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3. PARADIGMI DELL’INTERAZIONE: SPETTATORIALITÀ CONNESSA

3.3. Indagare la social TV

3.3.2. Tra partecipazione e strategia

Un’analisi del fenomeno social TV non può dunque non tenere conto della tensione tra la prospettiva dell’engagment tattico degli spettatori e quella dell’attivazione di questo stesso engagement come strategia dell’emittente.

Consideriamo pratiche di social TV sia applicazioni dedicate che i commenti possibili attraverso sistemi integrati alla visione, come chat e forum, sia l’uso di spazi collettivi, come gruppi o pagine Facebook, che permettono di interagire in qualunque momento durante la visione o subito dopo. Questi spazi di socialità digitale possono essere messi a disposizione dagli stessi soggetti produttivi del contenuto, ad esempio i siti delle reti televisive che permettono di guardare i programmi in streaming e contestualmente commentarli, o gli stessi profili social ufficiali. La dinamica tra la dimensione partecipativa che nelle sue emanazioni più attive dà origine a fenomeni di produzione grassroots, e l’utilizzo di queste stesse pratiche da parte dei livelli top

15 Il concetto di rimediazione è teorizzato nel noto volume di Bolter e Grusin (2006).

16 Dimensione che ritorna, anche se differita, in tutte le pratiche di discussione e commento post-

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della struttura produzione-fruizione, è un aspetto della questione da tenere presente, che si aggiunge al generale ridimensionamento degli entusiasmi legati alla partecipazione e alla cultura convergente (Hay, Couldry, 2011; Dorfles, 2015). Molte delle critiche alla convergenza come cultura proposta da Jenkins nel suo celebre volume si concentrano proprio sull’eccessiva enfasi conferita allo user attivo. Ad esempio, all’interno del numero di «Cultural Studies» curato da Hay e Couldry (2011), Rethinking Convergence/Culture, Bird si chiede se «siamo davvero tutti produser ora» (Bird, 2011), sottolineando come la prospettiva partecipativa del web 2.0 sottovaluti l’incidenza di altre forme meno attive di consumo mediale e tralasci di considerare realtà distanti da quella occidentale, ugualmente meritevoli di indagine: il fatto che l’ambiente online non sia accessibile non significa l’assenza di pratiche di audience attive. Non bisogna dunque dimenticare che la maggior parte delle audience è “silente” o meglio consuma i media e i prodotti audiovisivi senza che questo consumo sia tracciabile: non significa che sia necessariamente un consumo passivo, ma anzi che anche nell’ambito del consumo attivo le gradazioni, le tipologie, i gradi di intensità di questo attivismo sono moltissimi, e che raggruppare indistintamente qualsiasi approccio attivo sotto l’etichetta di una partecipazione online attiva può essere problematico. Come anche sottolineano Hay e Couldry nella loro introduzione (2011),

Although studies of convergence culture and trans-media have addressed a set of

questions regarding the political economy of contemporary media, their path to these

questions remains confined typically to conclusions about the agency of media

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citizenship’ matter within a robust, complex and contradictory sense of the current historical conjuncture. (Hay, Couldry, 2011, pp. 480-481)

L’ottimismo generalizzato nei confronti delle pratiche attive e “resistenti” dei produser finisce per far dimenticare il ruolo delle industrie dei media in tale scenario: a questo proposito Bird esprime la preoccupazione che «the focus on fan produsage and local agency downplays the power of media producers, who while they certainly respond to fan demands, have also learned quickly to co-opt fan activities and viral media.» (Bird, 2011, p. 507).

Lo stesso Jenkins, assieme ai co-autori Ford e Green, illustra in Spreadable Media un ambiente di circolazione dei contenuti «where a mix of top-down and bottom-up forces determine how material is shared across and among cultures in far more participatory (and messier) ways» (Jenkins, Ford, Green, 2013, p. 1), sottolineando che in certi casi, e in particolare nella diffusione di contenuti audiovisivi, la circolazione partecipata è sempre più frequentemente pilotata dagli stessi detentori di diritti.

Il discorso sulla social TV, sulle sue definizioni e sulle intenzioni e le possibilità di controllare l’attività parallela degli utenti rispetto ai programmi televisivi è dunque attraversato dall’interconnessione tra questi aspetti. Sebbene nella social TV l’aspetto di interrelazione e socialità sia estremamente rilevante, non si tratta di una pratica puramente partecipativa, «dal momento che le decisioni sui contenuti e il formato della trasmissione sono interamente a carico della redazione», anche se non pare del tutto legittimo affermare, come fa Maria Francesca Murru nel prosieguo della citazione, che il pubblico non ha alcuna voce in capitolo (Murru, 2015, p. 72). Come dimostra Mazzoli (2013) gli autori e conduttori dei programmi televisivi monitorano

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attentamente l’attività social dei propri spettatori, e in alcuni casi sono pronti a cambiare la scaletta in base alle reazioni dell’audience. È però vero che la dimensione partecipativa è solo una conseguenza di un’attività che si appoggia interamente su strumentazioni già predisposte per favorire l’interazione.

Tra consumatori e produttori è in atto una dialettica ambigua:

da una parte i consumatori sembra abbiano la propensione a ridefinire lo statuto dei contenuti mediali […] Dall’altra parte, i produttori di contenuti tengono sempre più conto delle caratteristiche degli UGC [user genereted contents, N.d.R.] nella ideazione

e messa in circolazione dei prodotti audiovisivi. (Colombo, 2015, p. 44)

Questa ambiguità si riverbera ogniqualvolta gli strumenti digitali atti all’interazione sono predisposti dai soggetti proprietari. Questa caratteristica inficia in parte il ruolo partecipativo degli utenti, se esso è governato da scelte fatte dall’alto: «[s]i tratta piuttosto di una forma di interazione tra programma/conduttori e spettatori che, pur non incidendo sui processi decisionali, instaura una forma di reciprocità tra produzione e fruizione» (Murru, 2015, p. 72).

Come abbiamo accennato nel precedente paragrafo, certi casi più che altri si prestano alla partecipazione dell’audience: in alcune situazioni l’interazione attiva degli spettatori alla discussione è ricercata e stimolata direttamente, come ad esempio nel caso dei talk show politici, genere particolarmente frequentato nella televisione italiana degli ultimi anni, che costituisce un luogo interessante in cui osservare il fenomeno delle audience «non più silenziose» (Giglietto, Selva, 2014, p. 3). Nelle arene dei talk show la presenza del pubblico in studio è raddioppiata da quella del pubblico che si fa sentire sui social media: come suggerisce Murru, lo spazio social

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diventa complementare rispetto alla messa in scena principale, un «proscenio esteso» (Murru, 2015, p. 74). Il terreno della tematica politica è allora particolarmente indicato per constatare quanto le audience contemporanee siano abilitate a intervenire attivamente nel dibattito pubblico a partire da ciò che viene diffuso e distribuito dai media. Analizzando la partecipazione social dei pubblici dei talk show, Giglietto e Selva propongono le attività di partecipazione discorsiva degli spettatori dei talk show come territorio dell’emergere di due tipi di contrasto, quello tra classe politica e cittadini, e quello tra i “mandanti” del programma televisivo (autori, conduttori) e audience. In questo caso, analizzando le interazioni tra componenti delle audience di talk show su Twitter nel corso di una stagione televisiva, ovvero i tweet, retweet, menzioni e reply connessi ai programmi, agli ospiti e agli argomenti da essi sollevati, è possibile stabilire quali sono gli elementi che formano un pubblico engaged, possibile primo step verso un coinvolgimento politico maggiore del cittadino.

Abbiamo visto come nel sistema mediale contemporaneo diversi confini tra ruoli tradizionalmente oppositivi vadano a sfumarsi. Quello tra amatori e professionisti, quello tra produttori e consumatori, quello tra media mainstream e non. In generale si delinea l’emergere di un nuovo spettatore che non solo usa le possibilità tecnologiche della televisione –ovvero i mezzi messi a disposizione a monte dai servizi di offerta di programmi – ma che a sua volta si dota di un’ampia gamma di strumenti che lo immergono in un mondo interconnesso, in cui i punti di accesso allo scambio di informazioni sono molteplici e integrati nella vita quotidiana. La dieta mediale si adegua ad un tempo e uno spazio in cui «il consumo dei contenuti mediali e new-

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mediali non è più limitato a fasce orarie prestabilite e a momenti prefissati dall’emittente, ma si espande e permette una fruizione senza specifiche strutturazioni fisiche» (Mazzoli, 2013, p. 15).

Tuttavia è necessario tenere conto della registrazione che di queste tendenze viene fatta da chi detiene il potere di adeguare i propri strumenti ai trend spettatoriali e ai comportamenti mediali delle audience, ovvero le industrie culturali, e più in generale i media mainstream. È importante non separare la constatazione di una padronanza maggiore degli user di oggetti che permettono di costruire a piacimento la propria routine (ad esempio, nel caso analizzato da Mazzoli, le proprie abitudini informative) e di comporre il proprio patchwork mediale (Mazzoli, 2012), come app, blog o social network accessibili da ogni device mobile, dalla consapevolezza che si tratta di strumenti predisposti all’uso da chi progetta e “disegna” le stesse modalità di circolazione dei contenuti. Tenendo a mente tutto questo è da sottolineare come internet sia il contesto principale in cui istanze dall’alto e dal basso convivono e si compenetrano, più che scalzarsi vicendevolmente, configurandosi come proprietà che attraversano tutti i media (Mazzoli, 2013, p. 42).

Nel rapporto con i contenuti a disposizione, l’avere a portata di mano oggetti componibili permette di costruire le proprie routine: il modello del patchwork mediale proposto da Mazzoli (2012) ci sembra efficace non solo rispetto ai contesti informativi, ma come figura utile a identificare in senso più ampio tutti i tipi di approccio dell’utente/spettatore rispetto all’overload di stimoli, fonti e risorse a disposizione.

Il panorama mediale composito e caratterizzato dall’abbondanza che ci viene descritto dalla letteratura scientifica, non trova però un’adeguata narrazione quando

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si vanno a indagare gli oggetti di interesse e le percezioni del consumo culturale restituita nei luoghi tradizionali del discorso culturale. Nel prossimo capitolo ci concentreremo sul quadro della cultura che emerge dai quotidiani italiani, sottolineando come nei luoghi istituzionali dell’informazione si faccia fatica a liberarsi di una suddivisione in cultura alta e bassa: l’analisi delle pagine culturali e dell’approccio dei quotidiani alla serialità televisiva fanno emergere a nostro avviso questa contrapposizione, in modo particolare nel momento in cui metteremo a confronto il discorso sui quotidiani con quello presente online.

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