4. LE SERIE TV E GLI SPAZI DI DISCORSO ISTITUZIONALI
4.1. Cultura o Spettacolo? Televisione e pagine culturali
4.1.2. La critica assente
Connessa a questa inclinazione emerge un riposizionamento della figura dell’intellettuale contemporaneo, che fa dell’esposizione sui media un tratto identificativo, sancendo lo spostamento dell’«attenzione dalla funzione critica […] al suo ruolo sociale, all’insegna di manifestazioni e forme di protagonismo che tendono a farne un attore, esattamente come gli altri, delle nostre “performing society”» (Panarari, 2011, p. 97). La conformazione della sezione culturale si rifà a quella che Panarari definisce una vera e propria “sceneggiatura”, predisposta per «la messa in scena di un conflitto» (ivi, p. 98): la cultura fa notizia se porta clamore.
Anche Zanchini mette in evidenza «il progressivo indebolimento della critica militante e di una puntuale e corposa attività di recensione dei libri» (Zanchini, 2014, p. 35), che però può estendersi all’attività di recensione in generale, visto che interessa allo stesso modo le recensioni cinematografiche, spesso raggruppate in un’unica pagina una volta a settimana (mentre sono quasi totalmente assenti le recensioni musicali). Negli anni Duemila lo spazio dell’opinione approfondita sulla cultura si trasferisce altrove, su pubblicazioni specializzate, come «Il Foglio», «Europa», «Il Riformista» e sulle riviste online, come «Huffington Post», «Pagina99», «Il Post» (Panarari, 2014, p. 325-326).
Dal punto di vista storiografico gli studiosi sono concordi nel rilevare che in Italia fa fatica a vincersi la diffidenza nei confronti delle manifestazioni della cultura di massa, in particolare della sua emanazione nell’industria dell’intrattenimento (ovvero industrie creative, dello spettacolo, del design e della cultura materiale, Zanchini, 2013, p. 56); all’interno di essa, la televisione si porta addosso per anni lo stigma della peggiore incarnazione della barbarie culturale. Difficile allora che sia oggetto di
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commento critico circostanziato, quando i cronisti non ritengono valga la pena entrare nel merito della qualità delle singole produzioni televisive, quanto semmai ragionare sui suoi effetti come medium di massa. La resistenza degli studi sui media italiani all’approccio dei cultural studies, che Menduni ha evidenziato a proposito dell’omissione delle teorizzazioni di Raymond Williams nel panorama italiano (Menduni, 2000, p. 18), incrociata con la diffidenza degli intellettuali nei confronti del medium «forma di sottocultura imbonitrice delle masse» (ivi, p. 23), hanno avuto come conseguenze l’incapacità di riconoscere nella neotelevisione un linguaggio specifico, e dunque la presenza limitata di analisi in profondità sia del fenomeno sociale, sia del medium come insieme di testi.
Grasso sottolinea questa apparentemente irriducibile contraddizione tra il valore intrinseco dell’oggetto e quello attribuitogli dall’esterno:
Il grande cruccio della critica televisiva nasce infatti da una difficoltà logica
insolubile: il sostantivo si riferisce a una attività che normalmente si esercita nel
campo dell’estetica; l’aggettivo indica invece la presenza di un oggetto, di una materia, che si presenta da subito spoglia di ogni connotazione estetica. (Grasso, 2010,
p. 10)
Tanto basterebbe a delegittimare il programma televisivo dall’attenzione critica, anche se appare comunque riduttivo riportare la critica esclusivamente all’osservazione della dimensione estetica, ma la discussione sulla televisione assume i contorni dell’interrogazione sull’educazione, sull’etica, sulla costruzione di un’opinione pubblica e il veicolamento di messaggi.
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Secondo Rixon, due concezioni confluiscono nell’idea di critico: quella di «expert or judge» e quella di «public guide» (Rixon, 2011, p. 232). Nonostante il ruolo potenziale di guida, però, ancora Grasso ricorda che il critico televisivo si ritrova in una posizione atipica, rispetto ai colleghi impegnati con l’interpretazione di altre opere, perché nel suo operato viene meno per forza di cose a una delle funzioni della critica quotidianista, quella «divulgativa […] di orientamento al consumo» (Bisoni, 2006, p. 9): infatti «il critico televisivo parla di un prodotto che è già stato consumato la sera prima» (Grasso, 2010, p. 14), fornendo dunque un commento circostanziato a ciò che verosimilmente anche lo spettatore ha già visto; un’opinione che cerca la complicità dello spettatore, il quale sa già di cosa si sta parlando.
Tuttavia l’assenza della critica culturale sui quotidiani italiani è una caratteristica strutturale, che avrebbe radici proprio nella storicamente diversa concezione del mezzo stampa. Il modello liberale anglosassone è strettamente connesso all’intervento economico degli inserzionisti, che investono in tutte le sezioni del giornale. Ciò si traduce nel ricorso massiccio a ricerche sulla readership e alla profilazione il più precisa possibile dei lettori, che diventano già “clienti” al momento della costruzione delle news. Anche la sezione culturale diventa allora uno spazio utilizzabile per l’orientamento dei consumi del lettore, dunque influenzato dai dati in possesso degli uffici marketing: ne consegue la produzione di notizie con l’intento di seguire con attenzione i desideri e i gusti del lettore.
Niente di tutto ciò accade in Italia, dove la sezione culturale non è considerata appetibile dai pubblicitari. Questa connotazione ha fatto sì che essa conservasse nel tempo una maggiore libertà rispetto alle altre sezioni dei quotidiani, «mantenendo una sorta di statuto privilegiato rispetto alla linea del resto del quotidiano» (Zanchini,
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2014, p. 88), statuto che per anni si manifesta anche nel ricorso ad articoli sofisticati e impegnativi nella scrittura e nei temi, mirati a pubblici istriuiti. Per questo Zanchini parla di opposizione tra due “cifre” giornalistiche: la recensione per il modello anglosassone, ovvero un tipo di articolo che è pensato per valutare un bene culturale e dunque più o meno implicitamente atto a indirizzare il lettore verso un acquisto, un consumo; la discussione per quello italiano, innescata da articoli di riflessione e spesso mirati a vivacizzare il contesto culturale piuttosto che al prodotto in sé (Zanchini, 2014, p. 74).
Al di là di questa distinzione concettuale, la recensione fa in realtà parte della strumentazione critica del quotidiano, e anzi la sua diminuzione o sparizione sono sovente indicate come sintomo e simbolo dell’esaurimento della rilevanza delle pagine culturali, esplicitata nella diminuzione di spazi, peso, forze rispetto al giornale e al dibattito. Se tra le caratteristiche della critica sui quotidiani ci sono «un contesto di forti condizionamenti istituzionali» e «una forma di scrittura […] fortemente codificata» (Bisoni, 2006, p. 11), appare evidente che queste osservazioni sono valide in particolare per le recensioni, che sui quotidiani riguardano principalmente libri e film: sia su «La Repubblica» che sul «Corriere della Sera» le recensioni di libri e film compaiono una volta alla settimana in approfondimenti dedicati alle uscite del momento, appunto perché è possibile una connessione con l’attualità del prodotto, e dunque è possibile riappropriarsi del ruolo di guida all’acquisto dell’oggetto. Se dunque per letteratura e cinema lo spazio, certamente ristretto, resiste, nella categoria tevisiva, recensioni e articoli con le caratteristiche dello specifico genere della critica sono eccezioni: è più appropriato parlare di commento,
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valutazione sulla performatività, sulla qualità, sul successo di un determinato programma.
Come accennato da Grasso, una motivazione sottesa all’uso di una “critica in forma ridotta” nelle pagine televisive può essere rintracciata nel venire meno della relazione tra la review e l’acquisto del singolo bene culturale: il programma televisivo è parte di un sistema di distribuzione connesso a un medium, il prezzo del servizio è pagato in anticipo indipendentemente dai contenuti, sia che si tratti del canone Rai che dell’abbonamento Sky. Anche se questo quadro non corrisponde più completamente alla situazione odierna, dominata dal frazionamento tematico dell’offerta e dalla moltiplicazione dei soggetti che offrono pay-per-view, il modello di costruzione dominante del palinsesto come «principio ordinatore» (Barra, 2015) rimane lo stesso: una programmazione strutturata in stagioni, settimane, fasce orarie.
Nondimeno servizi come Rai Replay offrono le repliche di molti dei programmi televisivi, che dunque possono essere recuperati in qualunque momento successivo alla trasmissione. Allo stesso modo nel caso di prodotti narrativi in prima visione, come le serie televisive, può riemergere la funzione orientativa rispetto al passaggio dall’anteprima su un canale pay al passaggio in chiaro (senza contare l’utilizzo di streaming e download irregolari). In questo senso l’articolo quotidiano può recuperare quel ruolo di orientamento che non avrebbe altrimenti.
Il caso dei telefilm e delle serie televisive diventa allora interessante proprio nell’ultima decina d’anni, periodo di proliferazione e sfruttamento intensivo del format seriale da un lato, e di moltiplicazione dei dispositivi di fruizione dall’altro. La serie TV si imporrebbe come oggetto critico, oltre che oggetto di news, ma come
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vedremo più nel dettaglio in seguito, la trattazione da parte delle rubriche sui quotidiani è improntata ad aspetti conoscitivi, funzionali, più che interpretativi.
L’ingresso consistente delle serie televisive nei consumi audiovisivi degli italiani ha rappresentato una novità trasversale, che è entrata nell’agenda mediatica dei quotidiani nel momento in cui la convergenza di interessi tra audience, studiosi e operatori della cultura si è fatta più evidente. In quanto formato preesistente ma rinnovato nel linguaggio e nei contenuti, le serie televisive si prestano, sui quotidiani, ad essere oggetto di articoli informativi, il cui obiettivo è attirare l’attenzione su un titolo o su un altro; in quanto oggetti investiti di una reputazione crescente, si offrono ad approfondimenti e come fulcro di divagazioni sul concetto di qualità, sui parametri di artisticità dei prodotti culturali, sulla necessità di rinnovare l’offerta televisiva.
4.2. Le serie TV sui quotidiani italiani. «La Repubblica» e «Il Corriere