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La costruzione dell’evento aurale. Significati e temporalità nelle audiocronache

Le scene dal vero e la fonografia come mezzo di diffusione

2. La costruzione dell’evento aurale. Significati e temporalità nelle audiocronache

Per i pochi dischi di quelli elencati sopra che ci è stato dato ascoltare, l’esperienza straniante che viene da un confronto con la loro “l’apparente incomunicabilità” pone alcune questioni urgenti: cosa rappresentano, queste attualità ricostruite su disco? Cosa significavano e cosa potevano comunicare a chi le ascoltava?

Dal momento che la sua teoria dei media come soggetti storici e “socially realized structures of communications”381 ha già avuto un ruolo sostanziale nella definizione dei nostri strumenti analitici, vale la pena riportare qui un passaggio da un testo di Lisa Gitelman già citato in precedenza:

But media are also historical because they are functionally integral to a sense of pastness. Not only do people regularly learn about the past by means of media representations - books, films, and so on - using media also involves implicit encounters with the past that produced the representations in question. These implicit encounters with the past take many forms. A photograph, for instance, offers a two-dimensional, visual representation of its subject, but it also stands uniquely as evidence, an index, because that photograph was caused in the moment of the past that it represents. Other encounters with the past can be less clear, less causal, and less indexical, as when the viewers of a television newscast are ‘taken live’ to the outside of a building where something happened a little while ago.382

I casi dei “dal vero” discografici appartengono decisamente alla seconda categoria. Da ricostruzioni di attualità essi forniscono una rappresentazione di un passato che a quel passato appartiene, ma non possono esserne considerati una traccia: nei termini usati da Gitelman l’incontro implicito con il passato che li ha prodotti compromette

381 Lisa Gitelman, Always Already New, op. cit., p. 7. 382 Ivi, p. 5.

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inevitabilmente l’attendibilità di quello esplicito con il passato che vorrebbero rappresentare, per una mancata coincidenza di luoghi e di tempi.

Su questa si sono concentrati e divisi i pochi studiosi che si sono dedicati alle scene dal vero: mentre Anita Pesce riconduce il carattere da produzioni in “studio” delle ricostruzioni discografiche a una scelta obbligata, dal momento che, sostiene, “era impossibile registrare in presa diretta le situazioni proposte”,383 Massimiliano Lopez fa notare come queste difficoltà tecniche “sarebbero però contraddette con quanto avveniva, proprio negli stessi anni, sempre nel settore della riproduzione del suono e nel vicino settore dell’immagine in movimento”, portando ad esempio l’esperienza coeva degli etnografi di musica naturale e il caso de i già citati ‘film dal vero’ sottolineando l’”attenzione al ‘vero’ e la voglia di documentare”384 che li accomuna.

Pur avanzando ipotesi opposte entrambe le posizioni partono, a nostro avviso, da un assunto implicito che concerne le aspettative nei confronti del medium fonografico e la funzione comunicativa che gli riconosciamo, quella di “riprodurre” qualcosa, di “rappresentare” cioè unicamente ciò che registra. La mancata coincidenza di tempi e di luoghi fra la rappresentazione e l’evento rappresentato, l’assenza di una traccia che faccia della prima una qualche forma di documentazione del secondo mette in discussione la ”indexical ideology”385 attraverso la quale siamo soliti guardare alle registrazioni sonore che abbiamo problematizzato nell’introduzione. Nel cercare di capire perché in questo caso la fonografia non abbia assolto a quella che crediamo essere la sua prima funzione mediale, siamo tentati di addurre giustificazioni (“perché non era tecnicamente possibile”) o insinuare il dubbio che si trattasse di “falsi storici”. Portate alle loro estreme conseguenze, entrambe le ipotesi finirebbero per farci postulare alternativamente un’ingenuità da parte di chi approcciava il medium (l’idea che lo usasse in maniera “sbagliata”) o una sua deliberata malizia: la “veridicità” di cui queste scene si autoproclamavano portatrici è, infatti, tanto improbabile alle nostre orecchie da tentarci di considerarla plausibile solo per un uditorio naif, plagiato dai toni sfacciati della propaganda nazionalista. Tuttavia, in

383 Anita Pesce, La Scena dal vero per disco, op. cit., p. 1

384 Massimiliano Lopez, “L’industria fonografica italiana delle origini nei cataloghi dell’Archivio Icbsa (1900-1917)”, op. cit., p. 21.

385 Thomas Y. Levin, “Sounds out of Nowhere. Rudolph Pfenninger and the Archaeology of Synthetic Sound”, Grey Room, Vol. IV, N. 12, estate 2003, pp. 37-79 (59).

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assenza di documentazioni a suggerirci che il “vero” dei “dal vero” fosse effettivamente scambiato per “verità” dagli ascoltatori dell’epoca, caricarli di questa accusa a posteriori senza nemmeno chiamarne in causa le loro testimonianze sarebbe, da parte nostra, un assunto infondato e fin troppo semplicistico.

Partiamo quindi da un assunto diverso: ipotizziamo che, come suggerisce Sterne a proposito delle Tone Pictures, il compito delle scene dal vero fosse quello di enfatizzare “the possibility for sound reproduction to present realistic and fanciful accounts alike of events over time […] even if audiences were aware of the fabrication of the actual performance on record”.386 Quando non si dà per scontato che produttori o ascoltatori del disco sbagliassero nel loro modo di approcciarsi al medium, le scene dal vero sollevano il dubbio opposto, che sia il nostro modo di intendere la fonografia a essere inadeguato e troppo distante dall’epoca in questione per poter ascoltare questi dischi allora. Rifacendoci ancora all’esempio portato da Gitelman, i notiziari televisivi che trasmettono dal vivo fuori da un palazzo dove è appena successo “qualcosa” non forniscono un’evidenza, una traccia diretta di quel che è successo e proprio per questo aprirebbero nuovi interrogativi a chi dovesse confrontarsi con quel materiale a distanza di tempo: perché, ci si potrebbe domandare, al racconto di una diretta televisiva (o radiofonica) che trasmetta da un certo luogo pur senza darci la possibilità di vedere o sentire direttamente l’evento di cui parla viene attribuito - se non un valore probatorio - almeno un certo grado di attendibilità? Anche in questo caso saremmo di fronte a una mancata coincidenza di tempi tra quello che viene considerato il “momento storico” e la sua rappresentazione: per capire quale relazione li legasse, o la ragione per la quale la seconda potesse essere accettata come credibile, servirà un esercizio di contestualizzazione rispetto alle convenzioni rappresentative e ai rapporti di spazio e di tempo in cui si articola il paesaggio mediale in questione. In assenza di tutto ciò, un ipotetico “frammento” di diretta che sopravvivesse isolato dal proprio contesto di riferimento potrebbe comunicare allo storico di domani molto meno di quel che comunicava agli spettatori suoi contemporanei.

386 Jonathan Sterne, The Audible Past. The Cultural Origins of Sound Reproduction, op. cit., pp. 244-245.

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Così intendiamo operare con le scene dal vero. Se prese singolarmente, e soppesate solo per ciò che registrano, per l’evento di cui conservano una traccia, esse rimanderebbero a un “teatro fonografato” povero di valore artistico e francamente poco interessante. Se interpretati invece come “frammenti” sopravvissuti da quella una rete di comunicazione transnazionale che, come abbiamo visto sopra, viaggiava attraverso il disco accogliendo talvolta anche velleità propagandistiche, esse possono far emergere “dettagli rivelatori” su determinate modalità di rappresentazione del reale - non necessariamente ristretti alla sola discografia - e di un particolare modo di strutturare l’esperienza dell’ascolto mediato. In un certo senso, nostro tentativo di reinterpretare i “dal vero” come audio-giornali corrisponde allo sforzo di interrogarli come rappresentazioni di non-fiction (ossia ciò che come opera di finzione non vuole proporsi) 387 ma senza arrivare pretendere qualità “documentarie” che non possiedono. Nel concreto, si tratta di capire il modo in cui il medium fonografico veniva inteso secondo una funzione comunicativa che non è quella che gli attribuiamo oggi, ma che è invece “functionally integral to a sense of pastness”.388

Per meglio comprendere come le scene dal vero potessero costituire un racconto considerato attendibile e persino realistico per chi le ascoltava, esamineremo prima gli elementi che compongono le loro rappresentazioni attraverso un confronto con alcuni scritti (letterari e giornalistici) dello stesso periodo; in un secondo momento cercheremo di tratteggiare le specificità che la fruizione del disco vantava rispetto alla pagina scritta da un punto di vista, per così dire, “esperienziale”, ponendo attenzione soprattutto alla dimensione temporale. Infine cercheremo di tirare le somme di quanto elaborato tratteggiando i caratteri fondamentali di un fono-realismo che sembra differenziare i “dal vero” rispetto alle incisioni musicali. Nell’economia del nostro lavoro, queste domande vanno a costituire un punto di ingresso interessante e storicamente collocato sulla vexata quaestio che, nell’ambito dei

387 Sila Berruti, Luca Mazzei, “’Il giornale mi lascia freddo’. I film ‘dal vero’ della Libia e il pubblico italiano”, op. cit., p. 6

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Sound Studies, ha a lungo problematizzato le nozioni di “rappresentazione”, “riproduzione” e “realismo” in relazione all’agency delle tecnologie audio.

2.1.1 “Riproduzioni” che rappresentano, rappresentazioni che “riproducono”. Il paradigma della significazione.

Un termine già di per sé denso di implicazioni ideologiche qual è “rappresentazione” diviene ancora più problematico quando riferito ai media del suono. Il solo affermare che essi “rappresentino” qualcosa è il risultato di una conquista relativamente recente, frutto di un’attività di riformulazione teorica che ha preso luogo dapprima nel campo degli studi sul cinema, con l’obiettivo di rigettare quella che Altman ha definito la “fallacia riproduttiva” e a riqualificare anche la registrazione sonora tra le tecnologie della rappresentazione: pertanto, “recordings do not reproduce sound, they represent sound. According to the choice of recording location, microphone type, recording system, post-production manipulation, storage medium, playback arrangement and playback locations, each recording proposes an interpretation of the original sound”.389 In termini simili si sono espressi Alan Williams e Tom Levin390 che con Altman condividono l’obiettivo di smentire il paradigma della riproduzione. Centrali nelle loro argomentazioni sono le potenzialità trasformative dell’apparato tecnologico da un lato e la natura dell’emissione sonora dall’altra, qui considerata nella sua accezione fisica come “audible disturbances of air in the form of wave motion in a particular configuration of space”. 391 Alla luce delle variabili che riguardano gli spazi in cui vengono emessi e il volume delle vibrazioni, non solo il suono edotto da un qualsiasi apparato tecnologico sarà inevitabilmente differente dal cosiddetto suono naturale, ma anche quest’ultimo contemplerà al suo interno una molteplicità di emissioni e occorrenze acustiche. Quel che riconosciamo nominalmente come un unico suono, spesso in stretto riferimento

389 Rick Altman, “Four and a Half Film Fallacies”, in Id. (a cura di), Sound Theory, Sound Practice, op. cit., 35 – 60, p. 40.

390Tom Levin, “The Acoustic Dimension: Notes on Cinema Sound”, op. cit., pp. 55- 68.

391 Alan Williams, “Is Sound Recording like a Language?”, Yale French Studies, N. 60, pp. 51-66 (52).

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alla sua fonte o alla sua causa, corrisponde a tante varianti quanti sono i possibili posizionamenti rispetto ad esso: il cosiddetto suono “naturale” è già di per sé un fenomeno mediato. Da qui la proposta di Altman di ricorrere a termini evenemenziali e di considerare quelli che chiamiamo semplicemente “suoni” come “eventi sonori” composti da una molteplicità di occorrenze e un’eterogeneità materiale, la cui composizione cambia ad ogni livello di mediazione, tecnologica e non.392 Secondo questa linea di pensiero le tecnologie non “riproducono” il suono perché non esiste un “suono in quanto tale”: Altman, Levin e Williams concordano nel definire la mediazione tecnologica nei termini di una rappresentazione parziale e prospettica di un evento sonoro.

A questa linea argomentativa che potremmo definire “tecno-percettiva” si oppone un’altra concezione di rappresentazione, fondata su argomentazioni di carattere pratico-culturale. Nel rivolgere la propria critica agli autori sopracitati, James Lastra individua una tendenza da parte loro a identificare la “rappresentazione” alla stregua di un effetto del solo apparato tecnologico: secondo la rilettura data dallo studioso americano, lo sforzo di de-naturalizzare la nostra percezione del “suono-in-quanto-tale” in virtù della sua intrinseca molteplicità farebbe passare in secondo piano la complessità che governa l’altra nozione in ballo, quella di “tecnologia”. Riferendosi in particolare alla trattazione di Levin, Lastra scrive: “it is significant, and perhaps symptomatic, that he defines ‘technology’ as an object, rather than a set of social and cultural practices, as I tend to do”.393 Oggetto del dibattere qui è la heidegerriana questione della tecnica moderna e il noto passaggio in cui il filosofo sostiene che questa “concentra l’uomo nell’impiegare il reale come ‘fondo’ a disposizione”:394 mentre per Levin la rappresentazione dipende dal modo in cui il solo oggetto tecnico

392 Vd. Rick Altman, “The Material Heterogeneity of Recorded Sound”, in Id. (a cura di), Sound Theory, Sound Practice, op. cit., pp. 18 – 31.

393 James Lastra, “Reading, Writing and Representing Sound”, in Rick Altman (a cura di), Sound Theory, Sound Practice, op. cit., pp. 65 – 86, (73), corsivo nell’originale.

394 Martin Heidegger, (“Die Frage nach der Technik”, 1954), “La questione della tecnica” in Id., Saggi e Discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5- 27, (14). Vanno segnalate alcune sensibili differenze tra il testo originale e la formula “technology frames the world as a standing reserve” cui fanno riferimento Lastra e Levin, passibili di ulteriori fraintendimenti. “Technik”, rimasta “tecnica” nella versione italiana e divenuto invece “technology” nella resa anglosassone, e soprattutto “Gestell”, “impianto” o “imposizione” nella traduzione di Vattimo (Ivi, p. 19) viene reso con “framing” o “en-framing” per gli anglosassoni, da cui la facile assonanza con il registro cinematografico sulla quale giocano i due autori in questione.

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(o device) sfrutta questo “fondo a disposizione” del reale, per Lastra essa implica anche le pratiche e le convenzioni che rendono il reale tecnologicamente rappresentabile: “every act of representation, by selecting only certain objects or objects in a certain form, or from a certain point of view, pre-structures its objects for the device”.395 In questa formulazione, che ribadisce il carattere prospettico e selettivo dell’inscrizione già messo in luce precedentemente, il device non costituisce il soggetto dell’atto rappresentativo ma piuttosto l’orizzonte al quale esso si ascrive: a Lastra preme presentare la mediazione del suono come “a multistage representational process”396 che non consta soltanto del momento dell’inscrizione, ma che comprende anche le tappe che la precedono. Parafrasando i termini che appartengono alla filmologia, l’accento rispetto all’idea di rappresentazione di scuola tecno-percettiva si sposta dagli aspetti tecnologici che riguardano il “fonografico” fino a comprendere le pratiche che governano il “pro-fonografico”. Da parte sua Jonathan Sterne giunge a conclusioni compatibili con queste, ancora più deciso nel rimarcare la natura sociale dell’intero processo quando afferma che “the original is itself an artifact of the process of reproduction. Without the technology of reproduction, the copies do not exist, but, then, neither would the originals”.397 Per questa seconda scuola di pensiero, le tecnologie audio non possono fornire una riproduzione del suono originale perché né le “tecnologie in sé” esistono all’infuori di un determinato contesto socioculturale, né la nozione di “suono originale” sussisterebbe all’infuori dell’eventualità di una riproduzione; si parla in questo caso di rappresentazione come di un insieme di pratiche che orientano l’uso dell’apparato o del device secondo convenzioni o modelli condivisi.

Pur nell’accogliere, in linea generale, questa seconda definizione, il materiale con cui ci confrontiamo ci impone un ulteriore spostamento di fuoco. Tutte le posizioni che abbiamo riassunto fin qui partono infatti dall’esigenza di problematizzare un elemento discorsivo ricorrente, quello che tende a sottolineare la capacità mimetiche delle tecnologie suggerendo, se non proprio l’identità, perlomeno la continuità tra evento sonoro inscritto ed evento sonoro edotto. I dischi descrittivi mettono però in

395 James Lastra, Sound, Technology and the American Cinema, op. cit., p. 137, corsivo nell’originale. 396 Ivi, p. 127.

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campo elementi concettuali diversi: portiamo ad esempio uno stralcio dalla descrizione comparsa su un catalogo del 1926 che riassume bene i tratti ricorrenti delle promozioni delle scene dal vero a soggetto bellico o cronachistico:

Guidati da reduci che assistettero alle due solenni cerimonie, possiamo presentare al pubblico una riproduzione viva e vera di quegli istanti storici, che hanno lasciato orma così profonda nell’anima delle truppe e della Nazione. Il discorso del generale CANEVA, il grido di commosso entusiasmo del colonnello FARA ai suoi eroici bersaglieri, il discorso del colonnello SPINELLI innanzi al monumento dei caduti, sono riprodotti, con l’entusiasmo popolare, degli europei e degli arabi, con naturalezza tale che sembra di assistervi. Tali dischi costituiscono un prezioso ricordo e saranno ascoltati sempre con lo stesso interesse.398

La terminologia utilizzata in questo passaggio presenta un’ulteriore sovrapposizione semantica tra le nozioni di rappresentazione e riproduzione. Gran parte dei cataloghi dell’epoca valorizza questi dischi per il modo in cui essi “riproducono” qualcosa: grazie ai dischi sulle imprese libiche, “vediamo riprodotta la battaglia e la presa di AIN ZARA con una verità insuperabile”399 e persino “la nostalgia del Natale in Patria è riprodotta, quando con commossa parola, quando con comicità, ma sempre con assoluto verismo”.400 Quanto all’attendibilità di queste “riproduzioni”, funge da garante la testimonianza di chi era presente sul luogo (i “due reduci” non meglio identificati di cui sopra) o la formula assolutoria che vuole praticamente ognuno di questi dischi “raccolto dalla viva voce del popolo”, con un significativo richiamo al vocabolario in uso anche negli studi etnografici.

Per quanto appartenenti a sfere di significato ben distinte, nel regime discorsivo in questione le due nozioni di rappresentazione scenica e riproducibilità tecnica tendono spesso a confondersi: stando a quanto si legge in queste righe l’efficacia della seconda sembra, infatti, non poter sussistere senza un’aderenza tra gli eventi avvenuti e la loro messa in scena. Citando un’espressione usata successivamente per

398 Da un catalogo Phonotype del 1926, cit. in Anita Pesce, La scena dal vero per disco, op. cit., p. 2. 399 Ibidem

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presentare l’incisione del discorso di Mussolini, a questi dischi viene richiesto di “riprodurre con storica esattezza”.401

Non è quindi difficile capire perché Anita Pesce, nel riportare il passaggio di cui sopra, intraveda nella locuzione “viva e vera riproduzione” un’ambiguità, tesa forse a spacciare per registrazioni sul campo incisioni che con i luoghi degli eventi rappresentati nulla avevano a che fare.402 Si tratta però di obiezioni possibili solo se avanzate a posteriori, cioè secondo la convinzione che il compito che assolve una registrazione sonora sia unicamente quello di riprodurre un evento pre-esistente. Il sospetto di una mistificazione (per quanto legittimo) sarebbe stato forse meno vivo se gli stessi termini fossero stati riferiti a un film a soggetto storico che promettesse allo spettatore di “riprodurre i fatti” con “una tale naturalezza che sembra di assistervi”; o avrebbe destato meno stupore trovare le stesse parole in un catalogo che promuoveva la “riproduzione viva e vera”, poniamo, di un’esibizione di Caruso. Nel primo caso saremmo stati più propensi a interpretare il significato in riferimento all’accuratezza della messa in scena; nel secondo, avremmo invece pensato a un modo di enfatizzare il funzionamento dell’apparato tecnologico, identificando la “viva e vera riproduzione” con la precisione della riproducibilità tecnica. Una disparità di trattamento che può essere ricondotta al “mito tecnicistico della riproduzione” che, secondo Chion e Ortoleva,403 penalizza storicamente i media sonori; più in particolare, come argomenteremo nella conclusione di questa sezione, essa è sintomatica della preponderanza di un determinato ordine di realismo che ha