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della Costituzione e lancerebbe così un importante segnale in controtendenza: il riferimento obbligato va qui al disinvolto

Quello che le norme non dicono Le ambiguità del Decreto

80 della Costituzione e lancerebbe così un importante segnale in controtendenza: il riferimento obbligato va qui al disinvolto

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approccio «alle prerogative parlamentari nella conclusione di accordi internazionali finalizzati alla gestione dei flussi migra- tori», al momento imperante (ed ampiamente criticato, per più ragioni, anche su queste stesse pagine: v. Spagnolo, cui si rin- via anche per un commento alla sentenza del Tar che obbliga a rendere pubblico il testo di accordi internazionali che non siano espressamente coperti da segreto di Stato, sia quando questi siano conclusi in forma semplificata, sia quando questi siano applicati in pendenza dell’iter di autorizzazione alla ratifi- ca). Il che consentirebbe importanti spazi di recupero della sempre più compromessa autonomia valutativa delle Camere (per ulteriori approfondimenti v. Olivito. Per la tesi secondo la quale la possibilità per l’esecutivo di ricorrere alla procedura in forma semplificata in ambiti apparentemente ricadenti sotto il cono d’ombra dell’art. 80 sarebbe ormai consentita da una con- suetudine modificativa dell’art. 80 della Costituzione, v. Pa- lombino).

Un problema simile si può porre, forse in maniera ancor più evidente, in relazione all’altro articolo che si intende commen- tare, contenuto nel capo II del Decreto, dal titolo «Disposizioni urgenti per il potenziamento dell’efficacia dell’azione ammini- strativa a supporto delle politiche di sicurezza».

Ci riferiamo all’art. 12, intitolato «Fondo di premialità per le

politiche di rimpatrio», in favore del quale si prevede

l’assegnazione iniziale di 2 milioni di euro che sono stati sottrat- ti ai fondi accantonati dal Ministero degli Esteri e, presumibil- mente, destinati in origine alla cooperazione internazionale. La provvista, come si apprende dallo stesso art. 12, finanzierà «in- terventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio genera-

le o settoriale ovvero intese bilaterali, comunque denominate,

con finalità premiali per la particolare collaborazione nel set-

torio nazionale e provenienti da Stati non appartenenti

all’Unione europea» (così il comma 1). Secondo il comma 2, dal prossimo anno il fondo potrà beneficiare di risorse più co- spicue, fino a 50 milioni di euro l’anno.

Al di là del fatto che sono cifre che in ragione del tasso di cam- bio e del tenore di vita dei sending States dei migranti possono considerarsi cospicue, al momento in cui si scrive (e ancor più da quello in cui il decreto è entrato in vigore) non è da esclu- dersi una “sanguinosa” procedura di infrazione per sforamento del debito (v. il testo della Raccomandazione “COM(2019) 512 final” del Consiglio inviata all’Italia il 5 giugno scorso).

Si può sostenere, pertanto, che le asserite ragioni di necessità e di urgenza, analogamente a quanto rilevato poc’anzi, avrebbero meritato miglior causa. Anche perché, come ricordato in un re- cente studio sul tema, il decreto-legge è uno strumento che consente valutazioni sull’esistenza dei requisiti di necessità ed urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione solo «quando le norme emanate hanno già prodotto effetti giuridici rilevanti e non sempre riparabili in sede di conversione» (v. lo studio di Nevola).

Peraltro, la circostanza che la norma sopra citata sia stata for- mulata, ancora una volta, in termini assai vaghi e non privi di ambiguità non consente di enucleare con precisione i beneficia- ri materiali della prevista elargizione, nonché i criteri ad essa sottesi. Ad esempio, si intende privilegiare i Governi degli Stati di invio dei migranti o i migranti stessi i quali siano disponibili ad accettare procedure (sovvenzionate) di rimpatrio volontario assistito? Non è facile rispondere a questa domanda.

Prendiamo anzitutto in considerazione la prima e più probabile ipotesi, che trova la sua originaria disciplina nella legge 11 ago-

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sto 2014, n. 125, art. 7 comma 2 sulla cooperazione allo svilup- po. In questo caso le risorse possono confluire direttamente nel bilancio dello Stato beneficiario. Si tratta di una misura eviden- temente volta ad ovviare allo spinoso problema costituito dalle difficoltà e resistenze con le quali molti Paesi terzi oggi ammet- tono il ritorno dei propri cittadini. Se è vero che l’istituto della

riammissione nel diritto internazionale riposa oggi su impor- tanti basi convenzionali offerte dai Protocolli addizionali alla

menzionata Convenzione di Palermo (v. l’art. 18 del Protocollo sullo smuggling e l’art. 8 di quello sulla tratta), nonché in alcuni importanti Accordi di cooperazione stipulati dall’Unione (v. ad es. l’art. 13, par. 5 dell’Accordo di Cotonou tra Unione europea e paesi c.d. “ACP”). Mentre per quanto concerne i rapporti con Stati non firmatari delle suddette Convenzioni, è possibile, a nostro avviso, revocare in dubbio la rispondenza di tutte le possibili applicazioni dell’istituto al diritto internazionale gene- rale (v. ad. es. un’interessante analisi della prassi, anche se un po’ risalente).

Nondimeno, anche nei riguardi di Stati parti di accordi perti- nenti, compresi i numerosissimi bilaterali stipulati dall’Italia, che ripetono la clausola standard in cui si chie- de l’adempimento del primo e principale obbligo convenziona-

le, relativo alla collaborazione “senza indugio” nella identifi- cazione e rilascio di un titolo di viaggio valido per il rimpa- trio del proprio cittadino, nella prassi amministrativa interna-

zionale ottenerne l’esecuzione è spesso un risultato assai com-

plicato. Tant’è che, in alcuni casi, qualche Stato europeo ha

cercato di aggirare questi ostacoli attraverso procedure “unila- terali” di rinvio che hanno subito suscitato le vibranti proteste da parte degli Stati di riammissione.

Alla radice di quest’atteggiamento non collaborativo – per ef- fetto del quale negli Stati di ricezione si pongono evidenti pro-

blemi di effettività nel portare a termine le operazioni di rimpa- trio, si può individuare un concorso di cause, il cui approfon- dimento – arduo da effettuare in questa sede – rischierebbe, ol- tretutto, di travalicare l’ambito giuridico.

Ma è esattamente in questo contesto che va ad inserirsi la

norma del decreto “sicurezza bis” in commento. Molti Stati,

invero, giustificano la mancata cooperazione nell’esecuzione degli accordi di riammissione adducendo ragioni di carattere

economico. Ancora oggi le rimesse dei migranti, come si è ap-

preso dai dati pubblicati qualche giorno fa, continuano a cre- scere a livello globale, e rappresentano per le popolazioni di questi Stati un cespite fondamentale, peraltro non diversamen- te dai periodi in cui in Italia i Governi incoraggiavano, per i medesimi motivi, le emigrazioni all’estero (con tanto di articolo in Costituzione, il 35, che – guarda caso – sancisce la libertà di emigrare e la tutela del lavoro all’estero).

Per quanto di interesse ai nostri fini, la menzionata riluttanza si accompagna spesso ad un atteggiamento “contrattualistico” dei sending States che, consapevoli della delicatezza del tema per i Governi occidentali, cercano di alzare il più possibile il prezzo di eventuali collaborazioni (v. sul punto già Cole- man, European Readmission Policy: Third Country Interests and

Refugee Rights, Martinus Nijhoff, Leiden, 2009). D’altro canto,

la prassi dimostra che la materiale applicazione di molti degli “accordi” di contenimento e gestione delle migrazioni che l’Italia ha sottoscritto sta diventando un’attività piuttosto di- spendiosa.

Ad esempio, il Memorandum d’intesa (MoU) con la Li- bia «sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrab- bando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere» del 2

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febbraio 2017 prevede oneri finanziari rilevanti, atteso che, si legge all’art. 1, «la parte italiana fornisce sostegno e finanzia- mento a programmi di crescita nelle regioni colpite dal feno- meno dell’immigrazione illegale, in settori diversi, quali le energie rinnovabili, le infrastrutture, la sanità, i trasporti, lo svi- luppo delle risorse umane, l’insegnamento, la formazione del personale e la ricerca scientifica» nonché «supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina» (per un approfondito commento v. Mancini).

Nondimeno si tratta, come è noto, di atti la cui natura giuridica è assai diversificata, potendo talvolta essere classificati tra gli accordi in forma semplificata, altre volte annoverati come sem- plici accordi di Polizia. Questi ultimi sono direttamente conclu- si dai Ministri competenti sotto forma di memorandum, oppure mera intesa (oltre al già citato contributo di Spagnolo, v. sul punto, che evidentemente non può essere approfondito, Caso- lari).

Qualora, come è assai probabile, ci sia l’intenzione di ripropor- re in altri contesti la formula delle intese concluse con Niger, Libia e Sudan, la garantita premialità economica si pone in di- spregio della circostanza che nella disposizione in parola non vi

è traccia di condizionalità alla necessaria tutela dei diritti umani da parte degli Stati di invio dei migranti.

Ma c’è di più. Tutte le intese più recenti sono orientate, come è stato correttamente osservato (ancora da Spagnolo) «a un me- desimo fine: fornire un quadro giuridico di riferimento alla presenza di personale militare italiano sul territorio dei due paesi, finalizzata allo svolgimento di attività di assistenza e sup- porto anche nella gestione dei flussi migratori». Anche in que- sto caso non si prevede alcuna garanzia specifica circa

l’assunzione da parte degli operatori della missione di vincoli al rispetto dei diritti umani nell’esercizio delle attività sul campo. Se si prende in esame l’intesa raggiunta con il Niger abbondano invece i dettagli sull’assetto delle forze impiegate: a regime, si prevede una missione che potrà impegnare «fino a un massimo di 470 militari, 130 mezzi terrestri e 2 mezzi aerei».

L’articolo 4 del disegno di legge di ratifica dell’intesa con il Ni- ger, al momento in cui si scrive, non ha ancora concluso il suo

iter. Il testo contiene «una clausola di invarianza finanziaria,

per la quale dall’attuazione dell’Accordo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». La stessa legge specifica che ad «eventuali maggiori oneri, si farà

fronte con apposito provvedimento legislativo». Insomma,

qualcuno potrebbe sospettare che l’indeterminatezza della di- sposizione contenuta nell’art. 12 sia stata voluta, sì da consenti- re di poterlo piegare, alla bisogna, alle più diverse finalità: così, ragionando in astratto, il tempo dirà se il personale italiano, impegnato in missioni internazionali volte a facilitare la riam- missione dei migranti e previste da strumenti attuati mediante clausola di invarianza finanziaria, potrà alla bisogna essere re- putato “particolarmente collaborativo” e, di conseguenza, me- ritevole di ricevere sostegni al (proprio) bilancio.

Occorre ora prendere in esame anche la seconda opzione pro- spettata. In questo caso, l’interpretazione della norma concerne la possibilità di finanziare il rimpatrio volontario in forma assi- stita dei migranti irregolari. Con l’istituto del rimpatrio assisti-

to si cerca di incentivare il consenso dei soggetti da rimpatriare

prospettando loro piccole somme di denaro e progetti di av- viamento di attività di lavoro. In tale direzione, si continua a monitorare la situazione dei soggetti rimpatriati anche dopo l’avvenuto ritorno nel proprio Stato di origine, ad esempio veri- ficandone l’avvenuto reinserimento lavorativo e sociale nelle

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comunità di provenienza.

Questa forma di rimpatrio ha trovato una prima disciplina nel nostro ordinamento all’art. 14 bis e 14 ter del Decreto Legisla-

tivo 25 luglio 1998, n. 286 (il c.d. Testo unico delle disposizio-

ni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). L’istituto peraltro è in linea con

l’impostazione della Direttiva 2008/115, c.d. “rimpatri”, se- condo la quale la partenza consensuale dovrebbe costituire la modalità ordinaria attraverso la quale portare ad esecuzione i rimpatri: lo si evince dal considerando 10, nonché da una in- terpretazione sistematica degli articoli 7 e 8 della Direttiva. In senso analogo, la Guideline 1 delle Twenty Guidelines of the Commitee of Ministers of the Council of Europe on Forced Re- turn del settembre 2005, citate nel considerando (3) della Di- rettiva 2008/115 e, come la stessa Commissione ha tenuto a chiarire, in via informale, in una sua comunicazione, possono essere considerate come uno strumento privilegiato di interpre- tazione della medesima. Ne deriva che gli allontanamenti forza- ti dei migranti irregolari devono essere considerati un’opzione di carattere residuale, da utilizzare solo laddove tutti i tentativi di procedere consensualmente siano falliti.

Sulle ipotesi di sviluppare best practices di rimpatri consensuali assistiti per i migranti irregolari si sta concentrando da tempo l’attenzione della dottrina (cfr. Hofmann; Rogge e Akol; European Council on Refugees and Exiles (ECRE), The

Return of Asylum Seekers whose Applications have been Re- jected in Europe, PP3/06/2005/EXT/PC, Settembre 2005) e

della stessa Unione europea (v. ad. es. il Fifth Progress Report on the Partnership Framework with third countries under the European Agenda on Migration) che fino al 2013 aveva stanzia- to fondi ad hoc per questo tipo di operazioni (v. il prospetto di sintesi) successivamente sospesi per evitare, in un periodo di

sbarchi massicci, che diventassero un fattore di attrazione. In Italia non sono certamente pratiche diffuse (v. l’inchiesta di De Georgio su Internazionale) e neppure, probabilmente, lo sa- ranno quando il Decreto andrà a regime, posto che si tratta di progetti, allo stato gestiti da varie Organizzazioni come l’Oim, che al momento non hanno riscosso alcun interesse né da parte dei migranti, né dagli stessi Enti che dovrebbero curarne la ge- stione, attraverso la partecipazione a bandi pubblici (come spiegato da Baratta).

Ma il decreto nulla dice, ripetiamo, rispetto alla posizione dei rimpatriandi, la quale, dovrebbe forse essere disciplinata nell’ambito delle «intese bilaterali con finalità premiali» di cui al comma 1. Restano quindi le preoccupazioni, almeno fino ad ora, in ordine all’attuale situazione, inasprita anche da provve- dimenti degli ultimi mesi, dei richiedenti la protezione interna- zionale la cui istanza sia stata rigettata e che devono rientrare nel loro Paese: «In the public debate surrounding return its complexity is often ignored» (ECRE, op. cit.).

Tutto ciò precisato è lecito chiedersi, anche in questo caso, do- ve siano state reperite le risorse necessarie al funzionamento del Fondo in commento, soprattutto a partire dal prossimo anno. Operando una – non semplice – ricerca nelle pieghe della Leg- ge 30 dicembre 2018, che contiene il bilancio di previsione del- lo Stato, si apprende che le risorse principali saranno garantite dai fondi resi disponibili dalla contestuale diminuzione degli investimenti destinati alla «gestione dei centri per l’immigrazione, in conseguenza della contrazione del fenomeno migratorio» nonché dagli «interventi per la riduzione del costo giornaliero per l’accoglienza dei migranti». Peraltro, facendo due conti si può stimare il “risparmio” complessivo dalla ridu- zione degli investimenti per queste due voci in un miliardo e

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di premessa, pertanto, l’applicazione di questa norma del de- creto comporta un cospicuo spostamento di fondi, dirottati

dalle politiche di integrazione dei migranti a quella del rimpa- trio. Il che, detto in termini forse un po’ brutali, corrisponde

all’applicazione pratica di un ormai noto slogan – “aiutiamoli a casa loro” – divenuto anche un manifesto d’intenti (di quel che resta) della cooperazione italiana (v. le interessanti dichiarazio- ni in senso adesivo del viceministro degli Esteri con delega alla cooperazione internazionale).

Quest’ultima riflessione induce a contestualizzare il discorso svolto fin qui e ad inserirlo in un più ampio livello di analisi che a qualcuno potrà forse sembrare ultroneo, ma a chi scrive, sommessamente, sembra incoraggiato dalla circostanza che il ministro che dà il nome ai decreti sulla sicurezza non è solo os- sessionato da (inesistenti) assalti alle coste, ma si concepisce come uno statista. In tale veste ama citare, a modo suo, una fra- se (erroneamente, pare) attribuita a De Gasperi: «Un politico pensa alle prossime elezioni, uno statista pensa alle prossime generazioni». Sulla scorta di questa premessa, dichiara di voler portare «una prospettiva di sviluppo sociale per i prossimi cin- quant’anni» che «guarda all’Europa, e all’Italia che attende le nuove generazioni» (questa singolare “visione”, data la divari- cazione tra il dire e il fare, è espressa in un video girato l’8 di- cembre scorso a piazza del Popolo; la cruda realtà è invece illu- strata da Margiocco).

Mentre il Presidente della Repubblica sottolinea (in una dichia- razione rilasciata in occasione della Giornata mondiale del rifu- giato) come «le difficoltà che affliggono popoli di regioni a

noi anche molto vicine meritano un’attenta riflessione sulle cause di questi drammi e sulle risposte che richiedono», val la

pena di ricordare che le vere e pressanti preoccupazioni di lun- go periodo, di cui in Italia non si parla a sufficienza, ma che

realmente agitano gli studiosi e le istituzioni europee, sono concretizzate dall’aumento delle diseguaglianze economiche e dal crollo demografico che ci attende. Quest’ultimo, secondo le proiezioni, condurrà al progressivo rovesciamento di una pira- mide immaginaria composta da una base che diventa progressi- vamente sempre più ristretta (e quindi vertice rovesciato) di giovani lavoratori, ai quali toccherà occuparsi di una base sem- pre più larga di anziani non lavoratori e bisognosi di assistenza. Per invertire rapidamente la china, i Paesi europei a più basso tasso di natalità (come l’Italia) non hanno che quattro strade

maestre (puntualmente elencate nelle raccomandazioni conte- nute nelle citate raccomandazioni del Consiglio dello scorso 5 giugno): la prima è quella di incrementare il livello e la qualità dell’istruzione e di incentivare massicciamente la ricerca scien- tifica; la seconda è fornire alle donne strumenti di welfare che consentano di abbassare l’età media in cui hanno il primo fi- glio, che è in costante aumento ed incide in maniera dominante sulla natalità complessiva. La terza è quella di avviare provve- dimenti indirizzati ad aumentare l’età pensionabile. La quarta è quella investire nell’integrazione dei migranti lavoratori e/o ti- tolati a ricevere protezione. Il lettore giunto pazientemente fin qui valuti se i provvedimenti in commento e, più in generale, quelli degli ultimi mesi, siano o meno coerenti con le autopro- clamate visioni da statista che guarda, per decreto, all’interesse delle nuove generazioni.

Lisistrata a Lampedusa: una