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Capitolo 3. Legge e contingenza: la mediazione dell’esperienza

3.3 Creazione e libertà

Per dare senso alla nostra esperienza e, in particolare, al fatto che essa risulta interessata dal negativo – di cui il male è forma –, occorre richiamare qui le considerazioni che abbiamo offerto a proposito della contingenza. Tale modalità ontologica dà conto dell’accadimento di contenuti di realtà che, oltre ad essere evidentemente non- impossibili, sono anche non-necessari. Ragionando sull’endechómenon, ne abbiamo riconosciuto la pertinenza per la prassi umana in due sensi precisi: (1) sono contingenti i contenuti posti dalla libera azione umana; (2) l’essere umano è contingente rispetto alla volontà creatrice, anch’essa libera. I due sensi qui indicati, segnano altrettanti domini del discorso filosofico: l’uno etico-politico, l’altro metafisico. Nell’economia del nostro discorso, la transizione dall’uno all’altro di questi domini è legittima in forza di una mediazione, offerta dall’antropologia filosofica. Della prassi umana, dunque, occorrerà dare conto, per quanto possibile. Un chiarimento metodologico è opportuno: tale cautela non è segno di una postura filosofica remissiva – di certo non lo è per Agostino e, crediamo, non lo è neppure per chi scrive –: è piuttosto il segno della consapevolezza che

216D’altro canto, si potrebbe ipotizzare che sia l’essere umano a produrre il male come un aliquid che abbia

una sua autonomia ontologica rispetto al bene. In questo caso, l’azione umana sarebbe potente sulla realtà al punto da produrne un incremento ontologico, poiché il male avrebbe incominciato ad esistere con l’umano di cui si è, per altro verso, accertata la finitudine. In altri termini: l’azione umana sarebbe creatrice. Come abbiamo avuto modo di mostrare nei capitoli precedenti, invece, la libera prassi umana è strettamente connessa alla contingenza e si concreta sempre a partire da qualcosa di già esistente e non può produrre alcunché ex nihilo, ovverosia senza riferirsi ad un presupposto – fosse anche quelli più ovvio: la realtà in cui si dà l’azione stessa.

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dell’essere umano è un oggetto di conoscenza inesauribile. Quello di cui abbiamo esperienza è sempre la forma di vita umana, intesa come la persona còlta nel concreto delle sue pratiche: ciò che di essa possiamo dire a livello strutturale, dunque, dovrà essere derivato analiticamente da questo “sinolo” di cui possiamo fare esperienza. L’analisi dovrà, in fondo, esplicitarne le condizioni di possibilità. Sulla fisionomia di tali condizioni di possibilità si pronuncia determinatamente la metafisica, che integra legittimamente l’esperienza, rivolgendosi a quell’immemoriale di cui paradossalmente si ha memoria, e che non può essere messo a tema, per così dire, immediatamente.

Rivolgiamoci al primo dei due sensi ora esposti, riformulando un’ipotesi di lavoro che Agostino offre nel Libro VII delle Confessiones: l’origine del male, di cui si è accertata l’inconsistenza ontologica217, è da ricondurre alla libertà finita. Essa, fallibile tanto dal

punto di vita pratico quanto da quello cognitivo, introduce il male dall’interno dell’ordine razionale che governa tutte le cose, ovverosia dall’interno del bene – poiché nulla si dà, al di fuori dell’ordine, e perciò del bene. La libera volontà umana ha, tra le sue potenzialità d’azione, anche la posizione del disordine: quest’ultimo – si badi bene – non inficia l’ordine, che è metafisicamente necessario. La possibilità di riferire all’essere umano la responsabilità delle sue azioni è assicurata dalla libera volontà umana che, per Agostino, ha consapevolezza di se stessa. A ben vedere, abbiamo già guadagnato questa certezza indagando le implicazioni del dubbio: l’intelligenza dubitante si pone, infatti, rispetto a ciò di cui dubita come se fosse contingente, oscillando tra possibilità tra loro contraddittorie. La volontà che sa di essere libera, dunque, sa di volere ciò che vuole. D’altro canto, di tutti gli atti che la persona compie suo malgrado, si dirà che quest’ultima li subisce – anche quando li fa. Ecco le parole di Agostino su questo punto:

Mi sollevava infatti verso la tua luce, il fatto che sapevo tanto di avere una volontà quanto di vivere. E così quando volevo o non volevo qualcosa, ero certissimo di essere io e non un altro a volere e non volere. Di essere in quello stato a causa del mio peccato, proprio in quel momento, lo sapevo nell’animo mio. Quello che invece facevo mio malgrado, mi pareva di subirlo più che di

217 In Confessiones VII, 2.3, Agostino riferisce che la paternità del dilemmaton con cui egli argomenta, qui, a

favore della non-sostanzialità del male, è di Nebridio. L’argomento può essere sinteticamente ricostruito così: se il male fosse una sostanza, esso sarebbe o incorruttibile o corruttibile. Se fosse incorruttibile, sarebbe il bene supremo; se fosse corruttibile, sarebbe distruttore di se stesso, in quanto soggetto al male. Ma il male non può essere incorruttibile, altrimenti non sarebbe il male; e non può essere corruttibile, pena il suo auto-toglimento. Dunque, il male non è sostanziale.

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farlo e lo giudicavo non una colpa, ma una pena che non esitavo ammettere da te inflittami non ingiustamente, considerandoti giusto218.

La certezza della volontà di essere libera qualifica la persona come responsabile per le proprie azioni. D’altro canto, Agostino approfondisce il punto collegando la libertà della volontà alla natura creaturale dell’essere umano: se questi è creato dall’Assoluto, che è il bene in quanto tale, donde viene il consenso che la libera volontà umana dà al male e il rifiuto che essa oppone al bene219? È infatti certo che il Creatore dell’essere umano sia

lo stesso bene in quanto tale: l’ipotesi per cui l’umanità sia stata creata da un soggetto che non sia il bene è presto decostruita. «Se anche il [mio] creatore fosse il diavolo – scrive Agostino – donde verrebbe lo stesso diavolo?» 220. Il riferimento al diavolo non è

improprio: abbiamo già visto come l’Ipponate faccia valere un’analogia tra le intelligenze umane e quelle angeliche, appunto a proposito della capacità che entrambe hanno di intenzionare il bene. Si chiede Agostino «se anche lui, da angelo buono che era, diventò diavolo in forza di una volontà perversa, donde questa volontà malvagia che doveva renderlo diavolo, una volta che era stato fatto integralmente angelo da un creatore buono?» 221.

Il punto di arrivo della riflessione agostiniana circa il male è complesso, ma crediamo si possa riassumere attorno ad alcune tesi fondamentali, che fino a qui abbiamo esposto e discusso: (1) il male non ha alcuna consistenza autonoma rispetto al bene, di cui (2) si dovrà riconoscere la convertibilità con l’essere, così da poter affermare la bontà di ogni determinazione dell’essere; d’altro canto, (3) il male non è creato dall’Assoluto, come se fosse cooriginario rispetto al bene: esso è (4) piuttosto il frutto della prassi umana, che è stata creata libera e perciò introdotta nell’ordine razionale delle cose con un certo grado di potenza. (5) Il male che attivamente sperimentiamo nel corso della nostra esistenza, per avere su di noi una qualche attrattiva, deve apparire sub specie boni – almeno in un certo senso, ovverosia per giustificarsi agli occhi di chi lo compie. Ciò significa che (6) il male è un bene malamente intenzionato, messo a tema da un’azione – o da una serie di

218 «Sublevabat enim me in lucem tuam, quod tam sciebam me habere voluntatem quam me vivere. Itaque cum

aliquid vellem aut nollem, non alium quam me velle ac nolle certissimus eram et ibi esse causa peccati mei iam iamque animadvertebam. Quod autem invitus facerem, pati me potius quam facere videbam et id non culpam, sed poenam esse iudicabam, qua me non iniuste plecti te iustum cogitans cito fatebar» (Confessiones VII, 3.5).

219 Cfr. ibidem.

220 «Si diabolus auctor, unde ipse diabolus?» (ibidem).

221 «Quod si et ipse perversa volutante ex bono angelo diabolus factus est, unde et in ipso voluntas mala, qua

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azioni – che si contraddistingue per il carattere “disordinato” del suo objectum actionis. Con questo, (7) non si sta giustificando il male: la libertà umana implica responsabilità per le azioni compiute e l’eventuale difformitas della prassi umana rispetto all’ordine delle cose rivela una mancanza d’intelligenza pratica che, entro limiti ragionevoli, può essere imputata all’agente.

Abbiamo più volte affermato che, secondo Agostino, qualsiasi pratica deve rispondere ad una misura di adeguatezza rispetto al proprio fine, alla realtà in cui si colloca e, di più, rispetto al suo destinatario. Tale misura è la giustizia, su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo.

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