2 La responsabilità degli enti per i reati ambientali
2.4 I criteri soggettivi di imputazione Modelli di organizzazione
L’argine garantista del principio costituzionale di colpevolezza all’alveo della responsabilità penale ha imposto al delegato di subordinare la responsabilità da reato degli enti ad un quid pluris rispetto ad un modello puramente oggettivo di ascrizione, in modo tale da rimuovere o, quantomeno, attenuare i più che probabili punti di attrito con i «dogmi personalistici dell’imputazione criminale» di cui all’art. 27 Cost.
A tal fine, dunque, si è ritenuta necessaria una forma di partecipazione lato sensu soggettiva da parte della persona giuridica alla commissione del reato tale per cui questo, per fondare la punibilità, deve rilevare come espressione concreta della c.d. politica d’impresa o almeno come manifestazione di una disorganizzazione interna colpevole; tuttavia, prescindendo dalle forme empiriche in cui si esprime la responsabilità dell’ente, sul piano normativo il legislatore ha optato per un modello di attribuzione sostanzialmente indifferenziato, su base colposa187: in particolare, si è inteso privilegiare il paradigma della colpa specifica, valorizzandone la dimensione oggettiva188, dovendosi ravvisare il fondamento del rimprovero di colpevolezza nella mancata adozione o nella inosservanza di cautele autonormate.
Ad ogni modo, le due ipotesi sono rispettivamente alla base delle norme di cui agli artt. 6 e 7 del decreto nelle quali, quindi, vanno rintracciati i criteri di imputazione soggettiva dell’illecito alla persona giuridica in rapporto ai soggetti che hanno commesso il reato nell’interesse o a vantaggio della stessa.
Di maggiore complessità si rivela il meccanismo di ascrizione allorché la fattispecie presupposto sia integrata dalla condotta degli apici, rispetto al quale opera la teoria dell’identificazione dell’ente con la persona fisica, talché la volontà del primo sarebbe in ogni caso indistinguibile da quella della seconda.
187 La scelta è stata orientata, per un verso, dalle evidenze criminologiche che indicano come rare le ipotesi
di enti intrinsecamente criminali, o che agiscono volendo o accettando il rischio di commettere reati nel normale esercizio dell’attività e, per altro verso, dalle difficoltà di ordine probatorio che avrebbe posto l’accertamento della volontà criminale dell’ente. Sul punto, O.DI GIOVINE, La responsabilità degli enti, cit., p. 511
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Tra gli altri, propone un accostamento alla c.d. misura oggettiva della colpa G. DE SIMONE, I profili
sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la parte generale e la parte speciale del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, in AA.VV., Responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato,
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Un modello che, a ben vedere, può dirsi ancora valido se riferito a realtà organizzative semplici ove, ad esempio, i poteri gestori e decisionali siano concentrati nelle mani di organi monocratici (immediato è il richiamo alla figura dell’amministratore unico), nel qual caso pare legittimo ritenere che i reati commessi dal soggetto in posizione apicale incarnino la politica della persona morale.
Rapportata alla complessità delle moderne strutture societarie, invece, in cui il
management non è più sviluppato solo in senso verticale, ma sempre più dislocato su
un’ampia base orizzontale, la capacità euristica della teoria dell’identificazione ne esce sensibilmente ridimensionata. Ed invero, man mano che nei processi decisionali le competenze divengono sempre più determinanti, si assiste alla crescente contaminazione tra line e staff, vale a dire tra organo formalmente investito del potere di decidere ed organo che a questo fornisce supporto tecnico il che, oltre a vulnerare l’asserita simbiosi tra volontà dei vertici e volontà della societas, disvela l’asimmetria del sistema rispetto alle moderne realtà organizzative tutte le volte in cui l’apporto dei tecnici, pur non formalmente incardinati in posizione apicale, risulti decisivo nelle scelte operate dall’ente, rendendo arduo il compito di ricondurre il fatto criminoso sotto l’art. 6 ovvero sotto l’art. 7 del decreto.
Di qui la previsione della possibilità (di fatto assai limitata) per la persona giuridica di smarcarsi dal management che ha agito in modo illecito, dimostrando di aver fatto quanto normativamente previsto per assicurare sufficienti presidi di legalità interna, e ciò potrà fare attraverso un meccanismo di inversione dell’onere della prova.
In particolare l’art. 6, comma 1 del d.lgs. 231/2001, relativamente alle ipotesi di reati commessi dai soggetti in posizione apicale ex art. 5, comma 1, lett. a), prevede che l’ente non risponde se prova (cumulativamente) che l’organo dirigente abbia adottato ed efficacemente attuato, ante delictum, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello posto in essere; di aver istituito un apposito organismo, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, preposto alla vigilanza sul funzionamento dei compliance programs; che tale organismo non abbia omesso di compiere o, comunque, non sia stato carente nello svolgere le sue funzioni e che, dunque, la commissione del reato sia stata resa possibile dalla fraudolenta elusione dei modelli comportamentali; ciò è quanto sostanzierà la misura della diligenza profusa dall’ente.
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Affinché il modello possa dispiegare efficacia esimente, poi, occorre che risponda ai requisiti minimi indicati dal comma 2 dello stesso articolo 6, i quali saranno oggetto di analisi nel prosieguo della presente trattazione; in questa sede, ci si limiterà esclusivamente a farne menzione.
Preliminarmente, il modello deve compiere una ricognizione delle attività sensibili al rischio reato; in secondo luogo, dovrà prevedere misure idonee a procedimentalizzare la formazione e l’attuazione delle decisioni in relazione alle aree di rischio; inoltre, dovrà farsi carico della corretta gestione delle risorse finanziarie, prevedendone un adeguato sistema di ripartizione in vista della prevenzione degli illeciti; ancora, dovrà assicurare all’organismo di vigilanza i necessari flussi informativi, condizione imprescindibile perché questo sia effettivamente in grado di espletare la sua attività; in ultimo, dovrà dotarsi di un sufficiente tasso di cogenza attraverso un sistema disciplinare che consenta una pronta reazione sanzionatoria (prima dell’intervento giudiziale) alla violazione delle prescrizioni in esso contenute.
Nella prospettiva di garantire un livello minimo di uniformità e, sotto altro profilo, di aggregare il consenso del mondo imprenditoriale intorno ad una proposta promanante da un’organizzazione rappresentativa che, si presume, ben conosca le esigenze e le difficoltà della gestione societaria, il comma 3 affida alle associazioni di categoria il compito di costruire standards orientativi (sui quali il Ministero della giustizia può formulare osservazioni, non si sa con quale valore né con quale efficacia vincolante) che le singole imprese potranno modulare in base alla propria realtà. Una soluzione che, se non altro, si lascia apprezzare per flessibilità e adattabilità rispetto alla rigidità dell’alternativa, rappresentata dall’imposizione legislativa dei contenuti del sistema, la cui invasività sarebbe stata mal tollerata dai destinatari.
Quale precipitato dell’esigenza di adeguamento alla singola fattispecie organizzativa del modello astrattamente predisposto, il comma 4 consente, negli enti di piccole dimensioni, di affidare le funzioni di vigilanza allo stesso organo dirigente; il comma 4-bis, poi, riconosce alle società di captali la facoltà di affidare la vigilanza sul funzionamento del sistema di compliance ad organi funzionalmente affini a quello previsto dal comma 1, lett. b) e già costituiti in azienda, quali il collegio sindacale, il consiglio di
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sorveglianza e il comitato per il controllo della gestione, così da evitare la superfetazione di organismi dotati di poteri e funzioni sovrapponibili.
L’art. 6, infine, introduce lo strumento della confisca, anche nella forma per equivalente, da disporsi pure quando l’ente abbia fornito prova della sua estraneità al reato, per il sol fatto che da questo ne abbia tratto profitto; si tratta, evidentemente, di misura diversa da quella di cui all’art. 9, comma 1, lett. c), in quanto prescinde da ogni profilo di rimproverabilità, rinvenendo il proprio fondamento nell’esigenza di ripristinare l’equilibrio economico alterato dal reato presupposto189.
Venendo alla più semplice e lineare, quanto meno frequente, fattispecie di cui all’art. 7 del d.lgs. 231, in relazione all’ipotesi di reato commesso da persona sottoposta alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti in posizione apicale ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. a), l’ente versa in responsabilità allorchè la commissione dell’illecito sia causalmente riconducibile all’inosservanza proprio di quegli obblighi di direzione o vigilanza che, in definitiva, ne denunciano un deficit organizzativo colpevole.
Sul piano dell’accertamento, diversamente dal meccanismo previsto per i reati commessi dagli apici, viene recuperato l’ordinario criterio di riparto dell’onere della prova che, dunque, torna a gravare sull’accusa.
Al capoverso si ha cura di precisare che <<in ogni caso, è esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi>>; orbene, rispetto al regime previsto dall’art. 6, ove la mancata adozione o l’inefficace attuazione del modello è elevata a presunzione iuris et de iure di colpevolezza, nello schema dell’art. 7, la mancanza o l’inidoneità del modello organizzativo non è di per se sufficiente ad incardinare la responsabilità dell’ente, potendo questa essere comunque esclusa qualora non sia raggiunta la prova dell’omesso controllo; controllo che, nella logica dell’art. 7, costituisce il vero elemento tipizzante, che qualifica ulteriormente il planning rispetto a quello delineato dall’art. 6.
Il comma 3 dell’articolo in esame, invece, pone l’accento sul carattere preventivo del modello il quale deve prevedere, <<in relazione alla natura e alle dimensioni
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dell’organizzazione nonchè al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio>>.
In chiusura, il comma 4 indica i requisiti di efficace attuazione del modello richiedendone, in primo luogo, il monitoraggio e la verifica periodica, dovendosi intervenire sullo stesso per apportare i correttivi imposti dalla necessità di adeguarlo ai mutamenti intervenuti nell’organizzazione o nell’attività (ma anche a quelli di carattere legislativo), ovvero quando siano scoperte significative violazioni delle prescrizioni; poi, ancora una volta, prescrivendo la predisposizione di un sistema disciplinare idoneo a conferirgli effettività, allo scopo di evitare l’adozione di modelli meramente fittizi, se non addirittura fraudolenti.
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