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Per Andreas, quello che più assomigliava alla felicità era il ritmo costante degli obblighi ineludibili che lo fissano al momento presente come gli spilli fissano le farfalle incorniciate. Ad ogni modo, per quanto uno non lo sopporti, a volte non c'è niente da fare se non pensare alle cose a cui uno non vuole pensare, in particolare nei giorni di pioggia. A questo pensava Andreas Ringmayer III quando suo figlio, Andreas Ringmayer IV esclamò: «Pesci volatili!» nel vedere una balena appesa alla volta centrale del Museo delle Scienze Naturali. Andreas Ringmayer III adorava il Museo delle Scienze Naturali ma comunque evitava di andarci, perché il museo con le sue meticolose riproduzioni della fauna e della flora dei cinque continenti, lo obbligavano a pensarci su e Andreas odiava pensarci su. Non solo perché è un uomo dalle idee poco chiare ma anche perché da un po’ di tempo a questa parte ogni volta che si metteva a pensare, o anche se non ci si metteva, anche se stava appunto provando a non pensare a niente, lo assaliva senza via di scampo non più il ricordo, ma la viva immagine di quelle diaboliche gemelle coreane.

«Eccole qui di nuovo», si disse Andreas nel vedere, al posto della tremenda balena azzurra sospesa con del sottile fil di ferro, i corpi nudi delle due ragazze curve in avanti, porgendo i petti, i quattro, come chi offre la frutta migliore al mercato.

– Demoni – disse Andrea, chiudendo gli occhi, ma questo non fece che moltiplicare la precisione dell'immagine, tanto che Andreas era sul punto di allungare la mani per toccare i seni, tutti e quattro, delle graziose coreane, e lo avrebbe fatto se suo figlio, il piccolo Andreas IV non lo avesse interrotto.

– Che hai papà? – domandò il bambino nel vedere suo padre fermo in mezzo alla Sala di Oceanografia del museo, premendo le palpebre chiuse e allungando le mani come se stesse cercando la maniglia in una stanza buia.

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– No, sono pesci volatili – disse quindi Andreas padre aprendo gli occhi – sono sospesi col fil di ferro; è una simulazione.

– Una cosa? – domandò il bambino.

– Una simulazione. Questa sala riproduce il fondo del mare, e questi pesci sospesi riproducono l'atto di nuotare e inoltre le balene non sono neppure pesci, sono mammiferi.

– Mammiferi?

– Sì figliolo, sì. Mammiferi. Come me e te.

– E come la mamma?

– Sì, figliolo, anche la mamma è un mammifero.

– E i cinesi?

– Cosa succede con i cinesi?

– Sono mammiferi anche loro?

– Sì, anche i cinesi.

– Ah.

Andreas non poteva capire cosa centravano i cinesi in tutto ciò e per un attimo temette che suo figlio fosse riuscito a percepire le sue impressioni, anche se sapeva che era impossibile e inoltre le gemelle non erano cinesi ma coreane. Ovvio che per un bambino di cinque anni non dev'essere semplice sapere la differenza. Soprattutto dato che nella sua immaginazione entrambe erano nude, senza vestito né niente. E perché tirare in ballo la mamma. Per quale motivo poi. In quel momento si rese conto che per un bambino tirare in ballo la mamma costantemente, che centrasse o meno, era la cosa più logica del mondo e tuttavia nella sua mente tutte quelle immagini, la balena, le gemelle nude, la mamma, i cinesi e i mammiferi, creavano un quadro mostruoso, come l'inferno di El Bosco, dove il sacro e il diabolico si mescolano senza nessun criterio, dove solo la parola «caos» sembra mettere le cose al proprio posto.

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«Bè ovvio che la mamma è un mammifero», si disse, e mentre lo pensava gli venne in mente l'immagine di sua moglie incinta come una vacca, già sul punto di dare alla luce il piccolo Andreas e come mentre faceva l'amore con lei, aveva provato in quei giorni un'enorme preoccupazione per la sua salute mentale, riconoscendosi al tempo stesso eccitato e schifato per quelle tette giganti e quel corpo gonfio ma robusto, che serbava dentro una replica di sé.

Andreas chiuse di nuovo gli occhi e li aprì e li chiuse un'altra volta cercando di liberarsi da quel ricordo. Ed era talmente concentrato in questa sua operazione che era sul punto di investire con il passeggino del bambino uno dei custodi del museo.

– Papà! – gridò il piccolo, e Andreas frenò di colpo urtando appena l'uomo con le rotelle posteriori.

– Faccia attenzione a dove cammina! – gli spiattellò il custode sistemandosi il berretto, come se l'accaduto fosse questione di vita o di morte. A ciò Andreas rispose senza pensarci due volte:

– E che senso ha nominare i cinesi maledetti!

– Per poi spingere con furia la maledetta carrozzina fuori dalla sala oceanica, in direzione di un altro ecosistema.

Andreas si fermò dietro una delle urne di cristallo incastrate che conteneva un magnifico diorama in scala reale di alcuni leoni che cacciavano gazelle nella savana.

Andreas figlio adorava il Museo delle Scienze Naturali e adorava più di tutto questi leoni che sembravano vivi, sospesi in un istante eterno, con le fauci aperte di fronte agli occhi minuti e terrorizzati delle gazelle.

Andreas padre, invece, provava per i leoni lo stesso disprezzo che per tutti gli altri animali. Per Andreas un leone era lo stesso che un topo, tutte le bestie sono meglio morte, era solito dire ogni volta che saltava fuori l'argomento, e in questa città, per una strana ragione, l'argomento esce spesso, perché la gente deve deviare il proprio affetto da qualche parte e a Manhattan c'è gente che parla dei suoi furetti con l'amore che in altre zone del mondo è riservato ai figli o ai parenti stretti. «Meglio morti?», aveva domandato sua cognata alla noiosa festa dei noiosi Henderson, con gli occhi stralunati e le mani che tremavano di rabbia. Solamente i

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motivi insignificanti e molto, molto lontani svegliano l'ira della gente sofisticata. «Meglio morti», aveva ripetuto Andreas, sorseggiando un martini e immaginandosi come l'ultimo bianco borioso dell'era post coloniale.

– È…detestabile – disse quindi la povera cognata prima di scoppiare a piangere, con le lacrime agli occhi, in direzione della cucina, dove le signore stavano divorando un sacco di cose senza la madre, come tartine di asparagi e avocado dolci.

Andreas sapeva di essere detestabile e si piaceva così, diceva cose detestabili e detestava quasi tutto, ma soprattutto, detestava sé stesso.

E proprio questo, pensava lui, firmava e siglava il suo lasciapassare, la sua licenza per detestare.

E cos'era che Andreas detestava più di tutto di sé stesso?

Il suo nome, è ovvio, che era lo stesso nome di suo padre e di suo nonno, e anche di suo figlio. Un nome dal suono ridicolosamente femminile, del quale non era riuscito a liberarsi dato che tra i Ringmayer era poco meno di una tradizione sacra. Un nome che passò dalle sue mani alle mani proprio di suo figlio come un regalo avvelenato del quale nessuno, tra i Ringamyer, potrà liberarsi. Ed era questo alla fin fine, la naturalezza della sua stirpe, un'incapacità manifesta per condurre le proprie vite e una capacità illimitata per la sopportazione e l'obbedienza. Quello che un Ringamayer decide non lo cambia un altro, e cosi si erano eternati man mano, la sorte, il lavoro (di avvocato) e perfino i gesti, tra gli uomini di una famiglia che in fondo non aveva niente da mettere al sicuro, né eredità né memoria illustre. I Ringmayer si passavano questo nome l'un l'altro come se fosse un forziere vuoto.

– Continente africano – disse a voce alta, leggendo il cartello che pendeva all'ingresso del padiglione – qui staremo bene.

E comunque non appena aveva finito di dirlo, la più dolce delle gemelle aprì le gambe davanti agli occhi della sua assurda immaginazione mentre abbassava le palpebre, come chi indica in silenzio il luogo esatto dov'è nascosto un tesoro.

– Zen Zen! – disse subito a voce alta, senza poterlo evitare e subito guardò suo figlio, temendo di aver già detto troppo.

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