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“Imperatività” della norma di conflitto UE e principio

dispositivo nel processo civile

italiano

OMAR VANIN (*)

Le norme sui conflitti di leggi adottate dall’UE sulla base dell’art. 81, par. 2, lett. c, Tratt. FUE mirano fondamentalmen- te a far sì che un rapporto giuridico sia disciplinato dalla mede- sima legge quale che sia lo Stato membro dal cui punto di vista esso viene osservato. Tale obiettivo rischia di non essere soddi- sfatto allorché le norme in questione ricevano negli Stati mem- bri un’applicazione non uniforme. Accresce questo rischio il fatto che le norme di conflitto, quando sono evocate nel quadro di un processo, possono subire l’influenza delle regole proces- suali del foro: regole di fonte interna, che variano talora in mo- do molto marcato da uno Stato membro a un altro.

L’influenza ora segnalata può esprimersi diversamente, a seconda delle questioni considerate e del sistema processuale che viene preso a riferimento. Centrale, al riguardo, è la que- stione consistente nello stabilire se le norme di conflitto, una volta rilevato un elemento di internazionalità nella fattispecie, trovino applicazione d’ufficio nel giudizio, o piuttosto presup- pongano l’iniziativa di una delle parti. Questione, questa, da

non confondere con quella della inderogabilità delle medesime norme. Un conto, infatti, è stabilire come entri nel dibattito processuale la questione della legge applicabile, un altro è sta- bilire se i criteri che presiedono alla soluzione di tale questione siano rigidamente stabiliti dalla legge o se possano essere pla- smati in qualche misura dalla volontà negoziale delle parti. Nell’ordinamento italiano, la natura imperativa delle norme di conflitto dell’ordinamento italiano non è mai stata veramente oggetto di contesa fra gli studiosi (cfr. Boschiero, Norme di di-

ritto internazionale privato “facoltative”?, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1993, p. 573), mentre altri ordinamenti seguono tradizio-

nalmente l’approccio opposto, o riconoscono alle norme di conflitto un’imperatività in vario modo attenuata (per una vi- sione di insieme delle esperienze di altri ordinamenti nazionali sul tema, cfr. de Boer).

È stato osservato che, per quanto il diritto dell’Unione garantisca in linea generale l’autonomia degli Stati membri nel campo del processo, non tutte le soluzioni accolte nei sistemi processuali nazionali sono egualmente capaci di garantire l’effetto utile delle norme regionali. Si è detto, in questo senso, che le norme di conflitto dell’UE devono ritenersi senz’altro imperative: intendendole in questo modo, si evita che le parti, qualora inerti in giudizio sulla questione della legge applicabile, pregiudichino in concreto l’uniformità di soluzioni che quelle norme intendono invece propiziare (Franzina, L’applicazione

genuina del diritto straniero richiamato dalle norme di conflitto dell’Unione europea, in Triggiani, Cherubini et al., p. 1115).

Questo scritto si propone di esaminare il rischio che, nel contesto del processo civile, il principio dispositivo e quello della domanda impediscano al giudice di garantire l’applicazione della norma di conflitto dell’UE. Di qui, si indi- vidueranno gli istituti del diritto processuale civile italiano che

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possano prevenire il rischio descritto, nelle ipotesi in cui le par- ti non abbiano invocato la sua applicazione o, sebbene invoca- ta, non abbiano dato prova del criterio di collegamento che in- nesca l’applicazione della stessa. In ultimo, si darà conto delle posizioni assunte su questi temi nella giurisprudenza della Cor- te di cassazione.

Prima di procedere, si deve dare atto che talune disposizioni contenute nei regolamenti dell’Unione inerenti al diritto appli- cabile sembrerebbero allontanarsi dal paradigma della impera- tività. Così, ad esempio, gli artt. 26 dei regolamenti “gemelli” (UE) 2016, nn. 1103 e 1104, relativi ai regimi patrimoniali tra coniugi e tra partner di unioni registrate, dispongono che «[i]n via di eccezione e su richiesta di uno dei coniugi, l’autorità giu- risdizionale […] può decidere che la legge di uno Stato diverso da quello la cui legge è applicabile […] disciplini il regime pa- trimoniale». Del pari, l’art. 7 del regolamento (CE) n. 864/2007 (c.d. Roma II), in tema di legge applicabile all’illecito civile de- rivante da un danno ambientale, permette al danneggiato di in- vocare l’applicazione della legge del paese in cui si è verificato l’evento nocivo, in deroga al criterio di collegamento generale di cui all’art. 4, par. 1, del medesimo regolamento. Le norme di conflitto ora richiamate, in effetti, subordinano l’applicazione della legge straniera all’esplicita sollecitazione della parte inte- ressata. Si tratta, tuttavia, di deroghe eccezionali che non esprimono un canone generale, laddove invece, in genere, il le- gislatore europeo elabora la norma di conflitto con locuzioni che ne esaltano il carattere prescrittivo. In difetto di diversa in- dicazione del legislatore, dunque, le norme di conflitto dell’Unione vanno intese come immediatamente precettive e la loro applicazione non può, di regola, essere rimessa all’iniziativa processuale delle parti.

applicabili d’ufficio sembra non porre problemi di sorta per quegli ordinamenti – come quello italiano, e altri ascrivibili al modello di civil law – che si informano al principio iura novit

curia. Un esame più attento, tuttavia, rivela che talune questioni

di carattere processuale incidono sulla problematica anche per tali ordinamenti, rischiando o di comprimere i poteri del giudi- ce finalizzati ad assicurare l’applicazione officiosa delle norme, o di estenderli eccessivamente.

Il problema si verifica quando il giudice introduce nel dibattito processuale una questione non sollevata dalle parti, come quella della potenziale applicabilità del diritto straniero. La natura imperativa della norma di conflitto, invero, si scontra in questo scenario con due cardini del processo civile italiano: il principio della domanda e quello del contraddittorio, con i ri- spettivi ancoraggi negli art. 24 e 111, comma 2°, Cost. In osse- quio a tali principi, il giudice, ravvisando la potenziale rilevanza di una norma di conflitto non invocata dalle parti, dovrà quindi ricorrere a quel particolare meccanismo di ripristino del con- traddittorio sancito all’art. 101, comma 2°, c.p.c. Il giudice de- ve cioè invitare le parti a esprimere le rispettive posizioni ove ritenga di porre a fondamento della decisione una questione ri- levabile d’ufficio, sotto pena di nullità della decisione (cfr. Fer- raris, Principio del contraddittorio e divieto di decisioni «a sor-

presa»: questioni di fatto e questioni di diritto, in Riv. dir. proc.,

2016, p. 1182 ss.). L’istituto è noto anche ad altri ordinamenti processuali, quale quello francese, ove l’art. 16 del Code de pro-

cédure civile dispone che il giudice «ne peut fonder sa décision

sur les moyens de droit qu’il a relevés d’office sans avoir au préalable invité les parties à présenter leurs observations» (su tale previsione normativa v. Couchez, Principe de la contradic-

tion, in Juris classeur de procédure civile, 1998, p. 12 ss.; per

una comparazione con altri ordinamenti, v. H. Foyer De Costil et al).

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L’intervento officioso deve comunque essere il più pos- sibile contenuto, consistendo nella semplice rappresentazione alle parti della potenziale rilevanza della norma di conflitto. Se- gnalata la circostanza, il principio dispositivo tornerà ad espan- dersi, cosicché spetterà alle parti allegare e provare i fatti costi- tutivi, impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa dedotta in giudizio, come valorizzati dal diritto richiamato dalla norma di conflitto.

Il tema dell’onere probatorio rileva anche con riguardo al secondo profilo dell’indagine qui proposta, relativo alla ri- cerca degli elementi di prova concernenti i fatti che innescano la norma di conflitto (i criteri di collegamento). Si tratta, in so- stanza, di comprendere se il giudice sia tenuto o meno a ricer- care d’ufficio tali elementi. La questione, come si vedrà, è par- ticolarmente delicata nell’ipotesi in cui i fatti in questione siano rilevanti anche ai fini delle decisione relativa al merito. Si con- sideri, ad esempio, l’accertamento del locus commissi delicti ai fini della individuazione della legge applicabile a una obbliga- zione extracontrattuale secondo l’art. 4, par. 1, del regolamento (CE) n. 864/2007. Le prove che localizzano l’evento lesivo, in questa situazione, sono con molta probabilità le stesse atte a dimostrare che l’evento si è verificato, e con quali modalità, provando così un fatto costitutivo della pretesa dedotta in giu- dizio.

Le questioni ora emerse richiedono un’analisi per gradi. In generale, il principio iura novit curia, di per sé, non impone al giudice di provare d’ufficio i fatti che fondano l’applicazione di una qualunque norma che pure rivesta, nel senso indicato, una natura imperativa. Può infatti bastare che il giudice appli- chi la norma una volta che le parti ne hanno rappresentato tutti i presupposti fattuali. Tale assunto, tuttavia, non è immediata-