2.6 Verso un sistema penale senza carcere?
3.1.1 Teoria della prevenzione integrazione
La teoria della prevenzione – integrazione utilizza la concezione luhmaniana del diritto come strumento di stabilizzazione del sistema sociale, di orientamento del- l’azione e di istituzionalizzazione delle aspettative2.
La violazione della norma è socialmente disfunzionale non tanto perché sono lesi determinati interessi o beni giuridici, ma perché è messa in discussione la norma stessa in quanto orientamento dell’azione e, di conseguenza, è scossa la fiducia istituzionale dei consociati (Luhmann, 1983).
La pena è prevenzione – integrazione nel senso che la sua funzione primaria è esercitare il riconoscimento delle norme e la fedeltà nei confronti del diritto da parte dei consociati3.
Come strumento di prevenzione positiva la pena tende a ristabilire la fiducia e a consolidare la fedeltà all’ordinamento giuridico, prima di tutto nei terzi e, possibilmente, anche nell’autore della violazione. La prevenzione speciale, la rie- ducazione dell’autore della violazione, non è dunque la funzione principale, ma solo un possibile augurabile effetto indotto dalla punizione (Jakobs, 1983).
Dopo la seconda guerra mondiale il pensiero penalistico si sviluppa verso una ideologia utilitaristico-umanistica della pena, nell’ambito della quale viene posta in primo piano la funzione di risocializzazione, assai lontano quindi dalla teoria della prevenzione – integrazione. Ma, contemporaneamente a questo movimento ideolo- gico che culmina, tra l’inizio e la metà degli anni Settanta, con l’affermazione della funzione re-istituzionale e sociale dei Paesi europei, la realtà istituzionale, in parti- colare le istituzioni totali, si rivelano, alla luce dell’esperienza, ed anche di controlli empirici più attenti, come assolutamente inadeguate, anzi addirittura contrarie, agli scopi di rieducazione e reinserimento sociale del condannato (Pavarini, 1978). Nello stesso tempo la crisi dello Stato assistenziale, che comincia proprio nel momento in cui l’ideologia rieducativa tocca la sua punta più alta nel pensiero pe- nale di tutti i paesi occidentali, diminuisce la disponibilità e le risorse dei governi necessarie a perseguire lo scopo umanitario, anche se impossibile, di una conversio- ne funzionale del sistema penale in un sistema di reinserimento sociale dei soggetti condannati. Le crescenti esigenze di disciplina legate ad un aumento della popo- lazione emarginata o in posizioni precarie nel mercato del lavoro e all’estendersi
2Luhmann N. (1981), Gerechtigkeit in den Rechtssystemen der modernen Gesellschaft, in
Ausdifferenzierung des Rechts, in Baratta A. (1982), Criminologia critica e critica del diritto penale, il Mulino, Bologna.
3Jakobs G. (1983), Strafrecht. Allgemeiner Teil. Die Grundlagen und die Zurechnungslehre,
De Gruyter, Berlin, New York, in Baratta A. (1982), Criminologia critica e critica del diritto penale, il Mulino, Bologna.
3.1 – Teorie “relative” o “utilitaristiche” della pena
di movimenti di protesta politica privi di canali istituzionali, l’esplosione del fe- nomeno del terrorismo, si accompagnano alla constatazione scientifica dello scacco della ideologia penitenziario – educativa, producendo in tutto il mondo occidentale una profonda crisi di questa ideologia: l’ideologia penale si riassetta quindi nella frontiera della funzione puramente dissuasiva e repressiva della pena, in una nuova fondazione neoclassica o retribuzionistica del sistema penale (Pavarini, 1980, Otto, 1982).
Il condannato in quest’ottica diventa il “sostrato psicofisico” della funzione punitiva, il soggetto ai costi del quale essa si realizza (Jakobs, 1983).
L’esercizio del riconoscimento delle norme da parte non di una minoranza di potenziali devianti, ma da parte dei soggetti conformi è, secondo Jacobs, lo scopo principale della punizione inflitta ai colpevoli (Jakobs, 1983). In una tale visione tecnocratica della funzione pedagogico – sociale della pena tutti i consociati sono considerati soprattutto come potenziali fattori di disordine. Prima di essere sog- getti di diritti essi sono oggetto di prevenzione, destinatari perciò di una azione dello Stato che deve servire ad esercitare il loro la sicurezza e la fiducia nel diritto (Smaus, 1985).
La teoria della prevenzione – integrazione ha portato alla sostituzione del prin- cipio della risocializzazione con quello della prevenzione generale positiva. Inoltre questa teoria legittima il principio di selettività del sistema e dei processi di im- munizzazione dalla risposta penale che sono strettamente dipendenti dal grado di visibilità sociale della criminalità in una determinata società. Infine, la teoria della prevenzione – integrazione svolge una funzione conservativa e legittimante nei con- fronti delle attuali tendenze di diffusione e intensificazione della risposta penale ai problemi sociali, appartenenti al modello tecnocratico del sapere sociale e che risul- ta alternativo al modello critico, al quale oggi sono ispirati la criminologia critica e i movimenti per una riforma radicale e alternativa al sistema penale (Baratta, 1984).
Ma la crisi dell’ideologia rieducativa è stata anche soprattutto il segno della inadeguatezza dello strumento penale nei confronti di un’esigenza sociale e poli- tica che potrebbe (e dovrebbe) guidare l’intervento istituzionale nei confronti dei problemi e dei conflitti di devianza. Il “reinserimento” del deviante, quale idea gui- da di interventi istituzionali, potrebbe essere realizzato a due condizioni (Baratta, 1984):
• La prima è che venga definitivamente abbandonata l’illusione di poter “rie- ducare” all’interno del sistema penale: all’interno del sistema penale, e so- prattutto attraverso istituzioni totali come il carcere, il principio della pe- na risocializzante, sancito dall’art. 27 della Costituzione italiana, assume il carattere di una norma impossibile.
• La seconda condizione è che venga reinterpretato il concetto di “reinserimen- to sociale” nel quadro più generale dei principi costituzionali che ispirano lo
Stato sociale di diritto, ed in particolare del principio dinamico di eguaglian- za e del principio della dignità dell’uomo. Essi postulano l’eliminazione delle condizioni che impediscono la realizzazione di una reale uguaglianza di ciance tra gli individui e della dignità di ciascuno (art. 2 e 3 Costituzione italiana). In questo senso il reinserimento non significa manipolazione del soggetto alla luce di una tavola di valori autoritariamente imposta, ma soprattutto riorga- nizzazione e reintegrazione sociale dell’ambiente stesso in cui si sono prodotti gravi conflitti di devianza. In una simile reinterpretazione del principio del “reinserimento” l’oggetto del trattamento (penale o post – penitenziario) si trasforma in soggetto di diritti sociali.
Il progresso potrebbe essere visto solo in una critica dell’ideologia rieducativa accompagnata dalla creazione di strumenti alternativi a quelli del diritto penale, che incontrino i conflitti di devianza alla loro origine e siano compatibili con la reitegrazione sociale dell’autore, della vittima e dell’ambiente (Baratta, 1984). In quest’ottica assume rilievo importante il principio del garantismo, cioè della limita- zione formale del sistema penale nei confronti delle prerogative costituzionali della libertà e dell’autonomia dell’individuo; e il principio dell’alternativa progettuale, che indica l’esigenza di un’articolazione autonoma dei bisogni di tutela da parte dei portatori stessi di bisogni a tutti i livelli della scala sociale ed in particolare nei livelli inferiori, in cui sono collocate le classi subalterne: l’esigenza, cioè, di favorire forme di costruzione e gestione dei problemi e dei conflitti della devianza non dal punto di vista dell’interesse della conservazione del sistema sociale, ma da quello dell’emancipazione dell’uomo (Baratta, 1983).
Con la critica della realtà se ne mette in dubbio la “normalità” sostituendo questa con il progetto di una normalità alternativa: il progetto di un cambiamento delle relazioni materiali e della morale dominante. In questa posizione è utilizzato un codice ideologico, alternativo a quello di cui si serve il potere per legittimare la realtà esistente, che è il pensiero dialettico e “l’utopia concreta” che si rifanno ad una lettura umanistica di Marx. Tuttavia, la storia del sapere sociale mostra che i progetti alternativi delle classi subalterne nella loro lotta per l’emancipazione sono tanto più efficaci quanto più vera è la rappresentazione della normalità progettata. Ciò conduce a mettere in evidenza la base conoscitiva essenziale ad ogni progetto di liberazione (Baratta, 1984).