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Con l’aumentare della sua popolarità il fair trade ha inevitabilmente portato con sé anche molte critiche, provenienti da posizioni spesso lontane.

Molti economisti pensano che il CEeS sia un tipo di sussidio che frena la crescita, mentre personalità di spicco della sinistra lo accusano di non aver impattato adeguatamente sul sistema tradizionale, influenzando solo in maniera ridotta il cambiamento.

Esaminiamo più nel dettaglio le critiche mosse verso questo modello e il modo in cui i suoi sostenitori rispondono ad esse.

Fair Trade e beneficienza

Un’obiezione che viene fatta al CEeS propone uno schema alternativo in cui i consumatori del Nord comprano i prodotti del sud attraverso il mercato tradizionale e poi indirizzano verso opportune iniziative benefiche i risparmi per soddisfare i propri desideri di solidarietà.

Le argomentazioni per rispondere a questo primo punto sono numerose e Becchetti e Costantino le enunciano con grande chiarezza:

- solo gli acquisti equosolidali trasformano la solidarietà in un fattore competitivo e generano effetti positivi indiretti sulla responsabilità sociale dei produttori tradizionali;

- i canali del CEeS offrono servizi di stabilizzazione dei prezzi e di promozione dei lavoratori non qualificati, ma potenzialmente produttivi, nei mercati internazionali;

- non è detto che la beneficienza premi le persone produttive o potenzialmente tali;

- il CEeS, diversamente dalla beneficienza, fornisce un salario minimo, utile a risolvere i fallimenti del mercato in condizioni di monopsonio; - il CEeS con i finanziamenti anticipati permette ai produttori privi di

- il meccanismo di aiuto bottom-up può essere molto più efficiente dei sussidi governativi indirizzati ai poveri;

- unendo consumo e trasferimento sociale si riducono i costi di transazione per l’aiuto ai poveri rispetto al circuito usato per finanziare gli aiuti.

Distorsione del prezzo

L’ Adam Smith Institute ed altri oppositori denunciano il Fair Trade come molto simile ai sussidi all’agricoltura in quanto fissa un prezzo minimo dei beni in molti casi superiore al prezzo di mercato ed incoraggia così i produttori a produrre più del necessario, creando un eccesso di offerta che li spinge a vendere poi a prezzi più bassi su un mercato differente. Dello stesso avviso è Brink Lindsey, vice presidente della ricerca del Cato Institute, che accusa il Fair Trade di spingere i produttori ad aumentare la produzione. Anche se nel breve termine i produttori ne traggono benefici, nel lungo termine i critici sono preoccupati dello sviluppo e della crescita economica.

Hayes, Becchetti e Rosati rispondono affermando che il problema è il potere monopsistico degli intermediari. Infatti il prezzo di mercato è distorto perché riflette il basso potere contrattuale dei produttori, e non la produttività degli stessi: il prezzo del mercato tradizionale è abbassato dal livello di potere monopsista degli intermediari. Inoltre il principio della distorsione del prezzo non tiene conto della differenziazione del prodotto. Prendiamo come esempio il caffè: non esiste di un solo tipo, ma ci sono moltissime diverse varietà che si differenziano in termini di tecniche di produzione, di regione di provenienza etc. Anche la qualità, il packaging e, non ultimo, il valore di responsabilità sociale, contribuiscono a creare un tipo di prodotto differente. E’ quindi il consumatore che decide quale prezzo di mercato è accettabile per ognuno di questi prodotti. In questo senso il fair trade è un’ innovazione di mercato nell’industria del cibo e crea una nuova categoria di prodotti con una specifica curva di domanda e di offerta. Ad essi è connesso un valore intangibile di solidarietà e sensibilità ambientale.

Voto portfolio di élite

Il “voto con il portafoglio”, nonostante sia un meccanismo dal basso, si riferisce solo ad un’élite di consumatori, ad una cerchia ristretta della popolazione che può permettersi di accettare un prezzo più alto del prodotto. Compiere questo gesto di solidarietà verso i produttori del Sud del mondo resterà sempre una sensibilità che non tutti si possono concedere?

Si può rispondere a questa legittima perplessità ricordando che se il numero di questi consumatori, nonostante la crisi finanziaria, è sempre più in aumento, il fenomeno non può più essere considerato di nicchia, ma anzi di denuncia di un mercato che ha fallito nel garantire il benessere dei cittadini. Da uno studio compiuto sui gusti dei consumatori (Il commercio equo e solidale alla prova dei fatti. Becchetti e Costantino, 2006) si possono trarre alcune importanti considerazioni a riguardo: i consumatori con un reddito più basso scelgono di indirizzare ai prodotti equosolidali una quota di spesa inferiore rispetto ad un consumatore con reddito più elevato, ma denunciano la stessa disponibilità a pagare un prezzo più alto per le caratteristiche di questi prodotti (vedi tabelle in allegato). Si rileva inoltre che la variabile che influenza maggiormente la decisione di acquisto è la distanza dalla Bottega del Mondo più vicina, non il reddito. Altre determinanti sono l’età e la conoscenza dei criteri del commercio equo e solidale.

Inoltre si può aggiungere che, con l’ingresso nel settore delle multinazionali, i differenziali di prezzo si sono molto ridotti. Un altro strumento molto importante per consentire ad una fetta maggiore della popolazione di compiere questi acquisti potrebbe essere la detassazione dei prodotti.

Sostenibilità ambientale

Uno dei quesiti che si può rivolgere al Fair Trade è se incentivare il commercio internazionale, anche se i prodotti ad esso legati sono equi e solidali, non impatti sulla sostenibilità ambientale.

Ad esempio, il trasporto su lunghe distanze e gli imballaggi utilizzati influiscono sulla quantità di CO2 e di rifiuti messa in circolo. Ci sono casi però, come per i prodotti coloniali, in cui non esistono alternative; a meno

che non decidiamo di rinunciare a caffè, cacao e banane, i costi ambientali ad essi associati sono inevitabili.

Diminuzione del welfare dei non affiliati

Ci si chiede se i benefici degli affiliati non abbiano come controparte una riduzione del welfare verso i produttori locali non affiliati che si potrebbero trovare a fronteggiare una diminuzione della domanda (LeClair_ 2002). La verità, come spiegano Leonardo Becchetti, Marco Costantino ed Elisa Portale in una pubblicazione ( Human capital, externalities and tourism: three unexplored sides of the impact of FT affiliation on primary producers), è che in molte situazioni i produttori marginalizzati non hanno né le capacità né l’organizzazione per poter entrare nel mercato straniero; il Fair Trade invece, offrendo ai produttori un maggiore potere di vendita nelle trattazioni con gli intermediari locali, promuove questo loro inserimento nel mercato. Questo si ripercuote positivamente anche verso coloro che non sono affiliati. Inoltre, non esiste un limite di produttori totali che possono entrare a far parte del circuito Fair Trade.

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