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2.2 La scuola liberale classica del diritto penale

2.2.3 Criminologia critica

Le teorie che abbiamo appena analizzato, presentano una capacità interpretativa ristretta, come ad esempio il fatto che i conflitti culturali, non possono essere risolti solo con mezzi culturali. Esse non riconoscono che la percezione del comportamen- to di certi gruppi come criminale, dal punto di vista della cultura dominante di una società, presuppone l’esercizio di un potere di definizione da parte di gruppi ege- moni e un rafforzamento di tale potere attraverso gli strumenti offerti dal sistema penale (Baratta, 1983).

Queste prospettive, infatti, non consentono di porre correttamente il problema della distinzione tra un elemento soggettivo e un elemento materiale della realtà so- ciale che è la questione essenziale che segna insieme il progresso e la difficoltà della nuova criminologia critica: quella, cioè, di distinguere nell’oggetto stesso dell’os- servazione delle scienze sociali una sfera soggettiva nella quale operano i processi di costruzione ideale della realtà e una sfera materiale che riguarda la riproduzione delle condizioni strutturali dalle quali poi dipendono anche quei processi soggettivi (Baratta, 1983). La criminologia liberale contemporanea non è in grado di fornire una critica efficace ed organica dell’ideologia della difesa sociale e non è in grado di fornire, in sostituzione dell’ideologia negativa della difesa sociale, una ideologia positiva, cioè una anticipazione teorica e una strategia pratica capaci di guidare la prassi verso una posizione socialmente giusta, realistica e non meramente repres- siva del problema della devianza e del controllo dei comportamenti socialmente negativi. Essa anzi fornisce una nuova ideologia negativa razionalizzante ad un sistema repressivo più aggiornato rispetto al livello raggiunto dallo sviluppo della società capitalistica (Baratta, 1962).

La tesi dell’universalità del reato e del diritto penale implicita nelle teorie li- berali, è al centro della critica da parte degli autori che agiscono all’interno della nuova criminologia, o criminologia critica (Baratta, 1962). Oggi la criminologia critica si presenta come alternativa teorico-ideologica alla criminologia liberale. È una teoria materialistica, cioè economico-politica della realtà che trova le sue pre- messe in particolare, anche se non esclusivamente nelle opere di Marx, e insieme anche una teoria che mira a creare un nuovo modello in cui il rapporto tra scien- ze sociali e giurisprudenza non sia più solo un rapporto tra due scienze, ma un rapporto di condivisione di conoscenze in vista dell’adozione di adeguate opzioni politiche.

Questo corpo di teorie su cui si fonda la criminologia liberale contemporanea, si contrappongono all’analisi marxiana in quanto fondano la propria analisi sui rapporti di potere invece che, come Marx sulla sfera di produzione e sui rapporti di potere. Per queste teorie quindi il conflitto non è più un conflitto tra capitale e lavoro salariato, ma un conflitto che si sviluppa sul rapporto di potere, sulla partecipazione al potere o sull’esclusione da esso (Dahrendof, 1957).

2.2 – La scuola liberale classica del diritto penale

operai e management nell’impresa6, scambiando cosi gli attori dei processi eco- nomici (individui e gruppi), con i loro soggetti reali (il capitale, come processo sempre più internazionalizzato di sfruttamento e di accumulazione, e il lavoro sa- lariato, che non sono soltanto gli operai sindacalizzati ma anche le masse urbane e rurali diseredate e marginalizzate (Marx, 1967).

La criminologia critica quindi si caratterizza per il fatto di concentrare la propria analisi non nell’autore del reato, ma nelle condizioni oggettive, strutturali e funzio- nali che sono all’origine del fenomeno della devianza, quindi guardando non tanto alle cause della devianza criminale, quanto ai meccanismi sociali ed istituzionali attraverso i quali vengono realizzati i processi di selezione della criminalizzazione (Baratta, 1962).

Si parla di criminologia critica in riferimento quindi alla critica del diritto pena- le, cioè dei meccanismi di controllo sociale e di criminalizzazione primaria (mecca- nismo di produzione delle norme), criminalizzazione secondaria (azione degli organi inquirenti che si conclude con il giudizio) e infine il meccanismo di esecuzione della pena e delle misure di sicurezza. La criminologia critica quindi si caratterizza per la critica del diritto penale come diritto eguale per eccellenza in quanto (Baratta, 1962):

• il diritto penale difende con intensità diverse e in modo frammentato gli interessi di tutti i cittadini;

• la legge penale non è uguale per tutti, gli status di criminale sono distribuiti in modo diseguale tra gli individui, indipendentemente dalla dannosità sociale delle azioni e dalla gravità delle infrazioni alla legge.

Baratta nel suo libro, passando all’analisi della criminologia critica, dimostra la contraddizione di fondo del diritto borghese tra uguaglianza formale e disugua- glianza sostanziale, e quindi il fatto che i meccanismi selettivi di criminalizzazione sono una variabile dipendente dal diverso sviluppo del sistema economico in deter- minate aree o nazioni. Il diritto penale tende a privilegiare gli interessi delle classi dominanti, immunizzare dal processo di criminalizzazione comportamenti social- mente dannosi tipici degli individui ad esse appartenenti e tende ad indirizzare il processo di criminalizzazione soprattutto verso forme di devianza tipiche delle classi subalterne. Ciò avviene non soltanto con la scelta dei tipi di comportamenti assunti a fattispecie e con la diversa intensità di minaccia penale, che spesso sta in relazione inversa con la dannosità sociale dei comportamenti, ma con la stessa formulazione tecnica delle fattispecie.

6Coser L.A. (1956), The functions of social conflict, Glencoe, III (Trad. It. Le funzioni del

conflitto sociale, Milano 1967), in Baratta A. (1982), Criminologia critica e critica del diritto penale, il Mulino, Bologna.

Le massime ciance di essere selezionati per far parte della popolazione criminale appaiono infatti concentrate, come abbiamo visto anche dai dati nel capitolo prece- dente, nei gradini più bassi della scala sociale (sotto-proletariato, gruppi marginali). La posizione precaria nel mercato del lavoro (disoccupazione, sotto-occupazione, mancanza di qualificazione professionale) e difetti di socializzazione familiare e scolastica, che sono caratteristiche degli appartenenti ai livelli sociali più bassi e che nella criminologia positivistica e in buona parte di quella liberale contempo- ranea sono indicati come le cause della criminalità, si rivelano essere piuttosto dei connotati sulla base dei quali gli status di criminale vengono attribuiti (Baratta, 1962).

Quindi non solo le norme del diritto penale si formano e si applicano seletti- vamente rispecchiando i rapporti di diseguaglianza esistenti, ma il diritto penale esercita anche una funzione attiva, di riproduzione e di produzione, rispetto ai rapporti di diseguaglianza. In primo luogo, l’applicazione selettiva delle sanzioni penali stigmatizzanti, e specialmente del carcere, è un momento sovrastrutturale essenziale per il mantenimento della scala verticale della società. Incidendo nega- tivamente soprattutto sullo status sociale degli individui appartenenti agli strati sociali più bassi essa agisce in modo da contrastare la loro ascesa sociale. In secon- do luogo, ed è questa una delle funzioni simboliche della pena, la punizione di certi comportamenti illegali serve a coprire un numero sempre più ampio di comporta- menti illegali che restano immuni dal processo di criminalizzazione. In tal modo l’applicazione selettiva del diritto penale ha come risultato collaterale la copertura ideologica di questa stessa selettività (Baratta, 1962).

Ancora più essenziale, secondo Baratta, appare la funzione realizzata dal carcere nel produrre non solo il rapporto di diseguaglianza, ma gli stessi soggetti passivi di questo rapporto. Ciò appare chiaro se si considera il rapporto capitalistico di diseguaglianza anche e soprattutto come rapporto di subordinazione, legato strutturalmente alla separazione della proprietà della forza lavoro da quella dei mezzi di produzione e d’altra parte alla disciplina, al controllo totale dell’individuo richiesto dal regime del lavoro nella fabbrica e più in generale dalla struttura del potere in una società che della fabbrica ha assunto il modello. Il nesso storico tra carcere e fabbrica, tra introduzione del sistema carcerario e trasformazione di una massa indisciplinata di contadini cacciati dalla campagna e separati dai propri mezzi di produzione, in individui adatti alla disciplina della fabbrica moderna, è un elemento essenziale per comprendere la funzione dell’istituzione carceraria, che nasce insieme alla società capitalistica e ne accompagna la storia (Rusche, Kirchheimer, 1968).

In una sua fase più avanzata questo elemento però non è più sufficiente ad il- lustrare il rapporto attuale tra carcere e società, ma esso ne rimane comunque la matrice storica e in tal modo continua a condizionarne l’esistenza. Oggi il carcere produce, reclutando soprattutto dalle zone più depresse della società, un settore di emarginazione sociale particolarmente qualificato dall’intervento stigmatizzante