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Il criterio della residenza e della territorialità nell’imposizione patrimoniale.

Nel documento imposte patrimoniali e parapatrimoniali (pagine 53-64)

LE IMPOSTE SUL PATRIMONIO SOTTO IL PROFILO INTERNAZIONALE.

3.2 La doppia imposizione internazionale e il Modello OCSE contro le doppia imposizione.

3.2.2 Il criterio della residenza e della territorialità nell’imposizione patrimoniale.

Prima di affrontare in modo specifico la problematica sulle imposte sul patrimonio disciplinate dall’art.22 del modello Ocse, è necessario considerare il concetto di residenza e di territorialità sviluppato nell’ambito impositivo.

La maggior parte degli ordinamenti statuali hanno adottato un sistema di tassazione “ancorato” al criterio personale della residenza e a quello oggettivo del luogo in cui viene prodotto il reddito, assoggettando, quindi ad imposizione i redditi ovunque prodotti dai residenti secondo il principio della “world wide principle113” e solo quelli prodotti nel territorio dello Stato dai non residenti.

Dobbiamo capire quale nozione di residenza è fornita dal modello OCSE. All’art. 4 si definisce che: “Ai fini della presente Convenzione, il termine residente di uno Stato contraente designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato.” Quindi, bisogna far riferimento alla nozione di residenza data dalla normativa interna italiana, la quale è definita dall’art.2 del TUIR.114 L’articolo 2 del Testo Unico sulle imposte sui Redditi prevede che ai fini delle imposte sui redditi considera residenti le persone fisiche, che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafe della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio oppure la residenza ai sensi del codice civile. Per considerare la persona fisica residente si deve realizzare nel territorio dello Stato almeno uno di questi tre elementi:

- Iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente; - Residenza in senso civilistico nel territorio dello Stato; 







112Memento Pratico, Ipsoa- Francis Lefebvre 2012.

113VALENTE P. “ Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni”, Milano, 2012.

- Domicilio in senso civilistico nel territorio dello Stato115;

I criteri enunciati si pongono in una posizione di alternatività nel senso che possono anche non coesistere. Il primo criterio ha carattere soggettivo ed “astratto tante che sono state avanzate “forti perplessità potendo dar luogo ad arbitri se non utilizzato con cautela e soppesato con discernimento, mentre gli altri due hanno natura oggettiva e quindi deve ritenersi scongiurato ogni rischio di errata applicazione116.” Tuttavia, per quanto riguarda il domicilio in senso civilistico si prende in considerazione il centro degli affari ed interessi della persona, dove per affari e interessi, per la giurisprudenza, sono quelli riguardanti sia la sfera personale e quelli di carattere economico. In caso di “conflitto” tra i due interessi prevalgono quelli di carattere personale ed affettivo117. Su tale questione la Corte di Giustizia

della Comunità europea ha ritenuto che “nel caso in cui una persona abbia legami sia personali che professionali in due Stati membri, in luogo della sua normale residenza stabilito nell’ambito di una valutazione globale in funzione di tutti gli elementi di fatto rilevanti, è quello in cui viene individuato il centro permanente degli interessi di tale persona e che, nell’ipotesi in cui tale valutazione globale non permetta siffatta valutazione, occorre dichiarare la preminenza dei legami personali118.”

La sussistenza anche di uno dei tre suddetti requisiti è sufficiente ritenere che un soggetto giuridico sia, ai fini fiscali, da considerare residente in Italia a condizione che sussista anche il requisito temporale, ossia che il soggetto abbia “dimorato” in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta, dove si considera più di 183 giorni all’anno o 184 se l’anno è bisestile, e tali giorni possono anche non essere consecutivi.

La contrapposizione quindi, tra soggetto residente e non residente risulta determinante per evitare pratiche elusive e per impedire la tassazione di “capacità contributiva che pur esistendo in termini oggettivi difetta del requisito della soggettività119.” È interessante quanto espresso dalla Corte di Giustizia tedesca con la sentenza del 5 luglio 2005 (“il caso D120”), la quale ha ribadito che anche per le imposte sul patrimonio la situazione dei residenti e quella 







115 CAPOLUPO S.“La tassazione degli immobili esteri” in Il fisco n.7/2012 p.947.

116CAPOLUPO S. “La tassazione degli immobili esteri” in Il fisco n.7/2012.Op. Cit. p.949

117 TOSI L. BIAGGIO R.”Lineamenti di diritto tributario internazionale”, Padova, 2012. 118 Corte di Giustizia, sentenza del 12 luglio 2011, causa C-262/99.

119 CAPOLUPO S.“La tassazione degli immobili esteri” in Il fisco n.7/2012 p.947.

dei non residenti non sono di “regola comparabili” e quindi nel caso in cui nello Stato in cui è situato il patrimonio (Stato della fonte) non applichi determinate regole od esenzioni al contribuente non residente non vi è alcun tipo di discriminazione . In tale caso il Signor “D” deteneva il 90% della sua ricchezza in uno Stato membro della UE ( Germania) e il 10% nei Paesi Bassi, la quale legislazione fiscale prevedeva l’imposta patrimoniale. Il Signor “D” ha subito sui propri patrimoni localizzati in Belgio una tassazione del 10% senza aver diritto a nessuna franchigia, la quale “era prevista e applicata per i residenti nei Paesi Bassi. Il Giudice comunitario ritiene che a tale soggetto non deve essere riconosciuto nessuna forma di franchigia e il rifiuto delle autorità olandesi di assegnarli tale “beneficio fiscale”previsto per i residenti non genera una situazione di discriminazione fiscale. A sostegno di ciò, il Giudice comunitario ha tenuto conto dell’intero patrimonio del contribuente, ovunque situato, al fine di stabilire se lo Stato membro ospitante il contribuente non residente sia tenuto o meno ad accordare benefici fiscali sul patrimonio situato nel proprio territorio. Infatti, il sistema impositivo tedesco non prevedeva più un’imposta sul patrimonio e secondo la Corte, il contribuente tedesco aveva già avuto goduto di un “abbattimento fiscale” non indifferente. In realtà la mancanza dell’imposta è una situazione alquanto diversa dall’esenzione. Su tal punto è interessante vedere quanto sostenuto dall’Avvocato Generale, il quale riteneva che il signor D si trovasse nella stessa situazione di un residente olandese con il 10% del proprio patrimonio nel suo Paese d’origine e il resto in Germania; infatti, quest’ultimo non pagherebbe alcun tributo e nei Paesi bassi avrebbe diritto a un beneficio fiscale.121

Tuttavia, la Corte prende come punto di riferimento per la sua valutazione questioni riguardanti l’imposta sul reddito, utilizzando il concetto di capacità contributiva come indice di ricchezza a presupposto dell’imposta, valorizzando l’aspetto della localizzazione della maggior parte dell’investimento, il quale era localizzato prevalentemente in Germania e soprattutto, valorizzando il concetto di residenza; tutto ciò esteso all’imposta patrimoniale, ma non si considera la natura, il presupposto diverso di tale imposta.

Sempre sul tema della residenza “una particolarità”, prevista dalla legislazione italiana nel Testo Unico, è la presunzione di residenza fiscale nel territorio dello Stato che si applica nei confronti delle persone fisiche che si sono cancellate dall’anagrafe della popolazione residente e hanno trasferito la loro residenza in un paese a fiscalità privilegiata.









121 DRAGONETTI A - PIACENTINI V -SFONDRINI A.“ Manuale di fiscalità

I paesi a fiscalità privilegiata sono individuati dal decreto n.107 del 4 Maggio 1999 del Ministro dell’ Economia delle Finanze. Per questi Paesi esiste una presunzione legale relativa, nel senso che non è l’Agenzia delle Entrate che deve dimostrare che quei soggetti sono ancora residenti in Italia, ma sono quei soggetti che devono dimostrare di avere la residenza nel paese in cui si sono trasferiti. La norma è diretta a contrastare il trasferimento fittizio di residenza in un altro Stato.

Inoltre,il legislatore con il decreto legge 112/ 2008 ha previsto che i Comuni effettuino il monitoraggio nei confronti delle persone che si iscrivono all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) e con l’aiuto all’’Agenzia delle Entrate, nell’attività di controllo nel caso di trasferimento di residenza all’estero, può venire dai comuni che sono incaricati di effettuare queste attività di monitoraggio. Da notare che sono i Comuni gli enti incaricati di attribuire la residenza, quindi, di effettuare il controllo. Questo naturalmente non va ad impattare sulla presunzione su chi si trasferisce nei paradisi fiscali, questa è una norma che riguarda tutti i casi di trasferimento all’estero e di iscrizione all’AIRE. Infatti, quando c’è il trasferimento della residenza in un paradiso fiscale c’è l’inversione dell’onere della prova e l’Agenzia delle Entrate non deve dimostrare alcunché.

Oltre alle norme che riguardano la residenza delle persone fisiche, vi sono quelle che disciplinano la residenza delle società di persone e di capitali.

Le norme a cui far riferimento sono: per le società di persone l’art. 5 comma 3 lettera d e per le società di capitali art. 73 comma. 3 TUIR.

Quindi, la normativa nazionale considera residenti in Italia le società e gli enti che, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni), hanno nel territorio dello Stato, in alternativa:

- Alla sede legale;

- Alla sede dell’amministrazione; - All’oggetto principale dell’attività;


Se uno dei tre elementi sopra indicati è localizzato in Italia, è irrilevante la circostanza che la società sia costituita all’estero.

Per stabilire se una società o ente è residente nello Stato bisogna effettuare tre controlli: - Individuare la sede legale;

- Nel caso la stessa non fosse fissata in Italia, occorre considerare la sede amministrativa;

- Se quest’ultima non è localizzata nel nostro Paese è necessario fare riferimento all’oggetto principale dell’attività. Se anche l’oggetto principale dell’attività non è individuato in Italia si avrà la certezza che la società l’ente è localizzato all’estero. Per quanto riguarda il primo criterio della sede legale.

In relazione a tale aspetto è bene soffermarsi sul criterio utilizzato in campo fiscale.

La sede legale rappresenta una “variante “del criterio del luogo di costituzione (utilizzato nel diritto internazionale privato per determinare la legge regolatrice della società), secondo cui il luogo in cui è stabilita la sede coincide di norma con il luogo dove si conclude il procedimento di costituzione. Il TUIR, invece, non fornendo una definizione di sede legale fa riferimento al concetto di sede proprio del diritto internazionale privato e del codice civile. Premesso quanto sopra, in linea generale per sede legale s’intende la sede della società riportata nell’atto costitutivo ovvero nello statuto, e tale dato viene successivamente annotato nel registro delle imprese.

Tuttavia, può accadere che si crei una discrasia tra la sede legale (detta anche sede formale) e la sede effettiva.

La giurisprudenza ha rilevato l’importanza della distinzione tra la sede effettiva e quella riportata nell’atto costitutivo.

La Corte di Cassazione con la sentenza 22 gennaio 1958 n.136 ha affermato che la sede effettiva della società deve considerarsi come “il luogo in cui la società svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa per l'esercizio dell'impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove si trattano gli affari e dove i diversi fattori dell'impresa vengono organizzati e coordinati per l'esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali”.

Si tratta del luogo in cui ha sede il centro direttivo ed amministrativo della società.

E’ bene notare che non viene considerata sede effettiva il locale dove sono posti gli uffici della società ovvero il luogo ove è presente un recapito della stessa o una persona che ne gestisca gli uffici di rappresentanza.

La discrasia sopra evidenziata, tra la sede formale (riportata nello statuto) e la sede effettiva, può generare confusione nei confronti dei terzi che sarebbero, quindi, lesi nei propri diritti se facessero affidamento sulla sede formale riportata nello statuto o nell’atto costitutivo. A tal

riguardo interviene l’art. 46, comma 2, del codice civile stabilendo che “Nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell'articolo 16 o la sede risultante dal registro è diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest'ultima”. Quindi. il codice civile con il termine “sede” fa riferimento alla sede formale (legale) che alla sede effettiva, con la conseguenza che l’avverbio “anche” assume un notevole peso specifico in quanto permette al terzo di essere tutelato potendo considerare come sede della società anche quella effettiva in luogo della sede formale. La sede effettiva, quindi, non sostituisce la sede legale, ma si aggiunge ad essa per tutelare i terzi.

La dicitura “sede legale” inserita nell’art. 73 si intende la sede formale, rimanendo comunque impregiudicata la facoltà dei terzi di considerare invece la sede effettiva ai fini civilistici.

Il secondo criterio riguarda la sede dell’amministrazione.

Per sede dell’amministrazione s’intende il luogo in cui viene svolta l’attività di gestione, che può essere desunta, ad esempio, dall’esistenza di uffici amministrativi oppure dall’indicazione sulle fatture. Di conseguenza il concetto di sede effettiva e di sede dell’amministrazione coincidono e costituiscono, unitamente al concetto di sede legale, il significato generale di sede.

Per determinare la sede amministrativa è necessario, come ribadito all’Amministrazione Finanziaria, compiere complessi accertamenti finalizzati ad accertare il reale rapporto della persona giuridica con un determinato territorio (che può essere diverso da quello indicato nell’atto costitutivo e nello statuto). Il criterio base utilizzato è quello dell’individuazione del luogo da cui effettivamente provengono “gli impulsi manageriali”inerenti l’attività della società o ente. La sede dell’amministrazione, quindi, è individuata con il luogo dove vengono svolte le attività amministrative. Altri elementi, come la cittadinanza, il domicilio nonché la nazionalità degli amministratori sono irrilevanti in quanto ciò che conta è il luogo in cui essi si incontrano per prendere decisioni riguardanti la realizzazione dell’attività sociale. Altro criterio da utilizzare per determinare la sede dell’amministrazione è quello di individuare dove gli impulsi volitivi degli amministratori hanno concreta attuazione, ossia bisogna individuare dove opera il top management. La ricerca dovrà indirizzarsi, quindi, al luogo in cui la società svolge la sua prevalente attività direttiva ed amministrativa per l’esercizio dell’impresa, cioè il centro effettivo dei suoi interessi, dove la società vive ed opera, dove si trattano gli affari e i diversi fattori dell’impresa vengono organizzati e coordinati per l’esplicazione ed il raggiungimento dei fini sociali.

Tale ultimo criterio è comunque sussidiario a quello primario che si riferisce all’attività degli amministratori, nel senso che se il top management dà attuazione alle direttive del consiglio in un luogo diverso da quello individuato secondo il criterio primario, tale secondo luogo non determina la sede dell’amministrazione della società.

La Suprema Corte, con la sentenza 16 giugno 1984 n. 3604, ha affermato che la sede dell’amministrazione è “il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per accentramento, nei rapporti interni con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente”. In conclusione è possibile affermare che la sede dell’amministrazione è il luogo in cui è fissata la sede centrale di direzione, controllo ed impulso dell’attività economica piuttosto che il luogo in cui esse sono eseguite.

Il terzo e ultimo criterio è l’oggetto principale dell’attività.

Tale criterio ha natura “residuale” e si applica quando in base agli altri due criteri la società/ente non risulta localizzata in Italia.

Per oggetto principale si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto (artt. 5, comma3 lett. d, e 73, comma 4 TUIR).

In mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto, l’oggetto principale dell’attività è determinato in base all’attività effettivamente esercitata (principalità dell’oggetto) nel territorio dello Stato.

Se l’atto costitutivo o lo statuto della società/ente prevedono lo svolgimento di più attività, occorre fare riferimento a quella che è ritenuta essenziale per il raggiungimento dei suoi scopi primari.

In tale contesto è utile anche precisare che cosa si intenda con “principalità” dell’oggetto. Può accadere che l’attività svolta in Italia e negli altri Paesi sia quantitativamente prevalente rispetto a ciascun attività svolta all’estero, ma non rispetto all’insieme delle attività della società.

La dottrina civilistica risolve il problema ritenendo che sia prevalente l’oggetto sociale svolto in Italia. Dal punto di vista fiscale, invece, la soluzione non è così agevole in quanto il requisito (fiscale) deve essere verificato con riferimento ad elementi quantitativi e qualitativi

per individuare nell’attività globale dell’impresa il suo nucleo principale. In base a quanto sopra detto si evince che, nel caso di mancanza di sede legale od amministrativa, i requisiti per poter considerare residente in Italia una società sono i seguenti: - la “predominanza” delle attività svolte in Italia rispetto alle attività svolte all’estero con riferimento all’atto costitutivo;

- in assenza d’indicazioni nell’atto costitutivo la maggior parte delle attività svolte in Italia rispetto alle attività svolte all’estero in base ad una analisi sostanziale;

- mantenimento della “principalità” per la maggior parte del periodo d’imposta.

L’art.4 oltre a prevedere il criterio della residenza per stabilire quale Stato può tassare prevede che “ sono assoggettate ad imposta in detto Stato soltanto per il reddito derivante da fonti situate in detto Stato, o per il patrimonio ivi situato”, quindi si fa riferimento al principio di territorialità, ovvero, fa riferimento alla fonte in cui è situato il patrimonio. Tal criterio prevede che tutti, cittadini o residenti nello Stato e cittadini o residenti all’estero, vengano assoggettati ad imposizione nello Stato dove il patrimonio è collocato. In sostanza, l’elemento che consente e permette di collegare una determinata fattispecie alla pretesa impositiva dello Stato è rappresentato dal luogo in cui il patrimonio è situato.

Gli ordinamenti tributari che adottano in modo esclusivo questo criterio limitano la propria potestà impositiva alle fattispecie giuridiche che hanno origine all’interno del loro territorio, ma realmente non vi sono queste realtà.

Ora dobbiamo vedere come in base al principio di “worldwide principle” e territorialità della tassazione si può suddividere il potere impositivo tra i vari Stati, il quale può essere schematizzabile:

- Tassazione esclusiva, riservata ad uno degli Stati contraenti. Può esserci o la tassazione esclusiva dello Stato della residenza o la tassazione esclusiva dello Stato della fonte. Di solito queste clausole sono connotate nelle Convenzioni dalla parola “solo”. Quindi, quando si stabilisce che può tassare solo o esclusivamente lo Stato della fonte o lo Stato della residenza è chiaro che la convenzione non permette all’altro Stato di esercitare la propria potestà impositiva.

- Tassazione “preferenziale” da parte dello Stato della residenza. Rappresenta la clausola più diffusa nelle Convenzioni e generalmente si prevede la tassazione preferenziale da parte dello

Stato di residenza del soggetto, ma non si esclude e anzi si ammette anche la tassazione da parte dello Stato della fonte. Quindi, un’unione tra la tassazione dello Stato della fonte concorrente, senza alcuni limite quantitativo e la tassazione “preferenziale” dello Stato della residenza creando una possibilità di tassazione concorrente ancorché con un limite. Lo Stato della fonte in questi casi interviene esercitando la tassazione con delle ritenute in uscita quindi, dal momento in cui questi componenti vengono pagati ad un residente dell’altro Stato, deve essere esercitata una ritenuta da parte del soggetto che paga;

- La terza categoria di regole di riparto della potestà impositiva è quella che consente la tassazione concorrente dei due Stati senza limiti. Di fatto questa norma consente la tassazione allo Stato della fonte senza escludere la tassazione nello Stato della residenza. Questo è assai problematico perché vuol dire riconoscere che su un determinato componente patrimoniale, per esempio sugli immobili entrambi gli Stati possono esercitare la tassazione piena e totale122.

Le norme predisposte dall’OCSE sono norme che stabiliscono quale Stato può esercitare la potestà impositiva, ma l’esercizio “finale” della potestà impositiva da parte dei singoli Stati dipende anche dalla normativa interna presente nei singoli Stati. Infatti, la Convenzione potrebbe aver stabilito che un determinato patrimonio può essere tassato da entrambi gli Stati, ma uno dei due Stati contraenti prevede all’interno del proprio ordinamento tributario

Nel documento imposte patrimoniali e parapatrimoniali (pagine 53-64)