esito sintetico della dialettica tra “impero” e “moltitudine”; le opere di Negri si situano su un piano nettamente rivoluzionario e poco hanno a che vedere con l’ordinamento giuridico esistente, se non in una prospettiva, appunto, rivoluzionaria: «In questo quadro il comune non può esser posto in continuità con la tradizione giuridica, non può configurarsi come un terreno dentro il quale si propongono, dall’esterno, idee di giustizia… può solo contenere, costituire usi e governarli nell’immanenza, nella loro reciprocità e comunanza» in A. Negri, Il diritto del comune, in S. Chignola (a cura di), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprietà e nuovi poteri costituenti, ombre corte, Verona, 2012, p. 44.

38 A proposito di U. Mattei, Beni Comuni. Un manifesto, cit., si condivide il giudizio di E. Vitale,

Contro i beni comuni. Una critica illuminista, cit., dove a p. VIII l’autore così si riferisce al lavoro di

Mattei: «Personalmente esprimo un radicale dissenso non perché non condivida le intenzioni di fondo del manifesto – ripensare la deriva che fa del mercato l’unico dio cui erigere templi e fare sacrifici – ma perché ritengo generica, infondata e mistificatrice la proposta che in tale manifesto si avanza. Infatti, sotto l’aspetto di una proposta rivoluzionaria – una comunità politica fondata sulla primazia dei “beni comuni” – si nasconde, o meglio riaffiora, una visione del mondo premoderna, una regressione romantica al medioevo, visto letteralmente come luogo di una vita comunitaria felice ed ecologicamente equilibrata».

39 U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Invertire la rotta: Idee per una riforma della proprietà pubblica,

Il Mulino, Bologna, 2007; U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, I beni pubblici. Dal governo democratico

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Diversamente, in numerosi testi successivi a carattere maggiormente militante40, si è abbandonata tale impostazione preferendo sostenere, ad esempio, che:

In altri termini, i beni comuni sono resi tali non da presunte caratteristiche ontologiche, oggettive o meccaniche che li caratterizzerebbero, ma da contesti in cui essi divengono rilevanti in quanto tali41.

Intesi in quest’ultimo modo, i beni comuni diventano una sorta di «significante vuoto»42 ossia un concetto astratto passe-partout capace di accogliere al proprio interno le più differenti nozioni (risorse naturali, edifici, istituzioni, etc.) quando queste vengono rivendicate come “beni comuni” nella pratica di lotta politica. Il risultato di tale strategia ha comportato una moltiplicazione indeterminata dell’uso (all’interno del linguaggio retorico “antagonista”) della nozione “beni comuni” a discapito di un lavoro teorico-giuridico che, al contrario, ha solitamente il compito di definire, limitare e chiarire il significato e l’uso dei termini; dunque, si è registrata un’intensificazione dell’uso politico della nozione “beni comuni” ed un indebolimento del discorso teorico-giuridico.

Infatti, proprio sul piano del diritto positivo, il dibattito “politico-militante” sui beni comuni non ha prodotto alcun risultato43 poiché, nonostante i molti ed autorevolissimi

40 Chiara l’impostazione fin dal titolo: U. Mattei, Beni Comuni. Un manifesto, cit. 41 Ivi, p. 53.

42 E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2008; l’ipotesi che associa “beni comuni” alla

nozione di significante vuoto è avanzata anche in L. Coccoli, Commons/Beni comuni. Il dibattito

internazionale, goWare, Firenze, 2013.

43 Come noto, i lavori della Commissione ministeriale (14 giugno 2007) presieduta da Stefano Rodotà

hanno portato alla formulazione di una proposta di legge di delega al Governo per la modifica del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile con l’introduzione della categoria dei “beni comuni”; tale proposta di legge è attualmente rimasta lettera morta; i lavori di detta Commissione sono ben documentati in U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, Invertire la rotta: Idee per una riforma della proprietà pubblica, cit., e in U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla

riforma del codice civile, cit. Il positivo esito referendario, e la connessa narrazione politica precedente e

successiva al risultato, appare una vittoria dimezzata nella misura in cui ha sì arrestato un probabile processo di privatizzazione del servizio idrico ma non è stata in grado, su di un piano più generale, di “invertire la rotta” verso un ritorno ad un maggiore ruolo pubblico per i servizi ai cittadini; in giurisprudenza è da segnalare la pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 3665/2011 dove si afferma che «l’esigenza interpretativa di “guardare” al tema dei beni pubblici oltre una

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giuristi impegnati, non è stata avanzata una teoria giuridica dei beni comuni che si sia confrontata direttamente con l’ordinamento vigente. Quello che si vuol sostenere muove dalla convinzione che sia mancato il lavoro più umile, ossia quello che sta in basso, al principio: un lavoro di analisi teorica delle categorie giuridiche esistenti al fine di valutare la possibilità di inserimento, nell’ordinamento vigente, dei beni comuni.

È opinione di chi scrive che il vasto dibattito suscitato intorno ai beni comuni sia stato indice dell’esigenza di ripensare e ri-costruire alcune categorie giuridiche che, ancora ad oggi, appaiono inadeguate44. Da ciò, la necessità di un lavoro, paziente e lontano dai riflettori mediatici, teorico-giuridico sul diritto positivo che prepari il terreno alla semina dei beni comuni45: un tale lavoro è la modesta ambizione delle pagine che seguono; tuttavia, con l’amara consapevolezza per cui i più hanno preferito i terreni ben esposti alla mediatica e facile propaganda politica, con la conseguenza che, nel frattempo, il terreno fecondo del diritto si è rinsecchito ed i pazienti ed umili seminatori si sono trovati in mano germogli quasi appassiti46.

visione prettamente patrimoniale – proprietaria per approdare ad una prospettiva personale – collettivistica» con la conseguenza per cui «un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale […] detto bene è da ritenersi, al di fuori dall’ormai datata prospettiva del dominium romanistico e della proprietà codicistica, “comune” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini»; tuttavia, la pur importante pronuncia della Cassazione, è stata sconfessata dalla recentissima Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 23 settembre 2014 - Ricorsi n. 46154/11 - Valle Pierimpiè società agricola s.p.a. c. Italia. Per un commento alla sentenza della Corte di Cassazione: E. Pellecchia, Valori

costituzionali e nuova tassonomia dei beni: dal bene pubblico al bene comune, «Il Foro Italiano», I, 573,

febbraio 2012.

44 V. Cerulli Irelli, L. De Luca, Beni comuni e diritti collettivi, cit., p. 3.

45 «A fronte di uno scenario così articolato e incerto, non stupisce che le argomentazioni di ordine

giuridico siano caratterizzate da una certa coerenza nella fase destruens del ragionamento (ossia nella critica dei modelli tradizionali), mentre non lo siano nella fase costruens nella quale invece la definizione stessa di “bene comune” diventa, a volte, inafferrabile»: Ivi, p. 5.

46 In tutta evidenza, va notato che il quadro politico attuale non sembra particolarmente interessato al

tema dei beni comuni; tuttavia, dopo il favorevole esito referendario del 2011, da parte di alcuni sostenitori dei quesiti, un approccio più cauto e “riformista” avrebbe, forse, portato qualche risultato. Al contrario, vi fu una vera e propria “esplosione” del tema, da molti interpretato esclusivamente in un’ottica di lotta politica anti-sistema, che ha prodotto principalmente una gran confusione con un conseguente

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Orbene, è evidente che non si possa nemmeno pensare di raggiungere un simile risultato senza indicare, almeno in termini generali, una definizione di “beni comuni”, pertanto si sono trovate interessanti allo scopo quelle proposte che definiscono i beni comuni come beni necessari per il soddisfacimento dei diritti fondamentali della persona, da intendersi come bisogni essenziali alla vita47; tale nozione di partenza, pur nella sua vaghezza, evita una pericolosa deriva:

Se si fa astrazione dai soggetti e dai bisogni ai quali i beni comuni sono collegati, si imbocca una strada pericolosamente vicina a quella che ha portato alla costruzione della natura come ‘soggetto morale’, con i conseguenti interrogativi intorno a chi sia legittimato a parlare in suo nome e alle tentazioni autoritarie di chi ritiene la sua tutela sottratta a qualsiasi procedura democratica48.

In quest’ottica, come accennato, è parso opportuno un lavoro che inserisse la questione dei beni comuni in un ambito giuridico e, in particolare, a stretto contatto con le categorie giuridiche vigenti. Difatti, proporre una teoria giuridica dei beni comuni significa confrontarsi con le categorie giuridiche attuali: a partire dalla locuzione “beni comuni” è necessario verificare se questa può trovare adeguato accoglimento nelle tradizionali classificazioni di “cose”, “beni pubblici/privati”, “proprietà pubblica/privata”. Dunque, nella prima parte della presente ricerca, si cercherà di analizzare i fondamentali concetti giuridici di “cose”, “beni” e “proprietà” al fine di valutarli nell’ottica di un inserimento, nel diritto positivo, dei “beni comuni”; tuttavia, in questa operazione è evidente un rischio: come valutare la possibilità di inserimento dei

indebolimento della portata teorica dei beni comuni. È auspicabile che, persa la partita politica-rivoluzionaria, il tema dei beni comuni possa ritrovare solidità teorica in un attento studio giuridico lontano dai riflettori e dalle mire ed ambizioni di chi lo ha portato in strategie inconcludenti; com’è ovvio, solo il tempo potrà confermare, o smentire, la bontà delle precedenti affermazioni.

47 È l’esito della proposta di riforma dei beni pubblici elaborata dalla Commissione Rodotà: «qui la

categoria dei beni comuni è disegnata a prescindere dall’appartenenza, cioè dalla titolarità della proprietà sul bene, che può essere pubblica o privata. Il bene comune è piuttosto individuato in quanto necessario alla realizzazione dei diritti fondamentali degli individui. […] Si tratta di un modello non solo praticabile, almeno in teoria, nel sistema attuale, ma anche idoneo ad essere accolto in modo favorevole poiché si avvale della retorica forte dei diritti fondamentali» in M.R. Marella, Introduzione, in M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona, 2012, p. 25.

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beni comuni nell’ordinamento attuale prima di avere una definitiva definizione teorico-giuridica di bene comune? Orbene, da parte di chi scrive, è già stata evidenziata la parziale indeterminatezza del concetto di bene comune, tuttavia si ritiene che proprio una preliminare analisi teorico-giuridica dei concetti fondamentali (cose, beni, proprietà) possa contribuire ad una migliore messa a fuoco del concetto giuridico di “bene comune” che sia compatibile con l’attuale ordinamento. Detto diversamente, prima di discutere cosa si intenda per “bene comune” è parso necessario analizzare il significato giuridico dei concetti fondamentali di cosa, bene e proprietà, che sono sì presupposti ma non scontati. Difatti, senza aver chiarito tali presupposti, definire i beni comuni è assai arduo e forse anche inconcludente. Insomma, c’è una circolarità tra i concetti di “bene comune”, “cose”, “beni” e “proprietà”, poiché tra loro implicati ed inter-dipendenti: in virtù di tale considerazione, è parso più rigoroso analizzare preliminarmente i concetti fondamentali e da questi muovere per ri-costruire un concetto giuridico di bene comune compatibile con i presupposti dati. Questa operazione, o almeno quella in queste pagine descritta, si svolge quasi interamente nell’ambio teorico-giuridico ma ove è parso fecondo, o anche solo suggestivo, si cercato di ampliare l’orizzonte volgendo lo sguardo sia verso la storia del diritto sia, più esplicitamente, verso la filosofia del diritto, con ciò senza pretendere di fare né una storia giuridica, né una filosofia del diritto, dei beni comuni.

Allora, assai sinteticamente, quel che qui si presenta consiste in una ricerca trasversale in più ambiti del diritto, vòlta ad analizzare alcuni concetti giuridici fondamentali onde usarli per determinare la “possibilità” dei beni comuni nel nostro ordinamento: di sicuro si tratta di un’operazione dall’esito incerto e forse incompleto eppure, lo si sostiene con convinzione, quanto mai necessaria proprio per dare peso e solidità ad una nozione, quella di “bene comune”, ancora bloccata nella dimensione del “possibile”, con l’auspicio, chissà, di aiutarla ad inserirsi nella dimensione del “reale”.

Per una migliore conoscenza della questione è opportuno iniziare inquadrandola nel contesto economico e politico italiano che ha portato al referendum del giugno 2011.

Sono a tutti noti i processi di privatizzazione che si sono attuati in Italia dagli anni novanta49; questi processi, almeno nelle intenzioni, sono stati posti in essere al fine di

49 Basti pensare al D.L. 333/92 con il quale si avvia la trasformazione in società per azioni di IRI,

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aumentare la concorrenza sui mercati in una complessiva ottica di riduzione della spesa pubblica. Così, negli anni più recenti, si è delineato un quadro che ha visto l’espansione dell’impresa privata, sostenuta dalle logiche neoliberiste e mercatiste imperanti, e una corrispondente riduzione della dimensione dei servizi pubblici con conseguente sfiducia e insoddisfazione verso la governance pubblica-statale.

In questo contesto politico-economico, qui sommariamente tratteggiato, è emersa la vicenda della campagna referendaria contro la “privatizzazione” dell’acqua50, conclusasi con la vittoria dei sostenitori dei quesiti nel giugno 201151. Non è interesse centrale di questo lavoro ripercorrere le tappe della campagna referendaria, tuttavia in quella mobilitazione si è attivato un dibattito – popolare ma anche giuridico – che ha fatto del “bene acqua” il simbolo dei beni comuni: infatti, l’acqua è immediatamente percepita come risorsa naturale di prima necessità per tutta la popolazione ma, allo

è stato trasformato in s.p.a. con delibera CIPE del 12 agosto 1992; Poste Italiane è divenuta s.p.a. il 18 dicembre 1997; l’ANAS con D.L. 138/2002, da A. Ferrari Zumbini, La trasformazione del regime

domenicale sugli immobili pubblici, in U. Mattei, E. Reviglio, S. Rodotà, I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, cit., p. 252. Sul tema si veda: E. Bani, C.

Carcelli, M.B. Pieraccini, Privatizzare: I modi e le ragioni, Cedam, Padova, 1999, nonché E. Barrucci, F. Pierobon, Le privatizzazioni in Italia, Carrocci, Roma, 2007; maggiormente incentrato sulle privatizzazioni nell’ambito del patrimonio culturale: S. Settis, Italia S.p.A.: L’assalto al patrimonio

culturale, Einaudi, Torino, 2007.

50 Lo slogan della campagna era “acqua bene comune” ma l’obiettivo del referendum era quello di

modificare il possibile assetto del servizio idrico integrato, ossia la gestione della distribuzione dell’acqua potabile negli edifici; più nel dettaglio, il primo quesito referendario prevedeva l’abrogazione della norma che consentiva di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica a soggetti scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica, consentendo la gestione in house solo ove ricorressero situazioni del tutto eccezionali, tali da non permettere un efficace ed utile ricorso al mercato. Il secondo quesito prevedeva l’abrogazione parziale della norma che stabiliva la determinazione della tariffa per l’erogazione del servizio idrico dell’acqua, nella parte in cui stabiliva che l’importo complessivo avrebbe dovuto includere anche la remunerazione del capitale investito dal gestore. Quindi, in realtà, il referendum non aveva l’obiettivo di cambiare lo statuto proprietario del bene acqua, né di obbligare lo Stato a gestire il servizio idrico; più semplicemente, l’esito referendario ha scongiurato una probabile privatizzazione del servizio idrico. Il percorso giuridico e politico che ha portato all’affermazione dei quesiti referendari è tratteggiato da uno degli autori dei quesiti stessi: A. Lucarelli, Beni Comuni, cit.

51 Il 12 e 13 giugno 2011, oltre 27 milioni di cittadini italiani si sono recati alle urne e di questi circa il

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stesso tempo, la sua diffusione è collegata a determinate comunità locali ove si trovano le sorgenti o le falde. Ciò indica, già in prima approssimazione, una caratteristica centrale dei beni comuni: si tratta di risorse necessarie per la vita e pertanto l’accesso in funzione dell’uso dovrebbe essere garantito a tutti; tuttavia, proprio un accesso aperto e di conseguenza un uso intenso della risorsa potrebbe portare la risorsa stessa ad esaurimento o ad un degrado qualitativo tale da renderla non più idonea al soddisfacimento delle necessità vitali. Insomma, proprio la necessità di garantire a tutti l’accesso ad una risorsa così importante potrebbe comportarne la scomparsa52.

Questi aspetti conducono chiaramente ad alcune riflessioni preliminari: se l’acqua è una risorsa indispensabile per tutta l’umanità, ne consegue che la possibilità di accedervi dovrebbe essere a tutti garantita e pertanto a nessuno dovrebbe esserne preclusa la fruizione; tuttavia, sia l’esauribilità (per inquinamento o per consumo eccessivo) sia la concentrazione in alcuni luoghi espone il bene acqua a processi di appropriazione e sfruttamento con messa a profitto e conseguente esclusione dei soggetti più poveri. Ed è immediatamente evidente quanto profitto possa produrre la vendita di un bene esauribile ed indispensabile per la sopravvivenza dell’umanità intera53.

52 Se un bene è utile, dunque richiesto da molte persone, ma lasciato in accesso libero, tale bene sarà

saccheggiato e conseguentemente esaurito in breve tempo; considerazioni analoghe valgono anche per i beni comuni: come bilanciare la garanzia per tutti all’accesso ed all’uso del bene con il rischio di un suo esaurimento? Tale quesito porta con sé il problema della gestione dei beni comuni, problema che non si può omettere e di sicura difficile soluzione. In proposito, è ipotizzabile un intervento puntuale del diritto che sappia soppesare i diritti ed i doveri dei diversi attori, con la necessità della conservazione del bene anche nell’interesse delle generazioni future. La scomparsa delle risorse comuni in seguito all’uso eccessivo è considerata un fatto inevitabile per chi accoglie gli esiti della cd. Tragedia dei beni comuni. Tale espressione deriva dal saggio di G. Hardin, The Tragedy of the Commons, in Science, vol. 162, n. 3859, 1968, pp. 1243–1248, dove l’autore sostiene, in sintesi, che il futuro aumento della popolazione metterà a rischio le risorse terrestri in ragione di un consumo eccessivo delle stesse; di conseguenza, tale pericolo può essere evitato solamente agendo sul controllo dell’incremento della popolazione e limitando l’uso delle risorse. Della Tragedia dei beni comuni si dirà con maggior ampiezza oltre.

53 Detto in modo esplicito: un bene scarso, ossia disponibile in quantità limitata, ma con una forte

domanda, bene primario, in quanto indispensabile all’esistenza (ad esempio, l’acqua potabile in alcune regioni del pianeta), qualora immesso sul libero mercato è ipotizzabile che raggiunga prezzi assai elevati.

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Ecco che, già fin d’ora, appaiono diverse criticità: un bene così importante, fondamentale s’è detto, può essere sfruttato al fine di generare profitto? Ed ancor prima: è accettabile che qualcuno si appropri di beni che sono necessari a tutti? Come dovrebbero essere gestiti beni che hanno tali caratteristiche? Questi interrogativi sembrano condurre ad un’ulteriore e più generale domanda: come governare i beni comuni54?

Posti nella loro semplice radicalità i quesiti di poc’anzi non sono certamente privi di risposte; ma, più in generale, si deve notare che le risposte, qualunque esse siano, sono risposte “giuridiche”. Infatti, è evidente che, sia nell’individuazione sia nella regolamentazione dei beni comuni, il diritto riveste un ruolo centrale: esiste un diritto soggettivo tale per cui una persona può impossessarsi di una risorsa naturale indispensabile, usarla a proprio piacimento esclusivo ed infine esaurirla? Diversamente, esiste un diritto di tutti a godere di un bene ancorché questo bene sia in proprietà di un singolo? E se tale ultima domanda trova risposta affermativa, quali doveri, quali obblighi in capo al singolo proprietario del bene? Potrà esso ancora dirsi proprietario?

Come si nota, alle prime domande se ne sono aggiunte altre ed il “giuridico” risulta ancora più da vicino implicato. Insomma, non sfugge che qualsiasi questione intorno ai beni comuni è anche una questione giuridica e, dunque, la risposta non potrà che essere giuridica.

Tuttavia, quelli di poc’anzi non sono gli unici quesiti che si pongono quando si affronta il tema dei beni comuni. Infatti, la prima difficoltà sta nel concetto stesso di bene comune, ossia nella sua definizione: in sintesi, cos’è un bene comune?

Allora, ancorché in modo sommario, è necessario comprendere cosa sia un “bene” e cosa si voglia dire aggettivandolo come “comune”. Per questo motivo risulta opportuna un’analisi della nozione giuridica di bene; solo dopo aver fatto chiarezza su questo

54 Questa domanda è il titolo del fondamentale lavoro di E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio,

Venezia, 2006. Il titolo originale è, infatti, Governing the commons, Cambridge University Press, 1990, e costituisce un classico della letteratura sui beni comuni affrontando, in particolare, la questione della gestione dei commons e di un loro possibile uso che sia organizzato evitando lo sfruttamento eccessivo delle risorse e gli elevati costi di gestione. L’Autrice, attraverso una puntuale analisi di numerosi casi, propone soluzioni alternative sia alle privatizzazioni sia alle gestioni pubbliche suggerendo forme di autogoverno basate su pratiche consolidate nel tempo e sulla completa comunicazione tra tutti gli amministratori del commons.

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