italiana e straniera.
3. Criteri di valutazione e unità di misura del valore
A seconda dello scopo conoscitivo che si intende raggiungere, i principi di redazione ed i connessi criteri di valutazione delle poste di bilancio risulteranno necessariamente differenti.
È possibile, infatti, adottare un approccio maggiormente prudenziale, con conseguente adozione di un criterio legato al costo storico – o meglio, al minore tra costo storico e valore di realizzo desumibile dal mercato -, oppure seguire un’impostazione che dia maggior enfasi al principio di competenza, svincolandosi da quello di prudenza, ed impiegare quindi criteri di valutazione orientati ai valori correnti, direttamente od indirettamente collegati ai mercati.
Nel primo caso, come avviene nella disciplina legislativa italiana afferente il bilancio d’esercizio – artt. 2423-2435 bis del codice civile – l’obiettivo del bilancio si risolve nella tu- tela dei terzi creditori.
Tali soggetti trovano nel patrimonio d’impresa l’unica garanzia per il soddisfacimento delle rispettive legittime istanze: per tale ragione la disciplina codicistica italiana è informata al principio di prudenza, al fine di garantire la determinazione di un utile che possa essere distribuito senza danneggiare la garanzia dei terzi creditori.
Nel secondo caso, al quale è possibile ricondurre la disciplina dei principi contabili IAS/IFRS, l’obiettivo del bilancio è volto piuttosto alla soddisfazione degli interessi degli
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assicurata l’integrità del capitale preesistente, al lume delle previsioni che possono porsi all’epoca del bilancio sul futuro manifestarsi delle operazioni aziendali in corso». T. D’IPPOLITO, La contabilità in partita doppia a sistema unico e duplice e il bilancio d’esercizio, Palermo, 1958, p. 181.
(6) M. PANTALEONI, Scritti vari di economia, Bari, 1909, p. 90.
(7) G. ZAPPA, Le produzioni nell’economia delle imprese, tomo II, Milano, 1957, p. 895; si veda inoltre P. ONIDA, Eco-
nomia d’azienda, Torino, 1968, pp. 556-557-558.
investitori, quindi dei soggetti che, in un’ottica di breve periodo, si attendono dall’impresa il massimo dividendo possibile ed il massimo valore dell’impresa stessa sul mercato, in vista di un possibile capital gain.
Più in generale, è possibile affermare che l’idea della determinazione del reddito sulla ba- se dei valori correnti risale già al 1961, quando un economista ed un contabile americani – rispettivamente Edwards e Bells – pubblicarono un’opera in cui sostenevano che il reddito a valori storici soffriva di una sorta di “incompletezza”: per essere un vero indicatore di effi- cienza – a parere dei citati Studiosi - il reddito deve riconoscere anche i plusvalori e i minu- svalori dovuti alle variazioni dei prezzi dei fattori sui mercati; in altri termini, si deve ammet- tere che il reddito si forma anche in assenza dello scambio di mercato(9).
Ciò significa che la valutazione a valori correnti prescinde dal principio di prudenza e di realizzo – o meglio considera quest’ultimo in un’ottica allargata, che prescinde dal momento dello scambio -, conducendo all’inclusione, nel reddito d’esercizio, anche di utili ancora in corso di formazione. Del resto, è questa la configurazione di reddito che maggiormente ri- specchia le esigenze conoscitive degli investitori, dal momento che il loro interesse si avvici- na più al valore di mercato che al valore di libro dell’impresa.
Pare interessante, al riguardo, ricordare gli studi di insigni Studiosi italiani e stranieri – tra i quali sicuramente spicca Giovanni Ferrero – in tema di valori storici e valori correnti in periodi di forti oscillazioni del potere d’acquisto della moneta.
Il citato Studioso, infatti, in una nota opera del 1977(10), ricorda come in periodi di infla-
zione i costi storici possano perdere di significatività, privando il bilancio di attendibilità; per questo si preoccupa di illustrare le due modalità volte a mantenere la significatività dei valori di bilancio in periodi di inflazione: il modello C.P.P. (Current Purchasing Power) ed il modello C.C.A. (Current Cost Accounting).
Il modello C.P.P. si risolve in un correttivo da applicare ai valori storici per tenere nel dovuto conto la variazione del potere d’acquisto della moneta; in altri termini, tale modello implica la rettifica dei valori storici in base a coefficienti di correzione ancorati al livello ge- nerale dei prezzi, per trasformare i valori storici stessi in valori a potere d’acquisto corren- te(11).
Al contrario, il modello C.C.A. implica la tenuta della contabilità secondo i costi correnti, anziché i valori storici; tali valori correnti possono identificarsi nel costo di sostituzione o nel valore netto di realizzo(12).
Proprio questo secondo caso risulta di maggiore interesse ai fini del presente scritto; in effetti, l’obiettivo di fondo del modello C.C.A. non si risolve semplicemente nell’evitare gli effetti distorsivi dell’inflazione, ma nell’individuare un criterio di valutazione che consenta la tutela dell’integrità economica del capitale, considerata nel suo senso più ampio, di continui-
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(9) E.O. EDWARDS, P.W. BELLS, The Theory and Measurement of Business Income, Berkeley- Los Angeles, 1961. Per
approfondimenti si consulti M. FANNI, L. COSSAR, Il metodo contabile, Roma, 1994, pp. 361 ss.
(10) G. FERRERO, Bilancio e contabilità per l’inflazione, Milano, 1977. Si ritiene doveroso ricordare, come del resto
sottolinea lo stesso Ferrero, che tali modelli sono stati proposti anche all’interno del Rapporto Sandilands, uno studio commissionato nel 1973 dal Governo inglese ad un Comitato appositamente costituito, avente l’obiettivo di verificare gli impatti dell’inflazione, all’epoca dirompente, nei valori di bilancio.
(11) G. FERRERO, Bilancio e contabilità per l’inflazione, Milano, 1977, pp. 5 ss.
(12) Si osserva che il concetto di valore corrente è stato ampiamente approfondito dal Comitato Sandilands nel do-
cumento Inflation Accounting Report presented to Parliament, del 1979; all’interno di tale documento si parla di value accounting, prevedendo come alternative la contabilità a costi di sostituzione, la contabilità a valore attuale di netto realizzo e la contabilità a valore “economico” dei redditi futuri.
tà dell’impresa nel tempo.
Si tratta, pertanto, di tenere la contabilità secondo i valori correnti, al fine di assicurare la costante omogeneità dei costi rispetto ai ricavi e di determinare il «valore d’uso che, per l’impresa, assume il capitale in quanto serbatoio di servizi»(13).
Volendo ricondurre all’attualità la tematica in oggetto, ovvero la questione dei due diver- si criteri di valutazione – a valori storici e a valori correnti -, si può affermare che esistano due differenti impostazioni: l’una riconducibile al modello continentale, l’altra aderente al modello anglosassone.
La tutela dei creditori, assunta più in generale dall’impostazione continentale come o- biettivo di fondo del bilancio, viene dunque realizzata attraverso i seguenti postulati:
− il principio di prudenza nelle valutazioni;
− il criterio del costo storico (o meglio, del minore tra costo storico e valore di realizzo); − il calcolo del reddito prodotto.
Al contrario, la tutela degli investitori, sia attuali sia potenziali, assunta come riferimento nell’impostazione anglosassone – nonché nei principi contabili internazionali – mira alla re- dazione di un bilancio dal quale emerga il valore di mercato delle società costituenti il sog- getto giuridico dell’impresa o del gruppo; tale redazione risulta, pertanto, incentrata sui se- guenti postulati:
− il principio di valutazione orientato al mercato;
− i criteri valutativi ancorati al fair value, ovvero a valori correnti;
− il calcolo di un reddito “potenzialmente prodotto” o “realizzabile”(14).
Se il principio di prudenza impone di valutare le voci di bilancio in modo tale da iscrive- re in esso gli utili realizzati e le perdite, ancorché solo presunte, il principio di valutazione orientato al mercato conduce all’imputazione in conto economico anche degli utili solo spe- rati sulle operazioni ancora in corso di svolgimento al termine dell’esercizio. Del resto, il principio di prudenza richiede una valutazione al minore tra costo storico e valore di realiz- zo, consentendo, pertanto, di iscrivere in conto economico esclusivamente gli utili già realiz- zati; il principio di valutazione orientato al mercato, al contrario, consente l’imputazione al conto economico delle plusvalenze da fair value relative alle attività correnti, costituenti, evi- dentemente, utili ancora in corso di formazione.
Evidentemente, da tali diversi principi e criteri emergono due altrettanto differenti con- figurazioni di risultato economico: la normativa nazionale, infatti, conduce alla determina- zione di un reddito prodotto e distribuibile, mentre i principi contabili internazionali portano ad evidenziare una configurazione di reddito ibrida, sovente definita “potenzialmente pro- dotta”.
Da tutto ciò è facile capire come le accezioni di integrità risultanti dall’applicazione dei due diversi criteri citati non possano che risultare differenti: nel caso di adozione dei valori storici l’integrità sarà riferita al capitale considerato come fondo di valori, a prescindere dai singoli beni nei quali esso stesso risulta investito; al contrario, nel caso di applicazione dei valori correnti, l’integrità sarà riferita al capitale inteso in senso “fisico”, ovvero alla luce de-
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(13) Come si avrà modo di illustrare nel prosieguo della trattazione, il modello C.C.A. rispecchia per molti aspetti il
modello basato sui costi di riproduzione proposto alla fine dell’Ottocento dal tedesco Fritz Schmidt.
gli specifici elementi costituenti la combinazione produttiva.
A tal proposito, pare doveroso precisare che «si può parlare di integrità economica del capitale solo in termini di valore, misurato in moneta»(15); con ciò si vuole sottolineare come
il concetto “fisico” di integrità faccia riferimento comunque al valore dei beni specifici in cui il capitale stesso risulta investito, e non tanto ai beni fisicamente considerati.
Ne discende una prima accezione di integrità di tipo finanziario, secondo la quale il capi- tale si mantiene economicamente integro se l’importo del capitale finale risulta superiore all’importo del capitale iniziale.
La seconda accezione di integrità è di tipo fisico: essa postula il mantenimento del capitale solo se la capacità produttiva fisica finale risulta superiore alla capacità produttiva fisica ini- ziale.
Si osservi come in periodi di forti oscillazioni del potere d’acquisto della moneta il reddi- to determinato possa subire forti alterazioni, causate proprio dai fenomeni monetari; in que- sti casi alcuni Autori sostengono la necessità di separare – seppur idealmente ed astrattamen- te – il reddito “reale” da quello solo “apparente”, determinato, per l’appunto, dalle oscilla- zioni del potere d’acquisto della moneta.
In altri termini, nell’ipotesi di forte instabilità monetaria, il mantenimento dell’integrità economica del capitale presuppone che reddito e capitale siano espressi in termini “moneta- ri” omogenei.
Per tale ragione, il redattore del bilancio, nella scelta dell’unità di misura da utilizzare nella determinazione dei valori, può optare per due differenti soluzioni: o prescinde dal pro- blema della variabilità del potere d’acquisto della moneta nel tempo, oppure opta per la con- servazione della costanza del potere d’acquisto stesso.
Ciò significa che, nel primo caso, il redattore del bilancio adotta valori storici e nominali, prescindendo, quindi, dalle oscillazioni del potere d’acquisto della moneta; nel secondo caso, ci si troverà di fronte a valori storici indicizzati al livello generale dei prezzi; per i valori cor- renti il problema non si pone, in quanto essi tengono implicitamente conto delle oscillazioni del potere d’acquisto della moneta, rispecchiando gli indici particolari dei prezzi degli speci- fici beni cui si riferiscono.
Adottando valori storici e nominali si avrà un concetto di integrità finanziaria-nominale del capitale: si tratta, nello specifico, di considerare il capitale in termini monetari, prescindendo dalle alterazioni del potere d’acquisto della moneta, ovvero postulando l’identità tra valore nominale e valore economico della moneta.
Nel caso dei valori storici ancorati al livello generale dei prezzi si avrà una nozione di in- tegrità finanziaria legata al potere d’acquisto generico della moneta; ciò significa che il capitale è inte- so, ancora una volta, in termini monetari, ma viene considerato economicamente integro solo se la differenza tra capitale netto iniziale e finale viene espressa in termini monetari o- mogenei, facendo riferimento all’indice generale dei prezzi.
Ai valori correnti, come già si è accennato, è correlato un concetto di integrità fisica del capitale legata al potere d’acquisto particolare; in questo caso, quindi, il capitale è considerato co- me aggregato di elementi attivi e passivi; pertanto, si avrà integrità economica qualora il capi- tale di fine esercizio sia tale da consentire la ricostituzione della medesima combinazione produttiva esistente all’inizio dell’esercizio stesso.
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(15) U. DE DOMINICIS, Svalutazione monetaria e rendiconti d’esercizio nelle imprese, in Rivista dei Dottori Commercialisti, n.