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Critica della scelta

Nel documento “Tenetevi il matrimonio, dateci la dote” (pagine 144-177)

La detradizionalizzazione dell'intimità

A partire dalla fine degli anni Ottanta una serie di studi nel campo della sociologia hanno iniziato a interrogarsi sulle trasformazioni in atto nel campo dei costumi sessuali e della vita familiare nelle società occidentali, tutte più o meno riconducibili alla perdita di presa del modello coniugale come sede privilegiata degli affetti, della riproduzione e della pratica legittima della sessualità. Al di là della maggiore enfasi data a questo o quell'aspetto di questo processo, del valore positivo o negativo attribuito ai cambiamenti in corso, e delle diverse ipotesi circa le loro cause, il tratto comune a tutti questi studi è quello di vedere le trasformazioni dell'intimità come parte di un processo di detradizionalizzazione che fa sì che una porzione sempre maggiore del comportamento degli individui diventi oggetto di scelta individuale e non più di tradizione, consuetudine o costrizione strutturale (Gross 2005). In questo senso Beck-Gernsheim (1998 pag. 54) parla di "storie di vita do it yourself" che vanno a rimpiazzare un percorso di vita normale, normativo, già predisposto per ciascuno di noi dalla società.

È appunto Gross (2005) ad utilizzare l'espressione “detradizionalizzazione dell'intimità” per mettere in evidenza tale paradigma comune. Il termine “detradizionalizzazione”, evidentemente problematico dal punto di vista della critica postcoloniale e della teoria antropologica più avvertita, proprio per questo è estremamente appropriato per indicare questo filone di studi che appunto avvalorano senza particolare consapevolezza critica una certa idea di “tradizione” e la contrapposizione fra “moderno” e “tradizionale”.

Il motivo per cui sento il bisogno di occuparmi di questi lavori è che la narrazione della tarda modernità e delle trasformazioni contemporanee dell'intimità che essi veicolano è diffusa ben oltre i confini dell'accademia: in qualche modo, il loro discorso è diventato pop (o il discorso pop è diventato il loro?) e trova riscontro nel giornalismo di costume, nella letteratura non specializzata, nei manuali di self help, nei dibattiti politici, nel senso comune (Walker 2009; Easton &Hardy 2014;

Felice 2016). In particolare, l'infuocato dibattito su se queste trasformazioni debbano essere salutate positivamente (come fa Giddens 1992) o negativamente (come fa Bauman 2003), se insomma i vantaggi in termini di libertà e democratizzazione dell'intimità valgano i costi in termini di insicurezza e rischio, se andiamo incontro all'apocalisse o meno, tende a occultare la possibilità (1) di contestare che le cose stiano andando effettivamente così (spazio crescente lasciato alla scelta individuale) e (2) di chiedersi, a monte, se questo modo di impostare il problema (libertà vs. sicurezza, individuo vs. legame sociale) sia quello giusto o comunque l'unico possibile. La forza di attrazione di questo dibattito, inoltre, tende in qualche modo ad arruolare forzatamente a favore di questa lettura, o comunque a farci leggere alla luce di questa impostazione del problema, anche i risultati di studi, come quello molto citato di Weston Families we Choose (1992) che si pongono domande diverse.

Il discorso della detradizionalizzazione – sia nella sua versione pessimista che in quella ottimista – deve a mio avviso molto del suo successo all'assonanza con il discorso del Progresso, con l'idea che lo sviluppo economico (capitalista),172 la democratizzazione e la liberalizzazione dei costumi sessuali siano naturalmente destinati ad aumentare, e a farlo di pari passo. Inoltre, le analisi dei sostenitori della detradizionalizzazione sono spesso molto in linea con le esigenze della governance neoliberale: di fatto, questi discorsi naturalizzano la norma e presentano il discorso del potere come la meccanica neutra delle società tardo-capitaliste; e persino il tipo di critica che essi attraggono finisce per essere a sua volta funzionale alla necessità dell'arte di governo liberale di produrre sempre nuove libertà (Foucault 2012).

Nel corso del capitolo, argomenterò brevemente questa tesi, e cercherò di evidenziare, a partire dal materiale etnografico raccolto, il carattere parzialmente non-scelto di molti legami di intimità anche non normativi, sostenendo che tanto la contrapposizione scelta individuale/norma sociale quanto la contrapposizione legame scelto/legame ascritto costituiscono un linguaggio fondamentalmente inadeguato quando si parla di legami affettivi. Avanzerò inoltre l'ipotesi che la capacità di riconoscere e accogliere il carattere parzialmente non-scelto delle relazioni affettive possa rappresentare una potenzialità politica di resistenza rispetto all'iper-responsabilizzazione dell'individuo sollecitata dalla governance neoliberale.

La narrazione della tarda modernità come detradizionalizzazione è anche complice di un discorso neocoloniale: sappiamo fin troppo bene che il presunto espandersi delle "opportunità"

172Questa qualificazione non è esplicitata quasi mai, perché questo viene presentato come l'unico sistema economico possibile

avanza lungo una traiettoria che è al tempo stesso paradossalmente temporale e spaziale, in modo tale da costruire certi paesi, certe culture e certi ambienti sociali come "avanzati" e altri come "arretrati" (Fabian 2000; Mudimbe 2007). I movimenti queer, in particolare queers of color negli Stati Uniti e nel Nord Europa (Feinberg 2006; Haritaworn, Tauqir, &Erdem 2008), e i gruppi di cui io stessa faccio parte in Italia (Facciamo breccia; Acquistapace et al. 2016), hanno molto criticato questa strumentalizzazione razzista e “sviluppista” delle questioni lgbtiq e femministe, analizzandone approfonditamente i risvolti e la genealogia. In Italia, abbiamo visto all'opera questo discorso durante la campagna a sostegno della proposta di legge sulle unioni civili fra persone dello stesso sesso. Nella parte finale del capitolo, riporterò la riflessione di alcune partecipanti che leggono la propria esperienza di emigrazione dal Sud e dalle Isole verso i centri urbani del Nord e la costruzione di reti affettive queer non come emancipazione da culture familiari o familiste “arretrate” ma come un complesso insieme di risorse e possibilità per la costruzione di reti di intimità, solidarietà e cura non incentrate sulla coppia. Ciò ci darà occasione di riflettere su alcuni possibili modi di "provincializzare il queer" (Chakrabarty 2004) o queerizzare le rappresentazioni del Sud e sul significato politico di queste operazioni.

Tutti parlano di scelta, ma su piani diversi

Il tema della scelta è centrale per lo studio della relazionalità nel contesto occidentale contemporaneo e ricorre in molti studi, appartenenti a framework teorici e disciplinari diversi.173

La grande popolarità della retorica della scelta individuale contrapposta alla costrizione sociale nel campo della relazionalità non deve far perdere di vista il fatto che in realtà, talvolta anche nel medesimo studio, il concetto di scelta è utilizzato in sensi e su piani diversi. Piani che, per quanto interrelati, o forse proprio perché interrelati, andrebbero individuati e articolati fra loro, e non appiattiti l'uno sull'altro come spesso accade (Gross, 2005 pag. 287). Proviamo a districarli:

• una cosa è dire che le persone oggi si percepiscono come soggetti che sono legittimati – e in un certo senso anche obbligati: moralmente obbligati verso se stessi – a perseguire la propria autorealizzazione individuale, e a fare delle scelte rispetto a come vivere la propria vita in

173Per la stesura delle pagine che seguono sono stati presi in considerazione nel dettaglio (Beck-Gernsheim 1998; Beck and Beck-Gernsheim 1995; Bauman 2003; Weeks, Heaphy, and Donovan 2001; Grilli and Zanotelli 2010; Weston 1992; Giddens 1992; Spencer and Pahl 2006; Wilkinson and Bell 2012; Bell and Coleman 1999; Gribaldo 2010; Lynn Jamieson 2006) e la rassegna critica di Gross 2005, che prende in esame oltre ad alcuni dei testi predetti anche Castells 1997, e una serie di testi anche molto diversi che riconduce alla critica della scuola di Francoforte sulla mercificazione quali Illouz 1997; Hochschild 2003; Lasch 1979; Kipnis 2003; Habermas 1987.

funzione di questo obiettivo;

• una cosa leggermente diversa è dire che la capacità di scegliere è valutata positivamente, e che raccontarsi come soggetto che ha fatto delle scelte è considerato molto più cool che rappresentarsi, ad esempio, come un soggetto che ha diligentemente obbedito a obblighi sociali imposti; su questo stesso piano dell'autorappresentazione, ma con una più articolata consapevolezza dei piani strategici, contestuali e conflittuali della produzione di discorso, si può dire (come ha fatto Kath Weston [1992] per le lesbiche e i gay di San Francisco degli anni Ottanta) che raccontarsi in questo modo risulta strategico per determinati soggetti, in un preciso contesto, per ragioni specifiche che l'analisi etnografica cerca appunto di indagare.

• una cosa ancora diversa è dire che il ruolo crescente occupato dalla scelta individuale nel determinare la storia di vita delle persone, e la necessità di scegliere continuamente fra diverse opzioni, sono in qualche modo un dato di fatto, una conseguenza strutturale di cambiamenti culturali e materiali avvenuti nella parte centrale del XX secolo, che hanno ridotto il grado di codificazione sociale dei comportamenti, aumentando il numero di opzioni disponibili per ciascun individuo.

Nel primo e nel secondo caso, l'enfasi sulla scelta fa parte in qualche modo della soggettività o dell'autonarrazione dei soggetti; nel terzo caso, il concetto di scelta è una categoria che il ricercatore utilizza per descrivere/analizzare una serie di fenomeni o di presunte tendenze della società.

Inoltre, sia quando il lessico della scelta fa parte del discorso dei partecipanti sia quando fa parte dell'analisi del sociologo/a o antropologo/a, esso può far riferimento al "chi" o al "come" delle relazioni di intimità, o a entrambi. Nel parlare di famiglie di amici come famiglia scelta, ci si riferisce tanto al fatto che le persone che fanno parte di questa famiglia ce le siamo scelte, e non ci sono parenti per nascita, sia al fatto che abbiamo scelto di configurare la nostra geografia affettiva in questo modo, di darle questa forma, che non è esattamente il modello che va per la maggiore né il valore di defaut al quale si viene educati. Ma in realtà, anche chi si sposa e mette su famiglia in un modo percepito come “consueto” o “tradizionale” può rivendicare di averlo fatto perché lo ha scelto, e di aver considerato anche la possibilità di non sposarsi (Grilli 2010; Zanotelli 2010). Allo stesso modo, spostandoci sul piano del discorso analitico prodotto dalle scienze sociali, nel concetto di detradizionalizzazione rientra tanto il fatto che il soggetto può scegliere se restare single, se sposarsi o se coabitare senza formalizzare la propria unione, se avere figli o no e quando e come,174

quanto il fatto che il soggetto sceglie con chi fare ciascuna di queste cose, tendenzialmente senza più limitazioni o con molte meno limitazioni rispetto alla classe sociale, alla razza e in una certa misura al sesso e al genere del partner, in contrapposizione a epoche storiche e/o società in cui il partner viene scelto dalla famiglia, dal clan o comunque dal gruppo sociale cui il soggetto appartiene in funzione delle alleanze che il gruppo ha bisogno di stabilire con altri gruppi.175

Per quanto riguarda l'antropologia della parentela e dell'amicizia nel contesto occidentale, il concetto di scelta compare per lo più all'interno della contrapposizione fra rapporti scelti e rapporti “dati”, dove per antonomasia “kins are given, friends are chosen”. Talvolta questa opposizione viene evocata proprio per sfumarla e relativizzarla, ma la validità di questa concettualizzazione in sé è generalmente accettata. Anche David Schneider, come noto, utilizza la contrapposizione sangue/scelta, ma su un piano e in un senso completamente diverso da come la usano i sociologi o il senso comune: Schneider infatti è sempre estremamente attento a precisare che, per quanto lo riguarda, i risultati della sua ricerca valgono solo per la cultura nordamericana, e per la cultura nordamericana vista in quanto sistema simbolico.176 Egli infatti opera una precisa distinzione, di ascendenza parsoniana, fra la cultura come sistema di simboli e significati e i codici di comportamento (o norme). Poiché la prima ha a che fare con la domanda “com'è fatto il mondo?” e i secondi con la domanda “dato che il mondo è fatto così, come deve agire l'uomo al suo interno?” , non si tratta, ovviamente, di piani slegati (2004, pag. 261). Schneider tuttavia chiarisce di essersi occupato esclusivamente del piano simbolico, e per di più colto solo nella sua dimensione sincronica.177 Si tratta di scelte programmatiche e che devono essere di necessità rigorose, perché il

175Interessante come nella presentazione del progetto CAVA (http://www.leeds.ac.uk/cava/aboutcava/overview.htm) delle questioni che io intenderei più come dei problemi materiali (a chi ci rivolgiamo quando abbiamo bisogno, a chi lasciare i bambin* quando siamo a lavoro, dove andare a vivere dopo il divorzio) vengono definiti “dilemmi”. Come se avessimo così tante opzioni e una escludesse l'altra e non sapessimo chi scegliere? Come vedremo nei capitoli 5 e 6, per le persone coinvolte in questa ricerca lo stress prodotto delle microscelte quotidiane su come organizzare la propria routine, come ottimizzare il proprio tempo e le proprie energie, quale mezzo di trasporto usare per spostarsi da un lavoro all’altro e cose simili è un problema molto più pressante di questi “dilemmi”, su alcuni dei quali (who do we turn to when we’re in need?) tutto sommato se la sono cavata invece abbastanza bene. E l’indecidibilità strutturale circa l’effettiva rilevanza di ciascuna di queste micro-scelte è parte integrante dello stress.

176“This book is intended to be an account of the american kinship system as cultural system , as a system of symbols, not as a description at any level. (…) It is not (…) an account of what americans say (…) about kinship, although is based on what americans say. (…) not what they think [...] altought it is based on [what they think] (…) not what they actually do in their day-to-day behaviour in situations of family life” (Schneider, 1980).

metodo di analisi scelto da Schneider, l'analisi dei tratti differenziali, non è applicabile se non a queste condizioni. Lo stesso Schneider, di fronte alle critiche che gli vengono rivolte successivamente, riconosce serenamente i limiti e le peculiarità di questo metodo, che come ogni metodo si presta a mettere in evidenza alcuni aspetti dell'oggetto di ricerca occultandone altri.

Per quanto riguarda la sociologia, come abbiamo già accennato, la questione della scelta si situa generalmente all'interno della questione del “di più” di scelta che ci è concesso su come organizzare la nostra vita intima (e non solo) in confronto a un più o meno fantomatico passato. Alcuni autori tendono a relativizzare la portata di questo aumento di libertà o a qualificarlo come apparente, o con l'affermazione paradossale secondo cui i soggetti avrebbero sì più margine di scelta, ma anche che “non hanno altra scelta che scegliere” (Weeks, Heaphy & Donovan 2001), o con l'osservazione che, se da un lato l'ingerenza della “tradizione” è andata restringendosi, dall'altro l'ingerenza di costrizioni di altro tipo, tra cui la necessità di negoziare la propria libertà con quella degli altri membri della famiglia, intervengono comunque a limitare i margini di manovra dei soggetti (Beck-Gernsheim 1998).178 Nonostante ciò, come vedremo, l'idea che si stia assistendo a una inedita liberalizzazione dei costumi sessuali e pluralizzazione dei modi di costruzione delle famiglie è molto enfatizzata, e con essa anche i rischi, le incertezze, le sfide che questo comporta per i soggetti sociali (e per chi li studia).

Affetti non scelti

Anche nei racconti dei partecipanti e delle partecipanti a questa ricerca ricorre spesso il concetto di famiglia scelta, contrapposto a "famiglia di sangue" o "famiglia di origine", ad indicare la rete di amici, amanti e relazioni senza nome che forma la costellazione affettiva e di solidarietà di ciascuno/a. Spesso, tra le due “famiglie” vi è anche una contrapposizione geografica, poiché quasi sempre la famiglia di origine è altrove: "la mia famiglia qui" o "la famiglia che mi sono costruita/o" viene spesso opposta, nei racconti, a "la mia famiglia di sangue/di origine" o a "la mia famiglia in Sardegna/la mia famiglia giù" (o ancora a "la mia famiglia proprio", “la mia famiglia in senso classico” ecc.).179

responsive to to the actual conditions of life (…), to the joys and sorrows of life (…). One essential problem, then, is to chart the relationship between the actual states fo affairs and the cultural constructs (…) But it is not the one I have chosen” (Schneider, 1980, pag. 7, corsivo mio).

178Lasciamo per il momento da parte, perché di ordine diverso, la critica di quelli che pensano che questa libertà è apparente perché in realtà è orchestrata dal consumismo.

Sarebbe sicuramente interessante riflettere sugli stratagemmi linguistici attraverso i quali i/le partecipanti denominano queste due tipologie di rete di relazioni, più o meno integrate o separate nell'esperienza di ciascuno/a.180 Ritengo tuttavia più interessante, in questa sede, focalizzare l'attenzione sul fatto che, indipendentemente dal modo in cui scelgono di designare linguisticamente le loro geografie affettive, molte/i partecipanti raccontano storie da cui emerge come spesso ci si possa affezionare a persone che non solo non si sono scelte, ma che mai e poi mai avremmo scelto, se avessimo potuto decidere, come coinquilin* o collegh* di lavoro antipatic*, o anche come sia possibile restare in qualche modo legati a persone con le quali si è addirittura scelto di terminare un rapporto di intimità, di frequentazione quotidiana, o di amicizia (come abbiamo visto, è questo il caso di molte/i ex partner, ex "migliori amici", o ex amici coabitanti). Si tratta di un'esperienza nella quale probabilmente molt* lettor* si potranno riconoscere; si tratta, in fondo, di una banalità, se non fosse che questa esperienza così comune spesso non assume, nella riflessività dei soggetti così come in quella di molti ricercatori, la dignità teorica di esperienza significante.181

Abbiamo già parlato di come ci si può sentire affettivamente legati a persone con cui si è condivisa una casa, un luogo e una situazione di lavoro, una situazione di emergenza o addirittura un lutto – persone che non ci siamo scelti e che non avremmo mai scelto, se avessimo potuto scegliere. Un altro esempio di relazioni affettive non scelta, o non propriamente scelte sono quelle che abbiamo esaminato nel capitolo 2, cioè quelle fra alcuni/e ex partner, o fra persone che sono state strette da un'amicizia molto forte che poi è finita, specialmente quando questa è stata accompagnata anche da una esperienza di coabitazione. Si tratta di persone che hanno deciso di

proprio perché “suona troppo istituzionale”, o quell* più interni alle reti politiche transfemministe che le chiamano altre intimità.

180Sia che enfatizzino il tratto geografico o quello della scelta/costruzione contrapposto a sangue/origine, o che preferiscano ancora altre espressioni e concettualizzazioni, è impossibile trarre conclusioni immediate dagli usi linguistici de* partecipanti: da un lato, infatti, anche per questo sistema simbolico molto provvisorio, contingente, locale, o magari emergente, bisogna tenere a mente l'osservazione di Schneider rispetto al fatto che il sistema lessicale non corrisponde necessariamente al sistema delle unità culturali (Schneider 1980); dall'altro bisogna ricordare che le scelte linguistiche non sono mai solo il riflesso dell'effettiva percezione e interpretazione che il soggetto ha della realtà empirica di cui sta parlando, ma anche della sua percezione di come (e se) quella realtà è esperita dagli altri parlanti in generale e dal suo interlocutore in particolare, di come (e se) è culturalmente codificata e degli obiettivi specifici della conversazione in corso.

181Mi riferisco a quanto detto nel cap. 3 a proposito di “Performatività della ricerca”, rispetto al fatto che certe parti dell'esperienza hanno più dignità e diritto di dare senso alla vita o dare l'avvio a ragionamenti e valutazioni biografiche rispetto ad altri. Per questo la parola giusta è significante, non significativo.

smettere di vedersi, che si sono persino impegnate per sradicare i sentimenti di amore, di reciproca appartenenza, le abitudini e le pratiche di cura che le univano, ma che in qualche modo a un certo punto si sono accorte – o in altri casi sapevano fin dall'inizio – di non poter cancellare completamente il legame. Questo legame spesso si rende visibile in forme di cura reciproca intense, ma limitate nel tempo e nelle modalità: ci si cerca in momenti particolarmente difficili, per comunicarsi eventi particolarmente importanti (malattie, lutti, nascite, la propria transizione di genere, altre esperienze significative) o confidarsi e confrontarsi su qualcosa di specifico e limitato, oppure per chiedere aiuto pratico.

Dov'è l'elemento della scelta in tutte queste relazioni? Nel caso dei coinquilini, sicuramente c'è una scelta a monte, per quanto limitata da costrizioni economiche, nel decidere di condividere un appartamento in una certa città piuttosto che continuare a vivere con la propria famiglia d'origine o vivere in un monolocale in una cittadina di provincia in cui gli affitti potrebbero essere più economici. E c'è in tutti i casi una scelta a valle, nel dare spazio e legittimità a questi affetti non scelti, nel dargli un valore positivo e in una certa misura coltivarli, invece che delegittimarli o tentare di sradicarli ("ci sono persone che invece pensano che se provi ancora qualcosa per il tuo ex,

Nel documento “Tenetevi il matrimonio, dateci la dote” (pagine 144-177)

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