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2 La responsabilità degli enti per i reati ambientali

2.3 I criteri di imputazione oggettiva

Affinchè la persona fisica possa impegnare, con la propria condotta, la responsabilità dell’ente occorre che agisca, con terminologia di stampo civilistico, in nome

e per conto di questo, onde poter attivare quel meccanismo di immedesimazione organica

che consente di ritenere il reato da essa commesso quale reato (anche) della società.

A tal fine, un primo e necessario (ma non sufficiente) requisito è che a commettere il reato base siano soggetti qualificati, opportunamente individuati dal legislatore delegato secondo un approccio di tipo oggettivo-funzionale piuttosto che alla stregua di un criterio “nominalistico”, e sulla scorta di una distinzione tra apici e sottoposti determinante in vista del regime applicabile tra quelli di cui, rispettivamente, agli artt. 6 e 7.

In particolare l’art. 5, alla lettera a) del comma 1, indica tra i potenziali autori del reato presupposto in posizione apicale le <<persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché […] persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso>>; alla lettera b) estende il novero dei soggetti attivi alla categoria delle <<persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)>>.

Ebbene, la ricordata valenza dell’individuazione della partizione gerarchica cui ascrivere la persona fisica autrice del reato presupposto suggerisce l’opportunità di identificare le posizioni funzionalmente evocate dalla norma.

Relativamente agli apici, il primo riferimento è alle funzioni di rappresentanza, rispetto alle quali occorre distinguere tra rappresentanza organica, con conseguente apicalità del ruolo di chi ne è dotato, e rappresentanza volontaria (conferita per atto negoziale di procura) la quale, postulando un obbligo di rendiconto, confluisce nella categoria di cui alla lettera b)176.

Quanto alle funzioni di amministrazione, è appena il caso di rilevare che i poteri gestori spettanti all’amministratore lo collocano indubbiamente in posizione apicale.

Meno agevole si presenta il compito dell’identificazione delle funzioni di direzione, nondimeno è possibile osservare quanto segue: i direttori generali sono normalmente

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lavoratori subordinati dell’impresa, ma possono anche non esserlo; inoltre, è ben vero che essi sono sottoposti alle direttive del consiglio di amministrazione ma è altrettanto vero che, soprattutto nelle realtà societarie di grandi dimensioni, spesso vengono ad assumere un ruolo operativo di importanza pari, se non addirittura superiore, a quello degli amministratori, il che ne giustifica ampiamente il rango apicale.

La carenza di poteri suscettibili di impegnare la voluntas societatis è, invece, alla base dell’esclusione dei sindaci dalla cerchia dei soggetti attivi del reato presupposto177; e tanto dovrebbe dirsi relativamente ai componenti del consiglio di sorveglianza nel sistema dualistico, a patto che a tale organo non siano statutariamente attribuiti poteri deliberativi <<in ordine alle operazioni strategiche e ai piani industriali e finanziari predisposti dal consiglio di gestione>> ex art. 2409-terdecies, lett. f-bis) c.c., il che comporterebbe una significativa ingerenza nella gestione dell’impresa, tale da proiettarne il ruolo in una dimensione apicale178.

Le predette funzioni di rappresentanza, amministrazione e direzione, poi, designano l’apicalità del ruolo anche di chi sia preposto ad un’articolazione periferica dell’ente, purchè dotata di autonomia finanziaria e funzionale. Si allude in particolare alla figura del

direttore di stabilimento (o di filiale), la cui collocazione tra gli apici ai sensi dell’art. 5,

comma 1, lett. a) deve, secondo l’opinione prevalente, essere sorretta da una serie di condizioni fattuali individuabili alla stregua degli indici offerti dalle norme in materia di salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro: a tal fine, infatti, occorre soprattutto che l’«unità organizzativa» goda di una effettiva autonomia finanziaria ed operativa e che il potere di spesa sia congruo rispetto agli obiettivi perseguiti.

Infine, nella formula della lettera a) risalta l’equiparazione tra apici di diritto, formalmente investiti delle funzioni che importano l’esercizio di poteri di gestione e controllo dell’ente, e apici di fatto i quali, carenti di investitura formale, operano in concreto esercitando i medesimi poteri di gestione e controllo. Tale ultima categoria empirica ricomprende situazioni eterogenee: si pensi all’amministratore il cui processo di

177 Al netto delle ipotesi di commissione di reati propri da parte dei sindaci i quali, afferendo a specifiche

aree di competenza gestionale ad essi affidate, sono suscettibili di essere ascritti alla persona giuridica rifluendo nel paradigma dei soggetti apicali. Così S.GENNAI-T.TRAVERSI, La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Commento al D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2001, 43

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investitura sia invalido o incompleto, ovvero al <<socio non amministratore, ma detentore della quasi totalità delle azioni, che detta dall’esterno le linee della politica aziendale e il compimento di determinate operazioni>>179; in definitiva, ad ogni soggetto che eserciti un penetrante dominio sull’ente la cui verifica suggerisce, anche in questo caso, il ricorso ad elementi sintomatici quali il carattere continuativo e significativo dell’intervento180. Tali considerazioni, unitamente ad una necessaria lettura tassativa del dato normativo, ove la congiunzione e che lega il controllo alla gestione della società ne esige il cumulo in capo al soggetto affinchè questi possa assurgere ad apice di fatto, esclude la rilevanza di quelle figure, come i sindaci di fatto (categoria neppure ben profilata nella prassi), che svolgono funzioni di mero controllo.

Il rapporto di immedesimazione organica, che ordinariamente si instaura tra ente e

titolare dell’ufficio può, secondo l’insegnamento della dottrina amministrativista,

configurarsi anche in relazione agli addetti i quali, benché non ne siano investiti, sono tuttavia incardinati nell’ufficio per prestarvi la propria opera in sottordine, <<e “sono” anch’essi “l’ufficio” allorchè agiscono nell’esercizio dei loro compiti>>181.

Di qui l’inclusione, ex art. 5, comma 1, lett. b), nell’area dei soggetti “fisici” che con la loro condotta possono attivare la responsabilità ex crimine dell’ente, delle <<persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)>>.

D’altra parte, valorizzando la preferenza accordata dal legislatore al profilo funzionale, ad onta di quello dell’appartenenza all’organizzazione, si è anche ritenuto che la responsabilità dell’ente potrebbe essere incardinata dalla commissione di reati da parte di soggetti a questo estranei (consulenti, collaboratori, ecc.), in occasione di incarichi ad essi affidati e da eseguire sotto la direzione ed il controllo di soggetti apicali dell’ente

179

Relazione, cit., § 3.2

180

C. BERNASCONI-A. PRESUTTI, Manuale della responsabilità degli enti, cit., p. 69. Gli autori offrono una definizione dei due requisiti: “la continuità indica un’attività gestionale protratta nel tempo ed esclude una ingerenza episodica, la significatività si esplica sia in una prospettiva interna (l’attività gestionale dell’amministratore deve riguardare aspetti importanti e rilevanti nell’attività istituzionale dell’ente), sia in una proiezione esterna (l’attività di costui riveste una portata cogente per i terzi e gli interlocutori dell’ente)”

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medesimo182. Un discorso analogo, infine, potrebbe valere per la nuova figura dei

management contracts nei limiti in cui dispongono l’attribuzione di poteri legati alla

gestione quotidiana (day-to-day operation) ad altra società che offre servizi di

management, con il limite della indelegabilità dei poteri di direzione e controllo, i quali

devono permanere in capo agli amministratori.

L’identificazione e la classificazione dei soggetti che possono impegnare la responsabilità della societas alla stregua delle due categorie contemplate dall’art. 5, comma 1 del decreto, si è detto, è operazione necessaria ma non ancora sufficiente ad integrare l’imputazione, sul piano oggettivo, del reato all’ente.

Così, già la legge delega n. 300 del 2000 stabiliva che la responsabilità della persona morale dovesse scaturire dalla commissione di reati nel suo interesse o a suo

vantaggio, con una soluzione poi trasfusa proprio nella vigente norma del primo comma

dell’art. 5 del decreto n. 231.

Detto ciò, è opportuno chiarire da subito che i due termini evocano concetti distinti183, il che è evidenziato dall’uso della disgiuntiva «o» nella formula adottata.

In particolare, la nozione di interesse ha una connotazione marcatamente soggettiva, imponendo di apprezzare la condotta della persona fisica che agisce sul piano della direzione finalistica, quindi, della volontà, ma nella sua dimensione oggettiva, con accertamento prognostico ex ante184.

Per converso, il vantaggio indica il beneficio obiettivamente prodotto dalla commissione del reato presupposto e acquisito dall’ente: quanto richiede necessariamente una verifica ex post.

Dunque, la rigorosa adesione alla lettera della norma prospetta un’autonomia funzionale dei due requisiti, tale per cui il ricorrere di anche solo uno di questi sarebbe sufficiente ad incardinare la responsabilità della persona giuridica.

In realtà, la conclusione che precede pare smentita dalla previsione di cui al comma 2 dello stesso art. 5, per la quale la società non risponde se le persone indicate al comma 1

182 D.P

ULITANÒ, La responsabilità da «reato» degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002,

p. 415 ss

183

In tal senso v. Cass. pen., sez. II, 30 gennaio 2006, n. 3615, in www.alalex.com

184 Cass. pen., sez. V, 15 ottobre 2012, n. 40380; nella giurisprudenza di merito, si veda Trib. Trani, sent. 26

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hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi: orbene, ai fini della responsabilità dell’ente non si richiede che l’illecito sia commesso nel suo interesse esclusivo o prevalente ma, quand’anche l’autore abbia agito nel proprio interesse personale, occorre comunque che tale interesse sia quantomeno coincidente con quello della societas dal momento che, diversamente, si assisterebbe all’interruzione di quello schema di immedesimazione organica che consente di imputare il reato alla stessa.

Ne viene, allora, che ove non sia ravvisabile neppure un parziale interesse in capo all’ente e, per avventura, il reato della persona fisica si risolva in suo vantaggio, la responsabilità andrà comunque esclusa185.

Sotto altro profilo, la progressiva estensione del novero delle fattispecie rilevanti agli effetti della responsabilità ex d.lgs. 231, segnatamente con riguardo all’introduzione di reati di natura colposa, ha sollevato nuovi problemi interpretativi in ordine alla duplice categoria dell’interesse e del vantaggio.

Prima facie, infatti, sembrerebbe ripugnare alla logica ancor prima che al diritto

affermare che, ad esempio, l’omicidio colposo (dunque non voluto) del lavoratore possa esser stato commesso (anche mediante omissione) nell’interesse o a vantaggio dell’azienda; in realtà, l’apparente antinomia tra colpa ed interesse o vantaggio è destinata a dissolversi non appena muti la prospettiva, muovendo dal dato per cui nei reati presupposto, siano essi dolosi o colposi, l’essenza del rimprovero all’ente resta sempre quella di un’inadeguatezza organizzativa che si traduce nel mancato presidio di determinati processi aziendali potenzialmente criminogeni.

Con specifico riferimento agli illeciti colposi, si tratta di verificare se la condotta colposa della persona fisica derivi da carente organizzazione prevenzionistica, nelle cui lacune di fatto si annida il rischio di reato. Da tale angolo visuale, allora, è l’omissione di cautele doverose imposte al datore di lavoro a potersi apprezzare in termini di interesse (ex

ante) o vantaggio (ex post) per l’impresa sotto forma di risparmio di costi, il che riflette gli

orientamenti accolti presso la giurisprudenza di merito, la quale ha chiarito come, in materia di reati presupposto colposi, il criterio di collegamento dell’interesse/vantaggio

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all’ente vada rettamente rapportato non all’evento delittuoso, bensì alla violazione delle regole cautelari che hanno reso possibile la commissione del reato186.

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G.u.p. Trib. Novara, 1 ottobre 2010, in www.penalecontemporaneo.it; Trib. Trani, 26 ottobre 2009, Truck Center, in www.reatisocietari.it

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