Quando conobbi William Burroughs, l'autore di Almuerzo desnudo, viveva in un urinario pubblico e portava con sé due pistole. «Una per quando sono sveglio – mi disse – e l'altra per quando sogno.» L'urinario in questione si trovava nel Lower East Side tra avenue A e avenue B, in un quartiere che poi non centrava niente con il
bohemian chic degli anni novanta né con la zona in rapida espansione economica di
oggigiorno. William Burroughs, che gli amici chiamavano Bill, aveva allora settantasette anni e nonostante avesse sempre vissuto dal lato opposto di tutte le raccomandazioni elementari per la salute pubblica, aveva un bel aspetto o per lo meno il suo solito brutto aspetto. Lo stesso che aveva dai giorni di Jack, Allen e Gregory intorno alla fonte del giardino centrale dell'Università della Colombia nell'Upper Side West: vestito di tre pezzi e cappello di feltro su di un piccolo cranio e quella voce d'oltretomba che sembrava di un fantasma, agitando le mani esili che muoveva mentre parlava, come se stesse cercando di prendere un insetto invisibile.
Ci ricevette sulla porta dell'urinario con la gentilezza di un ambasciatore che riceve i suoi illustri invitati nella sua residenza estiva. Dato che l'odore sembrava non dargli il minimo fastidio, anche noi decidemmo di ignorarlo anche se non era facile, e siccome non fece nessuna considerazione sulla stranezza del posto, con la confusione costante di omosessuali che cercano contatti furtivi, nessuno di noi chiese nulla al riguardo.
– Alcuni giorni – disse Bill – ci sono tanti gatti per di qua che sinceramente è fastidioso, ma comunque..
Aspettammo qualche secondo ma dato che non aggiungeva niente, considerammo chiuso il tema dei gatti.
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Gli chiedemmo quindi sul libro di Dutch Shultz che in fondo era il motivo che ci aveva portato fino a lì, o almeno la scusa che ci eravamo dati per arrivare fino a lì, pur sapendo che Bill non parlava con nessuno di nessuna cosa.
Burroughs aveva pubblicato un libro intitolato Las ultimas palabras de Dutch
Shultz nel 1975 ed era uno dei suoi pochi lavori che non era stato tradotto in
finlandese, per questo pensammo di fare un'offerta per i suoi diritti. In realtà io era andato lì in veste di traduttore, cioè l'editore finlandese, che era anche il mio editore, a mala pena parlava l'inglese e in ogni caso era un uomo troppo timido per confrontarsi da solo con una leggenda.
Il libro in questione, Las ultimas palabras de Dutch Shultz, era proprio secondo Burroughs, una finzione sotto forma di sceneggiatura sugli ultimi due giorni di vita del mitico gangster: il tempo che trascorse Arthur Flegenheimer, questo era il suo vero nome, all'ospedale dopo essere stato crivellato di colpi nel Palace Chop House di Newark, nel New Jersey, sotto custodia della polizia e sottomesso a interrogatori dei quali uno stenografo seduto ai piedi di un letto prese nota di tutto.
Invece di informazioni vitali sui suoi alleati o sui suoi nemici, tutto quello che la polizia estrapolò da queste sessioni, furono gli ultimi deliri febbrili di un uomo che probabilmente aveva abbandonato il territorio della realtà già da tempo: «Mai più Kansas» secondo quanto intitolava il critico Alexander Nigzeiz nella sua rassegna di ottobre del 79 per Interzone Reviews, una rivista letteraria argentina che omaggiava il vecchio Bill in tutti e ciascuno dei suoi numeri. «Mai più Kansas» poteva dirsi anche proprio di Burroughs che a sua volta erano anni che abitava il proprio regno di Oz.
– Questi maledetti gatti – aggiunse Bill quando non ci aspettavamo altro riguardo a questo argomento – questi maledetti gatti sporcano tutto. – Nuova pausa. – Per quanto riguarda Shultz, è curioso che lo citi perché non so se ieri o la settimana scorsa ma comunque recentemente ho parlato con l'olandese.
Ovviamente immaginavamo che avesse parlato con l'olandese nei sogni, ma Bill si affrettò a distoglierci dall'errore.
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Pensavamo quindi che dovesse trattarsi senza dubbio del fantasma di Dutch, che perfino senza aver detto niente, offese Bill, che aggiunse:
– Solo gli stupidi credono ai fantasmi.
Ci rendemmo subito conto che potevamo avere una conversazione con Burroughs senza aver bisogno di aprire bocca e a qualunque cosa pensassimo conseguiva una sua risposta se lo riteneva conveniente.
– Può stare tranquillo – disse Bill, ascoltando di nuovo il rumore delle nostre impressioni.
Mentre lo diceva entrò un uomo ben vestito nell'urinario e Burroughs si scostò per lasciarlo passare, mentre ci faceva segno di seguirlo. Camminammo tutti insieme fino a una delle cabine dove un buco per terra fungeva da gabinetto.
– Non si sa mai – ci confidò, dopo aver chiuso la porta. – A volte sono finocchi, però a volte sono agenti.
«Federali?», ci chiedemmo mentalmente.
– E ancora peggio – rispose Bill. E poi portò l'indice alla bocca per indicare che dovevamo fare silenzio, e rimanemmo lì chiusi per un bel po' fino a che sentimmo un uomo gemere dall'altro lato della porta.
– Possiamo già uscire – disse Burroughs.
Una volta fuori vedemmo l'uomo ben vestito inginocchiato di fronte a un barbone con l'uccello fuori dai pantaloni, dentro la sua bocca.
– Non è un agente – ci disse Burroughs – però andiamo fuori in ogni caso, c'è chi non regge queste cose.
Uscimmo sulla avenue A e Bill indicò un bar sull'altro lato della strada.
– Venite con me, uomini – disse e poi, ricordandosi improvvisamente il motivo della nostra visita, aggiuse –: Dutch Shultz eh?