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A partire da queste premesse, il nostro elaborato si propone di ricostruire i modi in cui diverse culture dell’ascolto in Italia hanno concepito e stabilizzato gli usi delle tecnologie fonografiche parallelamente alla costruzione di due diversi regimi uditivi, lungo un periodo compreso tra i primi anni del ventesimo secolo alla metà degli anni Trenta. Le funzionalità mediali dell’inscrizione e della diffusione del suono che abbiamo presentato poc’anzi andranno ad articolare rispettivamente le Sezioni I e II, viste l’una in relazione all’ambito scientifico e (etno)musicologico e l’altra a un filone della produzione discografica internazionale rivolto agli uditori italofoni. La Sezione IV ripercorre le vicissitudini che portano alla fondazione e all’inaugurazione delle attività della Discoteca di Stato tra il 1928 e il 1934, che segna un momento di convergenza fra le diverse funzionalità assunte dal medium in relazione ai regimi dell’ascolto cui ha afferito fino a quel momento.

Già che mirano a investigare la fonografia in relazione a contesti differenti, si può dire che tutte le sezioni che seguiranno a questa facciano, in una certa misura, “storia a sé”. A legarle, oltre naturalmente all’orizzonte di contiguità storica e di continuità di riflessione, saranno alcuni punti focali della nostra indagine. Trasversalmente a ciascuna sezione ci occuperemo di rintracciare i confini dei regimi d’ascolto concentrandoci sulle istituzioni, sui discorsi e sulle pratiche che intorno alla fonografia.

Partiamo dal quadro istituzionale. Sia pure con tutte le divagazioni che servono ad allargare lo sguardo sulle funzioni ricoperte dal medium fino al momento della fondazione, la trattazione che segue può essere letta come una storia del primo istituto italiano preposto alla produzione e alla conservazione di un patrimonio sonoro nazionale, quella che nella Germania di inizio Novecento venivano chiamate Höranstalt, “istituzioni dell’ascolto” o “istituzioni dell’udibile”. Ce ne occupiamo più direttamente in due parti distinte che seguono un ordine cronologico: nel sottocapitolo 2.2 della Sezione I viene ripercorso il dibattito intorno alla “fonoteca folklorica” lungo un periodo che va dagli anni ’10 alla metà degli anni ’30, con

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l’istituzione appunto della Discoteca di Stato - che, come spiegheremo, assolverà solo parzialmente alle richieste accampate per più di vent’anni dagli studiosi della cultura orale; nel sottocapitolo 2.1 della Sezione IV ricostruiremo attraverso corrispondenze e documentazioni d’archivio la competizione che oppose Rodolfo De Angelis, attore, musicista e autore della raccolta discografica La Parola dei Grandi (1927-28, Fonotipia) e Gavino Gabriel, etnografo e promotore della fonoteca etnica, diretti concorrenti la prima direzione dell’istituto. Più che uno scontro tra due personalità con retroterra differenti, si tratta di un momento che mette a confronto gli ambiti che fino a quel momento hanno spinto maggiormente per un investimento culturale sul mezzo fonografico, ovvero la scienza dei suoni e il mercato discografico delle origini; esse si confrontano a propria volta con altre conformazioni istituzionali (la scuola, il potere di governo e le diverse espressioni dello Stato), il cui intervento, a lungo richiesto, diverrà invadente e decisivo proprio lungo il primo decennio del regime fascista. In senso più lato, la nostra si pone quindi anche come una storia dell’“istituzionalizzazione” della fonografia in Italia, che partendo poco dopo la fase dei primissimi usi introdotti già a fine diciannovesimo secolo (i “giocattoli” meccanici più volte chiamati in causa dai commentatori che citeremo), ne segue la stabilizzazione e la maturazione. Lungo tutto l’elaborato illustreremo come i campi del sapere che si interessano alle nuove tecnologie e i primi professionisti attivi nell’industria discografica si sono fatti promotori di una sensibilità che tarderà a filtrare ai piani alti. Nella Sezione IV vedremo come la fondazione della Discoteca di Stato sancisce il faticoso accoglimento di conoscenze e competenze sviluppatesi lungo percorsi paralleli e, successivamente, il loro “dirottamento” ai valori e ai fini del regime dittatoriale.

A lato di questo processo di istituzionalizzazione, osserveremo che i nuovi media intraprendono un constante confronto con quelli già affermati. Qui il nostro approccio storiografico tenta una prima emancipazione dall’articolazione per grandi cesure propria delle Grandi Teorie: anziché semplicemente “soppiantarle”, le tecnologie del suono e della parola parlata attraversano una coesistenza e una competizione con quelle del segno scritto. Per mettere in luce questo aspetto ciascuna delle sezioni viene imperniata sul confronto con le pratiche e le forme della scrittura. Nella Sezione II, la fonografia consolida la sua identità di “macchina da

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scrivere”, un mezzo cioè per l’inscrizione automatica del suono, in contrapposizione con la pratica della notazione a mano delle musiche “naturali”; quando si tratta di affermare la sua utilità di prodotto commerciale per la propagazione di informazioni il disco si presenta come una sorta di “giornale sonoro” o “audiocronaca”, nomi con i quali ci riferiremo alla scene dal vero protagoniste della Sezione III; infine, chiamata all’alto ufficio di ospitare le voci della storia nazionale recente, lo stesso formato a 45 giri viene “nobilitato” da promotori e commentatori con l’appellativo di “libro parlante” (Sezione IV). I diversi stadi identitari non vanno intesi come tappe strettamente consequenziali lungo un processo evolutivo, ma come momenti di una “negoziazione culturale” che ogni novità tecnologica deve intraprendere rispetto al panorama che le pre-esiste e nel contesto in cui viene calata.

Per seguire anche questa costruzione identitaria il nostro lavoro procederà a delineare i discorsi che si sviluppano intorno all’ascolto fonografico. Accoglieremo qui i suggerimenti dati da Ortoleva nel già citato saggio Le tecnologie del suono e la coscienza del Novecento. Domandandosi se la sottovalutazione dei media sonori non sia radicata in una “falsa coscienza mediatica”, cioè in un’auto-rappresentazione della società occidentale che tende a mantenere sottotraccia l’importanza delle tecnologie audio, egli ipotizza alcune vie d’uscita. Anzitutto relativizzare, ponendo in luce quei progetti “miranti a una diversa consapevolezza dell’universo sonoro: una consapevolezza basata sulla capacità di mettersi in ascolto su quei suoni che per tutta la vita, sentiamo ma non ascoltiamo”; in secondo luogo, storicizzare, evidenziando “lo scarto esistente in un'epoca fra l'autorappresentazione prodotta dalla cultura e i processi profondi in corso nel sistema della comunicazione”75. Entro i limiti che si pone, la nostra trattazione cercherà di seguire entrambi gli inviti, ponendo così in primo piano un altro problema che emerge dalle Grandi Teorie di Kittler e McLuhan, quello di una coscienza mediatica sottratta al dominio antropologico. Le fonti con cui ci siamo confrontati ci portano a concedere un maggiore credito alla consapevolezza che gli attori delle nostre storie detengono rispetto ai grandi cambiamenti della propria epoca. Nelle iniziative divulgative e negli appelli alla comunità scientifica che ripercorreremo già dalla prossima sezione,

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pratiche e tecnologie fonografiche sono spesso parte integrante della promozione di “un nuovo ascolto”, che alla competenza tecnica accompagni una vera e propria riscoperta di quell’universo udibile concreto escluso dallo spartito; fanno fede, a questo proposito, gli articoli pubblicati testate sorprendentemente pionieristiche come Il Suono (di cui parleremo diffusamente nel capitolo 1 della sezione II) e le attività di Gavino Gabriel, promotore presso varie sedi di quella che egli stesso definiva “coscienza fonografica”. Parallelamente, nel capitolo 1 della Sezione III noteremo che l’importanza del disco come mezzo di comunicazione e l’efficacia della parola parlata per “ridurre le distanze” risulta ben presente non solo all’attenzione di chi opera nel settore discografico, ma anche a quei nomi illustri che per primi si avvalgono del medium per far pervenire i propri “messaggi” agli ascoltatori d’oltreoceano.

Cionondimeno, anche sotto questa tendenza a discorsivizzare lucidamente gli aspetti innovativi del mezzo, lo scarto rispetto alle pratiche d’uso può rivelarsi consistente. Ripercorrere gli anni in cui la fonografia comincia a consolidare la propria identità da mezzo di inscrizione e diffusione implica anche raschiare sotto la superficie di quelle retoriche della “non mediazione” e dell’“immediatezza” che abbiamo delineato per sommi capi e che qui andremo a cogliere sul nascere. Nel sottocapitolo 2.3 della Sezione II ci concentreremo su alcune testimonianze da parte dei folkloristi preziose per comprendere come, al di sotto di ogni pretesa di oggettività meccanica (e quindi acheiropoietica), l’azione del medium necessitasse di venire direzionata da una sensibilità e una serie di pratiche sviluppate ad hoc per manovrare i mezzi; così avverrà anche per la “immediatezza” dei dischi prodotti per essere messi in commercio, puntualmente evidenziata dalla retorica dei cataloghi discografici ma destinata a infrangersi all’orecchio dell’ascoltatore contemporaneo: nel confronto tra fono-realismi proposto nel paragrafo 2.2.2 della Sezione III sosterremo che non esiste una concezione di presenza che incontri “naturalmente” la psicodinamica dell’orecchio ma varie modalità di costruzione discorsiva che concorrono ad autenticare il realismo dell’esperienza dell’ascolto. Per richiamare i termini usati da Ortoleva, quando ci si concentra su un uso dimenticato del medium, storicizzare equivale a relativizzare. In altre parole, tornare a un momento in cui “things and situations were still in a state of flux, where the options for development in various

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directions were still wide open, where the future was conceivable as holding multifarious possibilities of technical and cultural solutions for constructing media worlds”76 sarà utile a ricordarci che la qualità dei processi con cui ci confrontiamo è tutt’altro che sovra-determinata e che l’ascolto mediato, anche quando ci pare del tutto “naturale”, sottende sempre lunghi processi di sedimentazione culturale. Andare alle origini dei “miti” dell’oggettività e della presenza fonografiche è un modo efficace, crediamo, per analizzarle da una prospettiva più laica, e quindi “smitizzarle”.

Un ultimo nucleo di interesse, più profondo, sta proprio dell’atto fonografico, l’effettivo relazionarsi dell’uomo alla macchina. Insieme alla possibilità di inscrivere quella parte dell’universo udibile escluso dalla semiografia notata e alfabetica, gli apparecchi presentano specificità e limiti ai quali chi li manovra, in ogni versante, deve imparare a fare fronte, conferendo contestualmente un “senso” al proprio porsi dietro o accanto al fonografo. Con il variare dei regimi d’ascolto questo senso si traduce in pratiche che variano non soltanto in base a “cosa” viene registrato ma al “come” e, in una certa misura, al “perché” si effettua una registrazione. Mettere su disco può significare isolare e fissare un fenomeno uditivo pre-esistente, da analizzare e conservare, o creare un insieme di sonorità affinché vengano percepite all’ascolto come un evento ex novo. Parleremo dunque dell’inscrizione del suono naturale che interessa le scienze etnografiche e antropologiche italiane come di una “tecnica culturale”, un atto volto a tracciare il confine tra ciò che rientra o meno nel dominio della conoscenza, tra ciò che consideriamo e non consideriamo “suono” (Sezione I, capitolo 1); relativamente alle pratiche di registrazione discografiche, partiremo da alcuni esemplari sopravvissuti di scene dal vero per individuarne le strategie di messa in scena e messa in suono: lungi dall’esaurirsi con una semplice “riproduzione” di un accadimento già passato, esse contemplano un complesso processo di significazione e di articolazione temporale commisurato alle specificità del formato del disco a 45 giri (Sezione II, capitolo 2). Come specificheremo, nessuno di questi diversi modi di interpretare l’atto della registrazione è un atto

76 Siegfried Zielinski, Deep time of the media. Toward an Archaeology of Hearing and Seeing by Technical Means [Archäologie der Medien: Zur Tiefenzeit des technischen Hörens und Sehens, 2002], Mit Press, Cambridge (MA) – Londra 2006, p. 10.

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culturalmente neutro, limitato al solo azionamento della macchina. Se intesa non come espressione di un volere individuale ma come sintomo di un modo di interpretare il medium anche l’intenzione in base alla quale si opera conosce un peso essenziale. Il capitolo 1 della Sezione IV, dedicata alla realizzazione della fonoteca di Rodolfo De Angelis La Parola dei Grandi, ci offrirà l’occasione per riflettere sul modo in cui la tecnica culturale dell’inscrizione fonografica cambia di segno se posta di fronte a “performer” tanto diversi come l’esecutore di un canto popolare registrato dai folkloristi e le alte cariche politiche e militari incontrate da De Angelis. A questo proposito tenteremo di dimostrare che ciò che dell’uomo che parla al fonografo sarà immortalato sulla cera dipende in parte anche dai rapporti di potere fra gli individui coinvolti nella registrazione.

In fase di elaborazione, gli anni che portano al primo archivio fonografico italiano hanno fatto come da “epicentro” per l’attività di ricerca delle fonti. Se le documentazioni, effettivamente conservate costituiscono infatti un ideale punto di arrivo ciò che l’istituto non preserva, o preserva solo in parte, il periodo precedente alla sua istituzione si punto di partenza per il nostro tentativo di ricostruzione degli anni precedenti. A sostegno delle nostre argomentazioni porteremo pertanto fonti di diverso ordine e di provenienza eterogenea.

La Sezione II, dedicata agli usi della fonografia in campo scientifico, poggia sul lavoro di spoglio di periodici e testate di interesse antropologico, etnografico e musicologico (Il Suono, Rivista Musicale Italiana, Nuova Musica, Lares) condotto soprattutto sulle collezioni del Conservatorio di Novara, della biblioteca “Andrea della Corte” di Torino, e della “Casa della Musica” di Parma (sede Centro Internazionale Periodici di Musica). I materiali mancanti sono stati integrati attraverso più sporadiche sedute di consultazione alla Biblioteca Nazionale di Firenze, alla Mediateca “Mario Gromo” presso il Museo del Cinema di Torino, alla biblioteche civica e nazionale di Torino, Braidense di Milano, “Renzo Renzi” di Bologna, “Vincenzo Joppi” di Udine. Presso le stesse sedi abbiamo proceduto alla consultazione degli atti dei congressi nazionali e internazionali di Etnografia, di Musica e delle Arti e delle Tradizioni Popolari tenutisi in Italia nel periodo interessato, anch’esse indispensabili per tracciare l’evolversi del dibattito sulla

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fonoteca etnica nazionale e per trovare quei momenti di “riflessione sul mezzo” di cui renderemo conto in conclusione della sezione.

La Sezione III trae vantaggio dallo spoglio dei materiali conservati presso il Fondo Cataloghi Storici dell’Istituto Centrale dei Beni Sonori e Audiovisivi di Roma e relativi alla produzione italiana della Gramophone/Grammofono/La Voce del Padrone (1919 – 1936) Columbia Italia (1926-1939) e Società Italiana Fonotipia – Odeon (1923 – 1936); i dati sulla produzione americana italofona provengono dai cataloghi della Columbia R.C.A. (1917-1933) e della Victor Italian Records (1924-1930). Laddove mancanti o incerti, i dati così ottenuti sono stati incrociati tramite la consultazione dei portali internazionali CHARM (Ahrc Research Centre for the History and the Analyisis of Recorded Music), DHAR (Discography of American Historical Recordings) e Europeana Sound Heritage; le schede raccolte nei volumi di Alan Kelly e Richard K. Spottswood rispettivamente per le produzioni in lingua della Gramophone Company e della Columbia hanno rappresentato un ulteriore strumento di completamento per la ricognizione della produzione discografica internazionale. Per il raffronto con le cronache nazionali che attraversa l’intera sezione (e in particolare il capitolo 2) abbiamo condotto le nostre ricerche sull’archivio digitalizzato reso disponibile on-line del Corriere della Sera assumendolo a testata rappresentativa della copertura di stampa dei fatti di cronaca e di attualità italiane. Le incisioni a 78 giri di cui parleremo più diffusamente all’interno della sezione sono conservate e rese disponibili all’ascolto tramite copia d’accesso digitale presso lo stesso Istituto dei Beni Centrali Sonori e Audiovisivi grazie al lavoro di raccolta attuato dal musicologo Paquito Dal Bosco per la raccolta Fonografo Italiano;fa eccezione soltanto Il Funerale di Rodolfo Valentino, conservato nel formato originale a 45 giri presso la fonoteca del Museo del Cinema di Torino.

Nella Sezione IV faremo ancora ampio riferimento ai periodici e ai quotidiani consultati nelle sedi sopraelencate, con l’aggiunta di alcuni estratti dal Radiorario e dal Radiocorriere il cui storico abbiamo potuto consultare, perlopiù in forma digitalizzata presso il Centro Documentazione “Dino Villani” associato alle Teche Rai di Torino. Gli articoli pubblicati da Rodolfo De Angelis su La Domenica del Corriere, Corriere d’Informazione e L’Ambrosiano provengono dai già citati archivi

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del Corriere della Sera, Museo del Cinema e dalla Biblioteca Nazionale di Firenze. Le documentazioni, la corrispondenza e gli appunti dattiloscritti su cui vertono i capitoli dedicati alla realizzazione de La Parola dei Grandi e alla costituzione della Discoteca di Stato sono ancora frutto di ripetute visite all’Istituto dei Beni Sonori e Audiovisivi, in particolare delle ricerche condotte sul fondo Voci Storiche e fondo De Angelis. Presso lo stesso istituto sono state inoltre ascoltate le incisioni realizzate da De Angelis, a tutti gli effetti il primo corpus della Discoteca di Stato riacquisito nel 2010 a seguito della donazione del resto dei materiali appartenuti all’autore.

L’abbondanza di documenti scritti contro la relativa scarsità di fonti registrate può apparire un aspetto contraddittorio per una ricerca che vorrebbe occuparsi di culture dell’ascolto. Una prima ragione per questo scompenso è di carattere materiale, e si intreccia paradossalmente con la storia che andremo a raccontare: proprio la prolungata assenza di un istituto interessato alla conservazione di supporti fonografici, infatti, contribuisce a relegare il periodo in cui il medium conosce le sue prime applicazioni, a ostaggio di una memoria in gran parte “mutila” (o, nel nostro caso, “muta”) il cui pieno recupero ai fini del lavoro storiografico è ostacolato proprio dalla lacunosa disponibilità di registrazioni. Esiste però anche una ragione propriamente metodologica che raccogliamo ancora dalle istanze degli studi culturali sul suono e da quei suoi esponenti che, seguendo diverse tracce, hanno tentato di ricostruire un paesaggio sonoro storico. In molti hanno già fatto notare che, se pure, per assurdo, la totalità dei suoni che hanno abitato le epoche passate fossero sopravvissuti intatti, adeguatamente registrati e conservati, sapremmo comunque ben poco di quel che hanno rappresentato e significato per chi li ascoltava all’epoca. Anche a una fronte di una maggiore disponibilità di dati, quindi, i confini dell’esperienza del suono nella specificità culturale e storica della modernità novecentesca continuerebbero a restare muti al nostro orecchio.77 Tali suggerimenti valgono a maggior ragione per un lavoro come il nostro che assume a primo oggetto d’interesse la fonografia, vale a dire il medium che quei suoni avrebbe dovuto

77 Si vedano fra, gli altri, Carolyn Birdsall, Nazi Soundscapes. Sound, Technology and Urban Space in Germany, 1933-1945. Amsterdam University Press, Amsterdam 2012, p. 12; Mark. M. Smith, Mitchell Snay, Bruce R. Smith, “Coda: Talking Sound History” in Mark M. Smith (a cura di) Hearing History: A Reader. University of Georgia Press, Athens 2004, pp. 365-405.

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raccoglierli per tramandarli: la sopravvivenza di registrazioni sonore non basta, di per sé, a raccontare la storia che vi si nasconde dietro, il come e il perché quei suoni, e non altri, sono stati considerati degni di essere preservati, e se davvero “registrare” ha sempre voluto dire “preservare”. Quando non fungono più convenzionalmente da fonti contestuali, paratestuali o da pezze d’appoggio per alcune vicende che ci interessa ricostruire, i documenti scritti possono comunque portare un importante elemento d’integrazione per pervenire ai discorsi e, in una certa misura, anche alle pratiche che si muovevano intorno alle tecnologie; in alcuni casi essi costituiscono la manifestazione di una “verbal culture of sound”, da ricomporre con la “sounded culture of sound”78 incontrata dal fonografo, a ricordarci che anche l’esperienza di colui che ascolta un’incisione non risponde soltanto agli stimoli del nudo senso o agli effetti della macchina, ma si costituisce in relazione a una gamma di competenze culturali che passano anche attraverso testi scritti, anzi, attraverso gli atti stessi dello leggere e dello scrivere un testo.79 Per le stesse ragioni per le quali abbiamo considerato utile soffermarci sul periodo che precede la fondazione della Discoteca di Stato al fine di capire meglio le funzione sociali che da questa verranno ricoperte,