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L’ordine come orientamento al fine

Capitolo 2. Male e ingiustizia: Il De ordine di Agostino

2.5 L’ordine come orientamento al fine

Questo grappolo di questioni contribuisce alla tessitura argomentativa del secondo Libro del De Ordine, che prende le mosse dall’ultima questione sollevata nel primo Libro: se Dio, principio di quell’ordine che muove ogni determinazione della realtà al suo fine, sia a sua volta mosso oppure no. L’iter argomentativo era stato interrotto da Agostino, il quale era intervenuto per porre fine alla rivalità che stava contaminando la disputa tra Licenzio e Trigezio, i quali erano finiti per ragionare malamente attorno a questioni legate alla Trinità. In questo, il maestro, mostra chiaramente i suoi intenti pedagogici, poiché

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rimprovera ai due non tanto il tono acceso della discussione, quanto più il reciproco tentativo dell’uno di avere ragione dell’altro112.

Per quanto mi sia adirato con voi, che stavate trattando puerilmente di cose grandi, tuttavia mi sembra che sia accaduto non senza ordine, secondo il volere di Dio, che con il discorso con cui ho rimproverato la vostra superficialità, il tempo sia passato, in modo tale che un argomento tanto importate sia stato rimandato fino al ritorno di Alipio. Di conseguenza, dal momento che gli ho già resa assai nota la discussione e gli ho mostrato fin dove siamo giunti, sei forse pronto, Licenzio, a difendere il ragionamento a cui hai dato avvio partendo dalla tua definizione? Infatti, credo di ricordare che tu avessi detto che l’ordine è ciò per cui Dio conduce tutte le cose al fine113.

Agostino prosegue chiedendo al giovane Licenzio, che si è detto disponibile a continuare il dialogo con la comunità di cui è parte – alla quale si sono aggiunti, nel frattempo, Alipio e Monica–, se anche Dio si muova secondo l’ordine razionale, oppure se egli, muovendo tutte le cose al fine, non sia a sua volta mosso. La risposta di Licenzio approfondisce la questione, poiché egli sostiene che laddove c’è pienezza di bene, non c’è bisogno di alcuna legge. La pienezza di bene è infatti traducibile come la «somma eguaglianza»114, che non richiede che vi sia alcuna razionalità a ristabilire l’ordine

armonico di tutte le determinazioni della realtà, poiché nell’ipotesi non vi sarebbe alcuna razionalità che possa destabilizzarlo o tentare di curvarlo in direzioni inadeguate. E poiché è innegabile che in Dio si realizzi tale pienezza di bene, è da dedurre che né Lui né i suoi attributi siano subordinati alla legge razionale. Alla domanda di Agostino se tale massima realizzazione del bene sia da considerarsi un nulla, il giovane Licenzio risponde che essa sola è da considerarsi non interessata dal divenire. La necessità di un ordinamento che regoli la nostra esistenza, al quale risulterà soggetta ogni cosa – dunque anche il bene– è segnata dal fatto che il male attraversa la nostra esperienza e produce uno squilibrio. L’ulteriore affondo di Agostino mette a dura prova la capacità argomentativa del giovane che, tuttavia, mostra di sapere più di quanto non sappia dire.

112 Torneremo tematicamente su questo punto, nel prossimo excursus, dedicato alla filosofia come dialogo,

che prenderà in esame più da vicino l’epistemologia agostiniana e alcune implicazioni di ordine pratico che da questa si possono trarre.

113 «Quamvis vobis […] succensuerim pueriliter de magnis rebus agentibus, tamen mihi videtur non sine ordine,

propitio Deo, accidisse, quod in sermone quo vos ab ista levitate detrahebam, tempus ita consumptum est, ut res tanta ad Alypii adventum dilata videatur. Quapropter, quoniam ei iam quaestionem notissimam feci et quantum in ea processerimus ostendi, paratusne es, Licenti, causam quam suscepisti ex illa tua definitione defendere? Nam meminisse me arbitror te ordinem esse dixisse per quem Deus ageret omnia» (De ordine II,

1.2).

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Il maestro gli domanda, infatti, se gli esseri diretti al fine siano da considerarsi soggetti al divenire oppure no. Evidentemente, Licenzio riconosce che tutti gli enti che esistono in questo modo partecipano del divenire; eventuali altri enti – come specifica su richiesta di Agostino – sono “con Dio” e non risultano soggetti al divenire. Di qui sarebbe possibile dedurre che tutti gli enti di questo mondo non siano “con Dio”, poiché sono evidentemente segnati dal divenire.

Siamo dinnanzi ad un paradosso che merita di essere sciolto: pare, infatti, che ci siano due tesi in reciproca opposizione, e che siano entrambe valide. La prima, quella per cui nulla è al di fuori di Dio, poiché appunto non v’è alcunché che accada al di fuori dell’ordine; la seconda, quella per cui tutto ciò che diviene non è con Dio115. Lo

scioglimento del paradosso è possibile – come suggerito dallo stesso Agostino – attraverso una più precisa articolazione di cosa significhi, rispettivamente, “essere con Dio” e “non essere fuori di Dio”. In senso euristico, il filosofo di Ippona afferma che è con Dio chi lo conosce. Dunque il filosofo, che conosce Dio, è con Lui. E in che senso si potrebbe dire che questi non sia un ente diveniente, quand’è evidente che è soggetto a tutte le forme di divenire che segnano la vita umana? Licenzio risponde che egli è con Dio in un senso preciso, ovverosia in tanto in quanto lo è il contenuto del suo pensiero. Si tratta di un contenuto di conoscenza specifico, non equiparabile agli altri oggetti messi a tema dal pensiero – altrimenti si dovrebbe dire che il filosofo non conosce ciò che tutti gli altri conoscono, pur non avendo con ciò accesso all’essere con Dio. L’oggetto di conoscenza tematico del pensiero del filosofo è la verità trascendentale, che non rinnega affatto la conoscenza di oggetti determinati: tale conoscenza segna piuttosto la possibilità, da parte del pensiero, d’intenzionare qualunque instanziazione della realtà. Si tratta di quel tratto costitutivo della persona umana, non solo del filosofo, che la filosofia di tradizione scolastica avrebbe riconosciuto nell’apertura di questa sul trascendentale: è lo sguardo con cui la persona conosce le determinazioni più elementari della realtà – perciò innegabili. Il filosofo che abbia conoscenza di ciò – aggiunge Licenzio116– sarebbe con Dio

perché avrebbe conoscenza della propria interiorità, che è il luogo in cui tali determinazioni appaiono.

115 È quanto Licenzio ha appena dovuto ammettere, affermando che tutto ciò che è con Dio non conosce

divenire.

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Se il filosofo è con Dio poiché ha accesso ad un contenuto di conoscenza innegabile, la cui cifra è custodita nella sua interiorità; d’altro canto egli non sfugge al divenire per tutto ciò che riguarda la sua esistenza sensibile, materiale, finita. È qui ripreso un modulo fondamentale della filosofia antica, che le varie scuole hanno diversamente rimodulato: il filosofo sembra vivere due dimensioni, l’una materiale, di cui si fa rappresentazione attraverso i sensi, soggetta al divenire e alla corruzione; l’altra sovrasensibile, di cui egli ha conoscenza vera attraverso il solo pensiero, stabile e incorruttibile. A tale dimensione incorruttibile ha accesso l’anima, già in certa misura virtuosa per il fatto di essersi messa in moto verso il fine al quale è destinata. L’attrazione destinale che la verità esercita nei confronti dell’anima del filosofo, darebbe a quest’ultima la possibilità di volgere al fine tutte le altre facoltà della persona, come la memoria, la quale starebbe all’anima come il servo sta al suo signore. La visione di Licenzio è ancora troppo legata ad una prospettiva classica, in cui solo qualcosa della persona umana, dell’ente che più di tutti ha a che fare con il divenire, può avere accesso alla verità. Agostino non manca di suggerire una visione diversa, anzitutto recuperando la memoria alla sua centralità nella pratica del pensiero e della ricerca: essa, infatti, risulta indispensabile già al momento della formazione del filosofo; inoltre, essa gli è di sostegno quando egli è chiamato ad insegnare agli altri. Se è vero che egli conosce la verità, in un certo senso possedendola, è per altro verso vero che i suoi pensieri richiedono di essere esposti secondo un ordine razionale. È dunque inevitabile che il filosofo affidi alla memoria i guadagni della sua meditazione, per averli a disposizione nel momento del bisogno117.

Alla tesi agostiniana per cui il sapiente può essere detto “con Dio” perché ha conoscenza dell’Assoluto, Licenzio e Trigezio hanno aggiunto un’affermazione che Agostino chiede loro di ponderare. Secondo i due allievi, infatti, il sapiente è con l’Assoluto perché quest’ultimo custodisce da sempre ciò che il primo arriva a conoscere. Di qui si può sostenere che anche l’ignoranza e la stoltezza, che il sapiente deve necessariamente conoscere per potersene allontanare, dovrebbero essere ricondotte all’Assoluto118.

Trigezio richiede a questo punto l’intervento di Alipio, – altro membro della comunità riunita presso la villa di Verecondio –, il quale prova a disinnescare il problema

117 Lo stesso testo del De ordine ci offre delle indicazioni metodologiche interessante, in tal senso. La regola

che Agostino aveva imposto alla disserentium societas di cui era maestro, prevedeva che il ritmo dell’argomentazione rallentasse, di tanto in tanto, per favorire la trascrizione di ogni cosa. Com’è evidente da De ordine I, 11.31, era già previsto che tali trascrizioni fossero messe a disposizione di altri.

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sostenendo che può essere a buon diritto definito sapiente chi già si sia liberato della stoltezza: a questo punto si può affermare la comunione del sapiente con l’Assoluto senza temere di inoculare nella natura di quest’ultimo limiti inaccettabili – quali la stoltezza e l’ignoranza. Parrebbe lecito dire di più: poiché il sapiente è colui che si è liberato della stoltezza, quest’ultima risulterà separata dall’Assoluto con cui il sapiente è in comunione. Il maestro ricorre, ancora una volta, alla fondamentale vocazione pedagogica del sapiente per risolvere la questione. Accettato come ipotesi di lavoro che il sapiente sia tale in quanto si sia liberato della stoltezza, sarebbe sensato ricorrere ai suoi insegnamenti per poter essere a propria volta liberati da una tale privazione. Se valesse davvero quanto affermato da Alipio, qualsiasi sapiente dovrebbe rigettare la richiesta di un eventuale discepolo: «dunque quello risponderà alle tue domande: “affinché potessi insegnarvi, avreste dovuto venire da me quand’ero stolto; ora potete essere maestri di voi stessi. Infatti, io non comprendo più la stoltezza”»119. Una risposta simile non lascerebbe spazio

al dubbio: anche a questo sapiente occorrerebbe un maestro grazie al quale liberarsi della stoltezza che, evidentemente, ancora lo affligge, anche solo per la ragione che egli non comprende ciò che sa. Essendosi liberato della stoltezza, finirebbe per non avere più conoscenza di ciò su cui si è fondata la sua liberazione: finirebbe per non avere coscienza dell’errore, rispetto al quale non potrebbe distinguere la verità che si supponeva dovesse possedere.

Se da un lato non pare plausibile sostenere le tesi di Licenzio e di Trigezio senza incorrere in contraddizione performativa, dall’altro emerge la necessità di specificare in che modo la stoltezza possa essere oggetto di conoscenza. Per offrire tale specificazione, Agostino ricorre ad un’analogia tra la vista e la conoscenza intellettuale: così come non è possibile vedere le tenebre, anche per chi avesse occhi molto buoni, allo stesso modo si può dire che la stoltezza non può essere conosciuta. Essa, infatti, non è tanto uno specifico contenuto di conoscenza, quanto piuttosto una condizione della persona nel suo mettere a tema, di volta in volta, le diverse determinazioni della realtà. Non v’è qualcosa che si possa definire “ignoranza”, se non in rapporto ad una relazione di conoscenza che leghi la persona ad un qualche oggetto conoscibile – sia esso materialmente individuato oppure no. L’ignoranza emerge come il principale segno della finitudine della forma di vita umana: è una connotazione meramente negativa della processualità della conoscenza

119 «Dicturus est ergo ille te auctore: ‘Ut hoc vos docerem, quando stultus eram, ad me venire debuistis; modo

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umana, la quale inevitabilmente partecipa del divenire120. Va certamente notato che essa

contrassegna un limite – il quale è sempre, progressivamente rivisitabile –, senza dimenticare che le figure liminali rimandano ex negativo a qualcosa d’altro: in questo caso, in prima battuta, l’ignoranza rimanda ad un possibile incremento della conoscenza. In termini agostiniani, la stoltezza è dunque da intendersi come un’ignoranza pratica, abito di chi agisce senza mettere adeguatamente a tema il fine delle proprie azioni.

In relazione al nostro tema, l’ignoranza ci offre la possibilità di porre questioni che riguardano le pratiche della forma di vita umana nel mondo, non soltanto in merito a quelle di natura conoscitiva: “ignoranza” è il nome Agostino dà al genere di cui sono specie l’ignoranza teorica e l’ignoranza pratica o stoltezza. È infatti legittimo domandarsi se anche le azioni degli stolti possano rientrare all’interno dell’ordine razionale di cui la

disserentium societas è in cerca nel ritiro di Cassiciacum121. Questa domanda, come tutte

quelle che sono state poste seguendo lo sviluppo del dialogo, è una specificazione della più generale domanda circa la possibilità che della realtà si dia un ordine integrale. Se esso dev’essere in grado di accogliere ogni determinazione – poiché tutto accade all’interno di un ordine –, allora l’ordine razionale delle cose dev’essere in grado di dare conto anche delle azioni che si compiono in un senso che, almeno in prima battuta, sembra contraddire l’ordine stesso.

Trigezio offre la sua risposta al dilemma posto da Agostino, rifacendosi all’immagine delle tenebre offerta dal maestro: l’occhio che vede, non vede le tenebre. Tale immagine si può leggere sinotticamente rispetto a quella, offerta in apertura, dell’occhio incapace di cogliere tutte le tessere di un mosaico e, dunque, incapace di cogliere la figura che queste descrivono. Entrambe connettono l’apparire dell’ordine e la parvenza del disordine alle facoltà conoscitive dell’essere umano, che è dunque chiamato a fare i conti con i propri limiti, al fine di non proiettarli sulla realtà di cui intende cogliere la struttura. Uno sguardo attento sarebbe infatti in grado di comprendere che le azioni stolte, se pure non orientate al bene da chi le compie, accadono all’interno dell’ordine razionale in forza di «quella legge ineffabile ed eterna»122 che assegna a ciascuna cosa il

suo posto nel mondo.

120 Si vedano le considerazioni che abbiamo offerto a proposito dell’intenzionalità come della figura chiave

per intendere il modo umano di conoscere.

121 Cfr. De ordine II, 4.11.

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