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In letteratura è possibile rintracciare un numero realmente impressionante di analisi e di studi volti a sondare le cause e le conseguenze delle patologie che affliggono la democrazia rappresentativa e che sembrano essere una costante di tutti i paesi dell’Occidente, ivi compresi quelli di più antica tradizione rappresentativa.

Non ritenendosi questa la sede per una trattazione di ampio respiro delle suddette tematiche e volendo qui esclusivamente sondare il sostrato che ha indotto la disseminazione167 delle pratiche partecipative,

ci limitiamo a delineare i caratteri che prioritariamente connotano la “crisi” della democrazia elettorale168.

Come si faceva cenno nell’introduzione169, è opinione diffusa

nella scienza giuridica e nelle altre scienze sociali che il momento d’effettivo inizio della crisi della rappresentanza coincida, paradossalmente, con quello in cui le democrazie occidentali hanno trionfato sul blocco socialista. Invero, andando oltre la mera coincidenza storiografica, occorre chiarire come le ragioni profonde della perdita di accountability politica non dipendano dalla scomparsa del “nemico” orientale, bensì possano rintracciarsi in dinamiche interne al sistema capitalistico.

167 Il termine, come noto, è preso a prestito da U.ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa,

cit., p. 313, ove viene impiegato per descrivere il fenomeno di circolazione e di diffusione mondiale delle pratiche di democrazia partecipativa.

168 È stato infatti osservato che la democrazia, sia nella sua accezione antica, sia in quella

moderna, è una forma naturalmente soggetta a crisi: essa sarebbe sempre soggetta a tensioni e contrasti. Tuttavia, ciò che attualmente s’intende per “crisi” è da riferirsi alle difficoltà in cui versa la democrazia; difficoltà che possono comportare l’arretramento ad un sistema che democratico non è. In questi termini, M.SALVATI, La democrazia è in crisi. C’è qualcosa di

nuovo?, in Il Mulino, 2016, 6, pp. 967 ss. 169 Supra nelle pagine d’introduzione.

Fra queste rivestono un ruolo di primazia, sul finire degli anni ’70, la messa in discussione del welfare state170 e la decelerazione della crescita economica. È stato, non per nulla, osservato che nei decenni precedenti – quelli definiti come i “trenta gloriosi”171, ossia gli anni che

intercorrono tra la fine del secondo conflitto mondiale e la metà degli anni ’70 – il grande sviluppo dei sistemi politici capitalistici fosse prevalentemente ascrivibile al rapido incremento del benessere piuttosto che alla democraticità del partito di massa172.

Di converso, l’arresto dello sviluppo economico ha indotto, negli anni ’80 del XX secolo, la classe politica dominante dei paesi leader a livello planetario ad inaugurare politiche neoliberiste d’incentivazione del mercato a scapito delle politiche sociali. Di questo fenomeno sono massima espressione gli esecutivi guidati da Ronald Reagan negli Stati Uniti e da Margaret Thatcher nel Regno Unito173, successivamente

seguiti dagli altri Paesi del mondo occidentale.

Il crollo delle policies socioassistenziali, pur nel meritorio intento di rivitalizzare il mercato, ha di fatto comportato grave nocumento in primo luogo ai ceti più deboli e, successivamente, a seguito della crisi

170 D.HELD, Modelli di democrazia, Bologna, 1989, p. 282-283, evidenzia che negli anni

successivi alla vittoria degli alleati talune evenienze storiche (quali la piena occupazione, la fiducia nei nuovi sistemi costituzionali, il timore di un conflitto nucleare, la volontà di promuovere il bene collettivo) hanno ingenerato una diffusa fiducia nella democrazia occidentale. All’opposto, a metà degli anni ’70, il venir meno della crescita economica ha indotto la politica a ripensare al modello keynesiano dello Stato interventista e la prima conseguenza è stata una fitta critica (da destra e da sinistra) del welfare state. Similmente, C. TRIGLIA, Tipi di democrazia e modelli di capitalismo: un’agenda di ricerca, in Stato e

mercato, 2016, 2, pp. 192 ss., da un lato, osserva che taluni fattori produttivi e tecnologici

affermatisi sempre negli anni ’70 hanno avuto come conseguenza la fine del fordismo e la spaccatura della classe operaia e l’indebolimento della contrattazione; da un altro lato, evidenzia l’aumento dell’onerosità del sistema di assistenza sanitaria. Considerazioni analoghe e approfondite sulle coincidenze politiche, economiche e sociali che caratterizzarono lo Stato del benessere sono riportate da M. SALVATI, Max Weber:

capitalismo, liberalismo, democrazia, in Stato e mercato, 2015, 2, pp. 236 ss. 171 M.SALVATI, Max Weber: capitalismo, liberalismo, democrazia, cit., p. 230. 172 M.SALVATI, La democrazia è in crisi. C’è qualcosa di nuovo?, cit., p. 970.

173 In merito, M.L.SALVADORI, Democrazie senza democrazia, cit., pp. 54 ss., e M.SALVATI, Max Weber: capitalismo, liberalismo, democrazia, cit., p. 237.

economico-finanziaria del 2007, anche nella classe media: con la conseguenza di abbassare il tasso di gradimento politico di settori trasversali della popolazione.

Siffatte politiche, in grado di avvantaggiare il mondo della finanza e della speculazione, come può facilmente dedursi, hanno contribuito non poco alla sfiducia nei confronti della classe politica da parte di vastissimi strati della popolazione, poiché la carenza di democraticità non era più compensabile con il benessere economico: in estrema sintesi, il recesso dello Stato assistenziale ha ingenerato fenomeni di marginalizzazione e di scarsa inclusione174.

Il dato che in queste pagine riveste maggior interesse è, ad ogni modo, quello della perdita di efficacia della mediazione partitica, dovuto non solo alle vicende economiche dello Stato nazionale, ma anche alla scomparsa delle ideologie novecentesche e all’affermarsi d’istanze sovranazionali175. In tal senso, la “partecipazione al processo

democratico”176 è stata smorzata tanto dalla progressiva perdita del

consenso – che ha determinato l’aprirsi di una voragine tra il partito di massa e la sua base sociale – quanto dalle pressioni di gruppi d’interesse177, tesi a far prevalere finalità particolaristiche a discapito dell’interesse collettivo.

174 C.TRIGLIA, Tipi di democrazia e modelli di capitalismo: un’agenda di ricerca, cit., p.

193.

175 Così, C.CROUCH, Capitalism, inequality and democracy, in Stato e mercato, 2016, 2, p.

176, afferma che il capitalismo, di per sé, non è la sola causa che determina la presenza d’interessi corporativi nel sistema democratico: «another, which has been prominent in the

debate, is the effect of globalization, which enables capitalism to operate at levels non easily withion the reach of democracy, which largely remains stubbornly national». Considerazioni

circa la connessione tra partiti politici, partecipazione e sovranità dello Stato nazionale sono espresse da G.DI COSIMO, Popolo, Stato, sovranità, in Dir. cost., 2018, 1, p. 20 in particolare.

176 M.SALVATI, La democrazia è in crisi. C’è qualcosa di nuovo?, cit., p. 967.

177 Si vedano anche le considerazioni di M.KRIENKE, Costituzione e consenso morale. Il fondamento etico della democrazia tra Antonio Rosmini, Antonio Gramsci e Rocco Montano,

in Intersezioni, 2018, 1, p. 22. Analogamente, J.P.MCCORMICK, La crisi della democrazia

Conseguentemente e a differenza dei “trenta gloriosi”178, si assiste

oggi ad una relazione disincantata tra cittadino ed eletti: relazione nella quale, se al primo non è più garantito sperare in un futuro ottimistico, i secondi non sono nelle condizioni di prospettare credibilmente il raggiungimento di un benessere duraturo.

Questa dinamica d’incertezza e d’instabilità è, pertanto, da collocarsi all’origine – unitamente ad altre concause, quali il malcostume di taluni rappresentati – della diffusa sfiducia nella politica e, più in generale, nel sistema elettivo179, ritenuto responsabile del

malessere della società.

Partiti, rappresentanti e modello partitico sono percepiti come inadatti alla mediazione tra istanze popolari e determinazione della scelta pubblica: non solo, ma gli stessi divengono bersaglio dell’accusa di selezionare opzioni non solo mediocri, ma addirittura dannose per la collettività.

Tutto ciò non scaturisce solamente nel già di per sé grave declino della classe politica in termini d’inadeguatezza ad assicurare la corrispondenza tra interesse generale e politiche pubbliche180, ma sfocia

le democrazie elettorali, lungi dall’assicurare la libertà dei cittadini, sembrano incoraggiare l’arricchimento di gruppi di pressione (o oligarchie) politiche ed economiche.

178 Soprattutto gli anni ’50 e ’60, denotati da un diffuso consenso sociale (D.HELD, Modelli di democrazia, 1989, cit., pp. 281 ss.), ma caratterizzati – lo si precisa – da modelli

democratici che erano al massimo rappresentativi e non certo partecipativi in senso proprio (in tal senso, S.BIASCO, I caratteri variegati della democrazia, in Il Mulino, 2016, 6, pp. 999 ss.).

179 Parallelamente alla fine del fordismo in economia e al crollo del welfare state, si deve

ricordare che anche la struttura partitica ha subito una trasformazione strutturale: da grande apparato modellato sulla base sociale a macchina elettorale. In altri termini da partito kelseniano a partito schumpeteriano (sul punto, ex multis, A.MASTROPAOLO, Crisi dei partiti

o decadimento della democrazia?, in www.costituzionalismo.it, 2005).

180 In merito, F.VISCONTI, The legislative representation of public opinion policy priorities in Italy, in Riv. it. sc. polit., 2018, p. 3, il quale afferma che «to function properly, a democratic political system needs not only to transform the desires of electorate into policy outcomes, but also to represent its main policy priorities».

in un vero e proprio timore – dilagante soprattutto nei ceti più fragili – che la scelta politica sia assunta a detrimento del benessere collettivo.

Si palesano, per simile via, due pericoli per la democrazia: il primo è quello del populismo; il secondo, che a noi maggiormente interessa, è lo svilupparsi di tecniche di autodifesa o di assoluto rifiuto che paralizzano il meccanismo democratico e vanno sotto il nome delle citate “sindromi” NIMBY181 o BANANA182.

Mentre il populismo183 è problema che attiene al sistema partitico

nella sua interezza ed è denotato da plurime cause, le tendenze di autodifesa e di rifiuto incondizionato della decisione pubblica/amministrativa sono pertinenti con le tematiche studiate in questo lavoro.

L’immobilismo della politica, l’inadeguatezza della mediazione e la conseguente delega della decisione ad organi tecnici espongono indubbiamente la democrazia rappresentativa ad una impressionante sfiducia, ma parimenti la investono di richieste di maggiore apertura verso il basso. Quest’ultima consiste in un’istanza di maggior partecipazione che, come visto, non può essere sodisfatta dalla democrazia diretta, ma può di converso realizzarsi con le pratiche di democrazia partecipativa.

181 Un richiamo alla sindrome NIMBY è anche in A.BELTRAN, Energia e democrazia politica. Qualche spunto storico, in Ricerche di storia politica, 2018, 1.

182 Supra § 6.

183 Sull’analisi del populismo: J.P.MCCORMICK, La crisi della democrazia contemporanea e il grido di dolore populista, cit., p. 543 in particolare, il quale osserva come il rischio di

populismo vi sia sempre in regimi democratici connotati da un basso grado di partecipazione. In generale, sul tema anche A.MASTROPAOLO, Democrazia e populismo, in M. Bovero - V. Pazè, La democrazia in nove lezioni, Roma-Bari, 2010, pp. 64 ss.; G.L. VACCARINO, Il