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Il dottor Romero non era altro che un zelatore ma si faceva chiamare dottor Romero perché pensava, e forse a ragione, che i medici come i poliziotti e i preti, godono di un rispetto iniziale, di una confidenza immediata nei loro rapporti quotidiani vietata al resto della cittadinanza. In tutti e tre i casi, pensava il dottor Romero, questo rispetto non è altro che la conseguenza diretta della paura, e dato che è la paura e non l'amore, come pensano gli incauti, che fa girare il pollo, sarà meglio mettersi da questo lato dell'animale che dall'altro.

Ramón Romero, come tanti altri in questa città o in un'altra qualsiasi, si era rassegnato all'idea di vivere da solo. Non che l'amore non gli importasse, gli importava eccome, come a qualsiasi altro mammifero, è che semplicemente non era stato fortunato o magari non aveva cercato l'amore con abbastanza voga. Chi lo sa. La stessa cosa vale per l'amore, di cui si dice molto che tutto e niente suona bene e niente dice niente. «Se fossi un animale – pensava Ramón – sarei un maiale rosa e vivace e avrei quel pene lungo che hanno i maiali.» E pensando queste cose si rendeva conto Ramón che stava perdendo la testa e che una dieta a base di salsicce cucinate fredde non poteva essere salutare. «Afferrati, Ramón – si diceva mentre afferrava le lenzuola come aveva visto fare a sua madre –. La stanza cambierà». E subito si odiava per farlo, perché riconosceva in se stesso la radice della pazzia che portò sua mamma al corridoio di un instituto mentale. Per il quale la sentì trascinare i piedi con quel maledetto, rus rus, rus, con quel rumore stupido che facevano le sue ciabatte sul linoleo, con quel passo stanco e al tempo stesso demolitore.

Così che tra una cosa e l'altra, Ramón Romero, zelatore del centro di disintossicazione di Nuestra Señora de la Esperanza, colombiano, cattolico e compassionevole, stava perdendo la testa quando il caso Grumberg richiamò la sua attenzione. E se si abbandonò al maledetto caso con tanta passione, non fu per l'affetto verso il signor Grumberg, aveva visto tanti alcolisti nella sua vita che uno in

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più o uno in meno non cambiava, ma per affetto verso sé stesso. Perché bisogna fare qualcosa nei tempi morti. Perché, come diceva suo nonno: «Chi ha tempo non aspetti tempo». Bisogna anche riconoscere che Ramón Romero era molto curioso e

casinista come la pazza di sua madre e inoltre che il caso aveva swing. E swing nella

sua vita Romero ne aveva ben poco.

In fin dei conti non succede tutti i giorni che il caso metta uno alla strette di un enigma. Ramón Romero non aveva avuto altra soluzione, per lo meno così lo vedeva lui, che girare la chiave e attraversare la soglia. E ora girava dando tomboli nell'oscurità e non era il solo. Il caso Grumberg dava del filo da torcere ai detective di omicidi del distretto 14 ed era senza ombra di dubbio un caso decisamente strano: la morte apparentemente accidentale di un venditore di pianoforti chiamato Arnold Grumberg alla porta del suo piccolo negozio di compravendita nel distretto finanziario. Precisamente in via John, a pochi metri dalla City Hall e dalle Torri Gemelle.

L'avvenimento cominciava così.

Arnold Grumbberg era un uomo sbadato capace di uccidere una lucertola con una frusta, cioè, sbadato sì, ma temibilmente sicuro. Sua madre, la signora Grumberg, era una donna obesa che viveva da sola a Hoboken, New Jersey, e che chiamava suo figlio almeno sei volte al giorno, per cui non è da meravigliarsi che il povero Arnold finisse per avere un serio problema con l'alchool, che inabissò non solo una dozzina di relazioni che sembravano sane ma buona parte dei suoi affari. Una mattina d'inverno, Grumberg uscì dalla porta del suo locale sorseggiando una grande tazza di caffè e qualche secondo dopo giaceva morto.

La polizia incontrò il venditore di pianoforti steso a terra a testa in giù con la fronte incrostata nella sua tazza di porcellana. L'autopsia rivelò che l'uomo era morto a causa di una ferita incisiva profonda nel cranio. Sembra che Arnold Grumberg soffrì un qualche svenimento che gli fece perdere il controllo, in primo luogo della sua tazza di caffè e poi di tutto il suo corpo di modo che la tazza cadde prima per terra, si ruppe lievemente il bordo, rimbalzò fino a cadere in piedi giusto quando Grumberg crollava in avanti trasformando quello che sarebbe stato un forte

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colpo per terra in una morte sicura. Nonostante l'improbabilità di questa spiegazione, la polizia stava per archiviare il caso come morte accidentale. Le pagine di eventi successivi avrebbero incontrato un altro morto di cui occuparsi e se quello era un crimine, pensava il gruppo di omicidi: «non ci rimane altro che congratularci con il criminale». Arnold Grumberg era morto e tutti sembravano girarsi dall'altra parte. Bè, proprio tutti no. Questo stravagante accidente si stava trasformando in una sfida per il non meno stravagante Ramón Romero, assistente in una clinica di disintossicazione e futuro investigatore dilettante.

Romero ricorda di aver preso del caffè quella mattina affacciato alla finestra del suo piccolo appartamento della centottantaseiesima, in una tazza grande di porcellana non tanto diversa da quella che finì per ammazzare Arnold Grumberg e le coincidenze sarebbero terminate qui se non fosse che Arnold Grumberg era stato paziente del dottor Romero e aveva abbandonato la clinica da appena un mese.

Nel vedere la notizia nel The New York Post sotto il titolo «l'ultimo caffè», Ramón Romero ebbe la singolare sensazione di assurdo orgoglio che ci invade ogni volta che una disgrazia altrue si trasforma in una faccenda personale.

– Lo conoscevo – disse a una signora che viaggiava in metro al suo fianco, come se si vantasse di conoscere Barbra Streisand.

– Una piccola disgrazia piuttosto stupida – commentò la donna e quindi Romero, guardando prima da un lato poi dall'altro in modo teatrale, rispose:

– C'è di più.

– Di più? – domandò la donna.

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