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La giustizia relazionale

Capitolo 4. Distillare la teoria della giustizia

4.2. La giustizia relazionale

Nel corso della nostra esistenza siamo chiamati a dare forma alle nostre inclinazioni: tra quelle che ci mettono più radicalmente in questione, c’è l’amore. Ad un primo livello fondamentale, per Agostino l’amore è apertura all’altro. L’alterità, infatti, rappresenta esattamente il crinale su cui si gioca la bontà dell’amore: anche di quell’amore naturale che ciascuno ha per sé. Quest’ultimo, nello specifico, è buono nella misura in cui si apre all’alterità radicale – che ha ultimamente il volto della Trascendenza –: attraverso un’inclinazione così calibrata, la persona si compie in sé, senza chiudersi nel circolo vizioso di un io sovradeterminato. In tal senso, Agostino sostiene che si è in grado di amare compiutamente se stessi amando Dio256.

La forma deteriore dell’amore di sé, evidentemente, è la chiusura della persona entro se stessa, che determina un’errata messa a tema anche delle cose del mondo – oltre che della persona stessa, di cui non si riconosce la vitale relazione con l’alterità. La forma adeguata alla strutturale apertura dell’essere umano, dunque, è quella che si compie nella relazione. Di più: è adeguata la forma che si compie in una relazione secondo giustizia. In una prospettiva agostiniana non è trascurabile il radicamento della relazione interumana in quella, fondamentale, tra l’essere umano e la Trascendenza. È nella relazione con l’Assoluto che l’essere umano istituisce anche una sana relazione con la realtà non assoluta: dunque con il mondo e con gli altri soggetti che in esso incontra.

Già le pratiche di giustizia riparativa e distributiva, pensate alla maniera di Agostino, permettono di individuare il riferimento destinale all’alterità di ogni pratica umana e, dunque, consentono di lasciare emergere il senso relazionale che la giustizia assume per il nostro autore. In fondo, occorre riconoscere che Agostino può sostenere la bontà di pratiche come l’elemosina, e può affermare che in esse si arricchisce sia chi dona sia il destinatario dei beni donati, perché tali pratiche si fondano sul riconoscimento di una reciproca e naturale eguaglianza degli esseri umani. Ciò che conta – e che qualifica specificamente la teoria agostiniana – è che tale eguaglianza è fondata sull’amore divino:

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anzitutto perché ciascun essere umano riceve in dono se stesso e la realtà in cui si articola la sua esistenza, e poi perché tale dono rivela la massima libertà – e la massima gratuità – della persona divina. Ancora più a fondo, occorre riconoscere che Agostino può indicare nella giustizia divina il metro delle relazioni interumane, poiché tale criterio non è esterno alla forma di vita umana: esso è piuttosto la cifra dell’ordine intrinseco alla forma di vita. Il fatto che tale cifra abiti in interiore homine non implica che essa appaia sempre chiaramente, totalmente disvelata; anzi: la ricerca di senso e la mediazione della propria esperienza da parte dell’essere umano, si traducono esattamente nel tentativo di lasciare emergere ciò che gli è più intimo, ciò che di oggettivo è racchiuso nella sua interiorità.

Se l’interiorità oggettiva non fosse radicalmente relazionale, non avrebbe senso neppure riferirsi all’essere umano come ad una persona: la persona – si pensi al greco

prósôpon257 – ha gli occhi aperti su qualcosa che gli sta dinnanzi. Negare tale apertura

significa interdire alla persona l’accesso a se stessa. Il riferimento all’alterità, d’altro canto, permette ad Agostino di pensare all’elemosina e alle “opere di misericordia” – in generale, alle pratiche di giustizia distributiva e riparativa – come a pratiche che danno luogo ad una postura giusta. La forma di vita umana è chiamata a dare corpo a quella ratio dei rapporti umani che è la giustizia, cercando costantemente di mettere in campo pratiche ad essa adeguate.

L’adeguatezza delle nostre pratiche rimanda principalmente a due termini: (1) l’individuazione della misura; (2) ciò in vista di cui l’adeguatezza è ricercata. Più esplicitamente, occorre cercare una misura perché siamo in relazione con altro da noi, con cui occorre individuare un riferimento comune affinché la relazione possa compiersi autenticamente. Se non vi fosse, infatti, un’alterità reale a cui fare riferimento nell’attuazione delle nostre pratiche, non avrebbe senso parlare di giustizia: basterebbe assicurarsi la coerenza interna delle nostre azioni. Ha dunque senso parlare di giustizia, perché siamo in grado di individuare il fondamento reale della normatività che chiediamo regoli le pratiche umane. La forma di vita umana è il luogo di tale normatività, tanto che essa non va intesa un’imposizione coatta sul piano d’immanenza della nostra esistenza. È

257 La parola greca prósôpon indica anzitutto lo sguardo (pro + ópsomai), ovverosia la disponibilità della

persona allo sguardo, inteso nel duplice senso attivo e ricettivo. Notoriamente, il greco antico e il latino utilizzano questa parola anche per indicare la maschera, che aveva la doppia funzione di caratterizzare il personaggio e amplificare la voce dell’attore (è eloquente il latino per + sonare, ovverosia “parlare attraverso”). Questa etimologia, che sembra confortata anche dall’etrusco phersu – che indicherebbe proprio la maschera –, non contraddice il primo senso in cui abbiamo introdotto la parola “persona”, dunque quello relativo allo sguardo. Di più, ne sottolinea la disponibilità allo sguardo altrui e la funzione di caratterizzazione del soggetto – in senso sia uditivo che visivo.

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nell’incontro con l’interiorità oggettiva che l’essere umano scopre sé stesso e l’alterità Trascendente – scopre se stesso coram Deo. Sul fondamento della nostra umanità possiamo fare esperienza della giustizia, anzitutto come dell’oggetto delle nostre richieste e rivendicazioni: chiediamo giustizia perché siamo umani. Il riconoscimento dell’umanità altrui, dunque, lascia emergere dalla persona con cui siamo in relazione la medesima richiesta di giustizia.

La relazione ci dà la possibilità di esperire la giustizia nella sua concretezza. Al di fuori di questo rapporto – con la realtà e le sue determinazioni, sia umane che non-umane – la giustizia resta vincolata ad un estremo formalismo, ovverosia alla vuotezza di senso. Se non ci fosse dinnanzi a noi l’altro in stato d’indigenza, non avrebbe senso la prescrizione di spartire equamente con gli altri esseri umani ciò a cui abbiamo accesso, in termini di risorse e beni – non solo materiali. Secondo Agostino, in una simile prospettiva, non avrebbe senso neppure parlare di ricchezza, poiché è definibile “ricchezza” ciò che ci libera dall’indigenza – non solo materiale258.

Se è vero che la giustizia ha senso in riferimento all’alterità, è vero che anche la relazione con l’altro essere umano chiede di essere vissuta secondo giustizia. Così come è ingiusto utilizzare le cose del mondo facendone il riferimento ultimo del nostro desiderio, allo stesso modo è ingiusto mettere a tema l’altro essere umano come se potesse totalizzare la nostra intenzionalità, esaurendone la portata. Torna qui utile la distinzione concettuale tra uti e frui, grazie alla quale possiamo porre la questione come segue: la relazione intersoggettiva secondo giustizia si dà nei termini dell’uti o del frui?

La risposta di Agostino è articolata e viene offerta gradualmente, in luoghi della sua opera cronologicamente distanti tra loro: per facilitarne la comprensione, dunque, la esporremo ricorrendo a due passi. Anzitutto, riferiamoci al luogo in cui la questione è esplicitamente posta dallo stesso Agostino: il primo Libro del De doctrina Christiana, in cui egli si chiede «se gli uomini debbano godere di se stessi oppure debbano usufruirne o entrambe le cose»259. Se è indiscusso il precetto dell’amore reciproco e fraterno, secondo

il nostro autore resta da discutere se l’essere umano vada amato dal suo simile per se stesso o in vista di qualcosa d’altro. Se amassimo l’altro essere umano per se stesso, dovremmo dire che siamo in grado di attuarne un frui, ovverosia un godimento pieno; se

258 Cfr. ivi, 8.

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l’amassimo in vista d’altro, dovremmo riconoscere che la relazione intersoggettiva si articola sotto il segno dell’uti.

La «magna quaestio»260 può trovare risposta anzitutto domandandosi che cosa

possa significare mettere a tema un essere umano propter se e se vi sia un dilemma reale tra l’uti e il frui, a proposito delle relazioni intersoggettive. Poiché abbiamo evidenziato la strutturale apertura all’altro da sé dell’interiorità umana – sempre oggettiva –, è veramente possibile tematizzare l’essere umano in quanto tale senza intraprendere la via del suo riferimento all’alterità, che gli è connaturato? Non è forse soltanto riconoscendo tale riferimento ad altro come connaturato all’essere umano, che si ha di quest’ultimo una comprensione adeguata? D’altro canto, sarebbe quanto meno ingenuo pensare che si possa usufruire dell’essere umano nella stessa maniera in cui si può usufruire di un mezzo, che pure è còlto nel suo riferimento ad altro, ovverosia al fine per il quale ad esso ricorriamo. Nel caso della persona, il riferimento ad altro è necessario affinché di essa ci sia una fruizione adeguata, che tuttavia mostrerà necessariamente i segni della finitudine della forma di vita umana: pur cogliendo il riferimento all’alterità – genericamente intesa – di ciascun essere umano, non saremo in grado di fruire del tutto della persona, poiché essa non è mai del tutto trasparente al nostro sguardo.

È del medesimo segno la risposta di Agostino, il quale avverte che «sono quattro le cose che dobbiamo amare: una è sopra di noi, un’altra siamo noi stessi, la terza è prossima a noi, la quarta è inferiore a noi»261. La differenza tra ciascuna di queste cose e tra le

relazioni che con esse siamo in grado di impostare è quanto al fine: la prima è un fine in sé, la seconda e la terza e la quarta non lo sono, poiché sono riferite alla prima come al loro fine. Dal canto nostro, siamo destinalmente attratti dal nostro fine e, in forza di quest’attrazione destinale, orientiamo le nostre pratiche. Nella messa in campo delle nostre pratiche, tuttavia, incontriamo due principali tipi di realtà: le une che possiamo orientare al nostro fine poiché sono in se stesse disponibili all’uso; le altre con cui possiamo condividere un orientamento al fine trascendentale.

La prima fattispecie è quella degli strumenti a cui ricorriamo nella nostra esistenza, per attuare i nostri progetti. La seconda, invece, è quella degli altri soggetti che incontriamo e dei quali può esserci un uti solo nel senso che ricorriamo ad essi per

260 «Grande domanda» (ibidem).

261 «Cum ergo quattuor sint diligenda, unum quod supra nos est, alterum quod nos sumus, tertium quod iuxta

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formare una societas – come quella di Agostino durante il ritiro a Cassiciacum –, attraverso la quale aspiriamo alla fruizione del bene trascendentale262. L’uti che è legittimo nei

riguardi degli altri esseri umani è ad societatem: è attraverso la vita comunitaria che si può mettere a tema, insieme, il bene in quanto tale, di cui è possibile l’autentico godimento – il frui.