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Le Cronache tra il «Giornale critico della filosofia italiana» e il volume Laterza: premessa ottocentesca

Un esercizio di lettura: tra Banfi e Gramsci

Le Cronache di filosofia italiana presentano una struttura molto stratificata, legata al percorso compiuto da Garin, particolarmente complesso negli anni della loro composizione. Nei primi capitoli questo intreccio di problemi e prospettive appare con maggior forza, giacché, pubblicati fin dal 1951, nel 1955 sono inseriti in un volume che si muove in direzioni nuove e, per certi versi, imprevedibili. Non bisogna, però, pensare che essi siano poco armonizzati nel contesto generale del volume, né tantomeno che abbiamo subito dei forti rimaneggiamenti rispetto alla versione apparsa sul «Giornale critico»: Garin non ha apportato modifiche al corpo del testo, mentre nelle note si è limitato ad aggiungere alcune osservazioni (oltre agli aggiornamenti bibliografici) senza cassare nulla. Cionondimeno, queste semplici aggiunte in alcuni punti hanno un ruolo decisivo nell’indirizzare il lettore lungo una strada che non necessariamente era la medesima rispetto alla prima apparizione dei testi. Inoltre, nel volume laterziano questi primi capitoli seguono immediatamente un’Avvertenza in cui si fornisce una chiave interpretativa da cui è difficile fare astrazione. Vi si trovano, infatti, alcuni importanti elementi, che pongono il fuoco dell’attenzione sugli anni del fascismo: si parla di «anni difficili», di «situazione non chiara» in cui «le allusioni e i sottintesi erano più frequenti delle parole sincere», specie per chi, come l’autore, apparteneva a quella generazione nata ai tempi della guerra libica e che comprendeva coloro che all’avvento del fascismo erano ancora ragazzi. Emerge subito, da un lato, il ruolo di Croce, che era stato capace di parlare a tre generazioni d’italiani, e «ben diversamente a chi l’ha ascoltato prima del ’20, fra il ’25 e il ’40, o dopo il ’43»; e, dall’altro, la grande forza anche polemica delle Cronache, col riferimento a chi negli anni Cinquanta «confessa di sorridere alle proprie debolezze d’uomo, e va citando le generose illusioni politiche di Platone e di Hegel»1. Non meno importanti sono le indicazioni metodologiche: Garin specifica che le Cronache non sono «una storia della filosofia italiana della prima metà del ’900», che in esse quasi non si fa menzione di

1 GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., pp. VI-VII. Nel decimo capitolo Garin fa esplicitamente

riferimento ad Armando Carlini (ivi, p. 453; cfr. ARMANDO CARLINI, Alla ricerca di me stesso. Esame

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«molte figure che sogliono essere considerate di primo piano», o anche che «uomini e dottrine sono qui considerati come espressioni di un tempo e, insieme, come forze che in un tempo agirono», dunque non come «spiriti disincarnati», ma come «persone reali»2. Non si tratta semplicemente di parlare «con una certa larghezza anche di scrittori considerati comunemente al margine della filosofia in senso tecnico», come era stato annunciato già a Spirito nel dicembre del 19503: il vero elemento di novità, facilmente riconducibile alla ‘scoperta gramsciana’, è costituito piuttosto dall’attenzione a «uomini e dottrine» intesi come «forze» che operano in un tempo. Gramsci viene citato testualmente nelle ultime battute in cui il volume è connotato come «una modesta cronaca, scritta non senza appassionamento partecipe, di programmi, di riflessioni, di umani sforzi, ed anche di idee, di quelle idee che “non sono partorite da altra filosofia, ma che sono espressione sempre rinnovata dello sviluppo storico reale”»4

. La lettura del volume s’avvia dunque sotto auspici ‘gramsciani’, che lasciano presagire un dialogo e un confronto con gli ambienti legati al Partito comunista.

Le Cronache prendono le mosse dalla situazione culturale e in generale filosofica della seconda metà dell’Ottocento: il «vigore speculativo» che nella prima metà del secolo aveva accompagnato «una vicenda politica assai complessa», sembra affievolirsi, e «le opere spiritualmente più profonde o non vedono la luce, o la vedono male, in deformazioni e mutilazioni non sempre disinteressate»5. Garin pone l’esempio dello Zibaldone di Giacomo Leopardi, degli scritti postumi di Vincenzo Gioberti e della Teosofia di Antonio Rosmini, tutte opere della generazione precedente che furono pubblicate in forme discutibili nella seconda metà del secolo. Sono autori di cui aveva grande considerazione, e in particolare di Gioberti aveva affermato in un manuale scolastico che la sua «visione politica […] si impiantava su una concezione

2

Ivi, pp. V-VI.

3 Ivi, p. V. Garin aveva scritto a Spirito che intendeva dare «largo posto a aspetti di cultura che dal punto

di vista professionale, o “professorale”, non si esaminano neppure» (GARIN, SPIRITO, Carteggio 1942- 1978 cit., p. 67). È questa un’impostazione che può essere riscontrata senza difficoltà anche nelle Note sul pensiero italiano del ’900 e che nell’avvertenza al volume sui Moralisti inglesi viene indicata

esplicitamente, ma in generale essa caratterizza tutto il lavoro storiografico di Garin.

4 GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., pp. VII-VIII. Gramsci non è nominato, ma certo per il

pubblico colto dell’epoca non era difficile riconoscerlo. Al medesimo brano gramsciano Garin fa riferimento in conclusione dell’ottavo capitolo, lo stesso da cui erano state tratte le ‘anticipazioni’ per «Il Contemporaneo», per quanto questo parte non vi fosse compresa (ivi, p. 374; cfr. GRAMSCI,

Quaderni cit., p. 1134). 5 Ivi, pp. 1-2.

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filosofica, che è forse la più profonda dell’800 italiano»6. Per questa lettura dei rapporti tra il pensiero italiano della prima e della seconda parte dell’Ottocento, Garin nella prima nota si richiama sia a Croce (Storia d’Italia) sia a Gentile (Le origini della filosofia contemporanea in Italia), entrambi concordi nell’individuare alla metà del secolo un momento di crisi speculativa, che aveva una radice morale e religiosa7. Prende invece le distanze da Antonio Banfi, e in particolare dal saggio Verità e umanità nella filosofia contemporanea, apparso prima su «Studi filosofici» nel 1947 e poi raccolto ne L’uomo copernicano8. In questo volume – e in generali nei saggi pubblicati dopo la guerra su «Studi filosofici» – trova espressione l’orientamento politico e ideologico di Banfi, il quale arriva a formulare giudizi estremamente duri sulla cultura più recente, valutata secondo un criterio interpretativo marxista che a Garin doveva apparire non privo di rigidità9. Garin dissente da Banfi nella valutazione di Rosmini e Gioberti: nelle loro opere sistematiche, ritenute «costruzioni composite e arcaiche, grevi di dogmatismo metafisico, invano messe a nuovo con un’ingenua polemica», egli «vede l’adeguato “sfondo alla confusione ideologica del Romanticismo italiano”». Per Garin questo giudizio può basarsi su puntuali riferimenti ad alcuni scritti di Gioberti e Rosmini, intesi però «in una prospettiva consacrata» e non criticamente e storicamente fondata, che lasci cadere «alcuni temi importanti di quei medesimi autori»; e, soprattutto, Banfi «non sembra ascoltare abbastanza altre voci pur significative, ove si rispecchiavano in qualche modo “i problemi concreti che offriva la nuova vita etica”»10

. A questo punto si può cogliere una prima differenza tra

6 EUGENIO GARIN, Manuale di storia della filosofia ad uso dei licei classici, volume terzo, Sansoni,

Firenze 1948, p. 129.

7 Ivi, p. 1. Scrive infatti Croce che una decadenza rispetto all’età precedente in Italia si sarebbe potuta

notare «nel vigore e nelle larghezza del pensiero». «Decadenza, se così si vuol chiamare, e meglio si direbbe una “crisi”, generale in tutta Europa, della quale sarebbe fuori luogo esporre qui il complicato processo, risalendo alle origini; ma importa notare che, come queste origini sono di natura loro religiose, così quella crisi si assommava in una crisi di fede o d’ideali etici» (BENEDETTO CROCE, Storia d’Italia

dal 1871 al 1915, seconda edizione, Laterza, Bari 1928, p. 133). Analogamente, per Gentile «il moto

filosofico» del primo cinquantennio dell’Ottocento rifletteva in sé «tutta quell’agitazione di elementi intellettuali e morali da cui il nostro Risorgimento fu sostenuto. Finita quell’agitazione, acquetatosi lo spirito italiano collo appagamento delle sue aspirazioni, parve che la nostra vena speculativa si disseccasse» (GIOVANNI GENTILE, La filosofia contemporanea in Italia (1917), in ID., Storia della

filosofia italiana, a cura di E. Garin, volume 2, Sansoni, Firenze 1969, p. 16).

8 ANTONIO BANFI, Verità e umanità nella filosofia contemporanea, «Studi filosofici», 1947, pp. 1-79,

poi in ID., L’uomo copernicano (1950), Il Saggiatore, Firenze 19652, pp. 38-169.

9 Cfr. MASSIMO FERRARI, Mezzo secolo di filosofia italiana. Dal secondo dopoguerra al nuovo millennio, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 62 e ss.; ID., Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il contributo

italiano alla storia del pensiero. Filosofia, direzione scientifica di M. Ciliberto, Istituto della

Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 2012, ad vocem.

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la versione della puntata apparsa sul «Giornale critico» del 1951 e l’edizione in volume, giacché nel primo caso le parole appena riportate chiudevano la nota, mentre nel secondo vi è un ulteriore rimando «piuttosto che» alle «considerazioni del De Sanctis» su Rosmini e Gioberti ne La scuola liberale e la scuola democratica, alle «note di Gramsci sul giacobinismo di Gioberti […] e, soprattutto, sull’antistoricismo dell’Omodeo nel valutare il giobertismo»11

. L’ipotesi che si intende proporre è che non si tratti di semplici aggiornamenti bibliografici, ma che questi riferimenti a Gramsci più che a De Sanctis abbiano anche lo scopo di precisare una chiave di lettura12. Nel medesimo saggio banfiano nel quale era presente il giudizio su Rosmini e Gioberti, cui Garin preferisce quelli di Gentile e di Croce, si leggono critiche molto severe proprio alle filosofie di questi ultimi. Quella a Gentile è in realtà più aspra13, ma forse meno interessante di quella alla filosofia crociana e al ruolo che giocò negli anni del fascismo: «Essa sembrò allora la difesa dei valori ideali, prima di tutto della libertà individuale e della pura cultura dalla negazione brutale, dall’asservimento, dalle compromissioni e dalla retorica». In realtà, continua Banfi, «il fascismo e l’imperialismo che vi stava alle spalle vedevano in quella filosofia un innocuo e piacevole campo di concentramento per le velleità di ribellione della media borghesia intellettuale», allontanata così dal vero nemico, «il solo radicato nella storia», ossia «il comunismo». Il crocianesimo viene dunque dipinto come «un alibi dalla responsabilità storica della borghesia»14. La posizione in favore dei giudizi di Croce e di Gentile, e la contestuale critica a Banfi, potevano forse apparire come una presa di distanza più generale da uno dei più importanti intellettuali legati all’area comunista, anche perché si trattava di un punto in realtà non così decisivo per il discorso che Garin sta portando avanti, in cui Rosmini e Gioberti, e la filosofia della prima metà dell’Ottocento,

11 Ibid. Cfr. FRANCESCO DE SANCTIS, La letteratura italiana nel secolo XIX. Volume 2. La scuola liberale e la scuola democratica, Laterza, Bari 1954, pp. 276 e ss.; ANTONIO GRAMSCI, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1949, pp. 144 e ss., 117-119, ora in ID., Quaderni cit., pp. 1914-1915, 1931-1933. 12

Del resto De Sanctis era un classico – forse, però Garin si era deciso a menzionarlo perché era stato da poco ripubblicato il volume – e Il Risorgimento di Gramsci era apparso nel 1949. Può darsi che Garin nel 1951 non si fosse ancora soffermato su quest’ultimo testo – egli cita la ristampa del 1953, la stessa edizione presente nel Fondo Garin della Biblioteca della Scuola Normale (l’altra è del 1991) – ma sarebbe ugualmente indicativo della minore attenzione che all’epoca aveva per il pensatore sardo e per il mondo da cui proveniva.

13 Banfi parla dell’«evasione che l’idealismo d'immanenza gentiliano ha offerto, per un quarto di secolo,

all’intellettualità borghese dai concreti problemi e dalle responsabilità storiche, evasione che s’è tramutata in aperta esaltazione della situazione di fatto». «Senza tale significato politico-sociale», continua Banfi, «sarebbe inspiegabile la popolarità di un pensiero scolasticamente astruso, teoreticamente povero e praticamente inefficace» (BANFI, L’uomo copernicano cit., p. 108).

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costituiscono appena una premessa. Bisogna al contempo precisare che già nella prima puntata dei Cinquant’anni di filosofia italiana sul «Giornale critico» sono presenti altri riferimenti a Gramsci, in cui le sue osservazioni venivano molto apprezzate; inoltre, dopo alcune pagine il saggio su Verità e umanità è richiamato in termini più generosi15, ma questo potrebbe davvero portare il lettore a concentrarsi piuttosto sulla contrapposizione con Croce (e Gentile) presente nella prima nota, e meno sul merito del giudizio. Con la pubblicazione delle Cronache in forma di volume, il rimando gramsciano a sostegno della propria tesi permette a Garin di circoscrivere in maniera più puntuale la critica alle osservazioni di Banfi. Gramsci si era mostrato ben lontano dall’accusare Gioberti di «confusione ideologica» o di scarsa attenzione per la concretezza dei problemi offerti dalla «nuova vita etica». Gioberti, infatti, si era manifestato «un vero e proprio giacobino, almeno teoricamente, e nella situazione data italiana». Il termine ha qui un valore nettamente positivo, proprio perché rimanda alla determinatezza di una situazione storica16: «Il Gioberti sentì l’assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione mostra il realismo politico del Gioberti»17. L’azione del pensatore torinese è addirittura connotata da «realismo politico», ed anzi, egli «aveva una visione strategica della rivoluzione italiana, strategica non nel senso strettamente militare […] ma politico-militare»18. Si comprende, dunque, come i riferimenti gramsciani fossero utili per trasformare la critica a Banfi in una sorta di ‘critica dall’interno’, leggibile come un avvicinamento alla cultura comunista, a patto che questa prendesse una determinata direzione. A suggerire una lettura di questo tipo sono anche gli altri – in realtà non così tanti – riferimenti ai testi di Banfi, o meglio, al nome

15 Alludendo in primo luogo a Rosmini e Gioberti, Banfi aveva parlato di una «rivoluzione dello spirito

[…] chiusa in Italia nell’ambito di uno spiritualismo religioso che, sfociando in un pedagogismo edificante, la limita e l’astrae dalla vita storica concreta»; da parte sua Garin, rifiuta questo giudizio per i due filosofi, ma lo accetta se riferito a molti spiritualisti della seconda metà dell’Ottocento, e in particolare ad Augusto Conti; si trova poi pienamente d’accordo con Banfi nel duro giudizio sugli epigoni del positivismo. Garin, però, aveva ricordato che Banfi additava «nel positivismo la coscienza filosofica della borghesia», senza però far riferimento al giudizio banfiano su Giandomenico Romagnosi e su Carlo Cattaneo, più vicino alla sua sensibilità. Il positivismo, afferma Banfi, «suona come un annunzio liberatore dalle illusioni romantiche, come un coraggioso riferimento alla situazione di fatto nell’opera del Romagnosi e del Cattaneo e va via via penetrando le teorie politiche, giuridiche, pedagogiche, storiografiche, quasi sviluppandosi dalle loro stesse esigenze spontanee» (cfr. GARIN,

Cronache di filosofia italiana cit., pp. 2-3, 6; BANFI, L’uomo copernicano cit., pp. 96-97).

16 GRAMSCI, Quaderni cit., p. 1914. Il giacobinismo di Gioberti si evince dalla chiara «affermazione

dell’egemonia politica e militare del Piemonte che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la Francia» (ibid.).

17 Ibid. 18 Ivi, p. 1932.

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di Banfi, che si scorgono nelle Cronache dopo la prima nota, che sono tutti generalmente positivi: basti pensare al capitolo sui Positivisti in crisi – apparso la prima volta nel 1953 sul «Giornale critico» – in cui era ricordata con evidente consenso la recensione di Banfi a Il sacrificio come significato del mondo di Antonio Aliotta, in cui egli osservava che «l’angoscia è un brutto principio per una filosofia, e che vero filosofo comincia ad essere chi se n’è liberato, chi s’è sciolto da quei problemi astratti, retorici, inconcludenti, inesistenti..., e che perciò s’è messo a voler conoscere il mondo così come è»19; o, ancora, dopo alcune pagine Banfi viene richiamato perché nel 1930 «molto giustamente» rilevava l’insidia del pensiero di Tarozzi20. Per la verità nel nono capitolo, in cui si concentra più specificamente sulla sua figura, non mancano critiche esplicite al lavoro di Banfi: Garin non esita a stigmatizzare la «sentenza» pronunciata dopo la Seconda guerra mondiale sulla filosofia più recente, che non era né «motivata a pieno» né «articolata a sufficienza», giacché vi si trovava una «saldatura asserita troppo immediatamente con le condizioni economico-sociali europee» e una «schematizzazione astratta delle posizioni»21. È una critica ai criteri marxistici di Banfi, che egli applicava in modo eccessivamente rigido e astrattamente schematico; al contempo, però, Garin fornisce un’immagine complessa dello studioso, criticando, sì, alcune tendenze sviluppatesi in particolare nella seconda serie di «Studi filosofici», ma apprezzando molto sia gli studi proposti nella prima serie, sia il suo ruolo di promotore «di una varietà di “esperimenti”»22: «tutte le sfaccettature che mancano a questo quadro»23 tracciato nel dopoguerra, «tutte le articolazioni qui lasciate in ombra, si ritrovano invece nelle prime annate di quella rivista così largamente aperta, non solo per esigenze d’informazione storica, alle correnti del pensiero contemporaneo […]»24. Nelle Cronache è, però, possibile

19 GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., p. 118. Cfr. ANTONIO BANFI, A.A

LIOTTA, Il sacrificio come

significato del mondo, «Studi filosofici», 1947, pp. 79-80: 80. La recensione segue immediatamente il saggio su Verità e umanità nella filosofia contemporanea.

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Ossia, «che la vita spirituale, lungi dall’esser compresa nella complessità della sua dialettica, nell’autonomia delle sue leggi, venga a definirsi in funzione dei rapporti parziali, dei valori, limitati insieme ed astratti, secondo cui vien pensata univocamente la relazione fra la natura e il sovrannaturale, fra l’uomo e Dio» (ivi, p. 121; cfr. ANTONIO BANFI, G. TAROZZI, L’esistenza e l’anima, «Civiltà

moderna», 1930, pp. 914-918: 918).

21 Ivi, p. 512.

22 Garin pensa soprattutto ai «tentativi […] del Paci, del Preti e del Cantoni di far reagire gli aspetti della

più viva problematica nostra al contatto con moti essenziali del pensiero europeo» (ivi, p. 514).

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Banfi, aveva ricordato Garin, parla di «“cultura neoromantica d’evasione”, spiritualismo come “teorizzazione di una fede astratta in valori trascendenti”, idealismo come “teorizzazione di una fede altrettanto astratta nell’idealità immediata del reale”» (ivi, p. 512).

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individuare un altro luogo in cui Banfi viene citato in maniera fortemente critica, proprio in riferimento a Croce e al suo ruolo negli anni del fascismo. In effetti, Garin fornisce rispetto a Banfi una lettura profondamente diversa, se non addirittura opposta, sia di Gentile sia di Croce. Per quanto riguarda Gentile, Garin fa un discorso complesso e sottile, in cui sono riconosciuti i limiti e le colpe dell’uomo e del pensatore, spesso troppo incline alla retorica, ma al contempo sono messi in luce gli aspetti più fecondi dell’attualismo, la grande generosità dell’uomo, e la sensibilità ‘pedagogica’ di molti suoi scritti25

. È sicuramente molto grande la distanza da Banfi, le cui osservazioni si pongono su un tale piano di radicale rifiuto del pensiero e dell’opera gentiliane, ricondotte totalmente a quello che per Garin era il suo lato ‘retorico,’ che quest’ultimo probabilmente non ne riteneva possibile (e feconda) la discussione. Il giudizio di Banfi su Croce risulta nondimeno totalmente incompatibile col’interpretazione gariniana della storia d’Italia durante il Ventennio, in particolare per come emerge dalle Cronache: Garin afferma che in quel periodo «cadeva sul campo della cultura un’oppressione a volte peggiore del silenzio, perché intessuta d’infingimenti non sempre chiari ai più giovani, costretti a farsi la strada da sé, a prezzo d’ogni sorta di smarrimenti e d’errori, di incertezze e di drammi, punteggiati a volte da esperienze dolorose»26. Si tratta di un nodo centrale per il volume gariniano, tanto che lo stesso motivo, espresso in maniera forse meno veemente, era stato già incontrato nell’Avvertenza. Hanno una forte connotazione le parole che seguono, in cui si valorizza al massimo la funzione civile di Croce durante la dittatura: «E dopo furono facili i giudizi perentori su quegli anni; facile ridurre nel ’47 a modeste proporzioni l’opera, che so?, della “Critica” (“evasione dal vero conflitto storico, alibi dei puri di cuore della borghesia, povera realtà di culturalismo borghese”)». E subito dopo Garin aggiunge che «a quanti dovettero ritrovare da soli la verità che i padri avevano tradito,

25 Sono al riguardo significative le parole del capitolo sulle Polemiche sull’attualismo in cui si riassume

il senso del ‘declino’ filosofico di Gentile negli anni del fascismo: «l’esperienza umana, in cui sembrava vivere in origine il pensiero gentiliano, e quel suo generoso impeto operoso, rivoluzionario, si contrassero nell’idea, e quindi nella retorica dell’azione e del lavoro». E ancora, a poca distanza, dopo aver ricordato le parole di Lavoro e cultura del 1922 in cui Gentile identifica nella «cultura superiore»