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La cultura filosofica italiana all’inizio del Novecento

Giovanni Papini e le riviste fiorentine

La seconda puntata delle Cronache si riconnette direttamente alle questioni trattate nelle Note sul pensiero italiano del ’900, e al ruolo svolto in primo luogo dal «Leonardo» di Papini e Prezzolini e dalla «Critica» di Croce e Gentile. Il tono, come Garin aveva scritto a Ugo Spirito nel dicembre del 1950, è ormai diverso, ma gli elementi di continuità rispetto ad alcuni anni prima sono più di quanto ci si potrebbe aspettare: basti pensare alla figura di Papini, che in queste pagine, quantomeno nella versione apparsa sul «Giornale critico», è vista complessivamente con favore, in maniera ben diversa rispetto al Papini, non soltanto «iconoclasta programmatico ed avversario astioso dell’università in quanto tale, ma in fondo, assai spesso, espressione tipica di una retorica rovesciata», che emerge nella sesta puntata1; o anche alla trattazione di Croce, rispetto al quale Garin lascia trasparire riserve non del tutto insignificanti2. Al contempo è sottolineata maggiormente la critica che le due riviste hanno svolto al positivismo, mentre nel 1946 era stata accennata abbastanza velocemente3, e la comune «difesa delle dimensioni dell’uomo, della vita spirituale, dell’iniziativa umana». Particolarmente in luce è messa l’efficacia che entrambe le riviste avrebbero avuto nel corso degli anni, e anche per questo colpisce un’immagine complessivamente favorevole di Papini, e «poco importa quello che poi divennero i rivoluzionari d’allora»4

. Nonostante le profonde diversità, il «Leonardo» e la «Critica» collaborarono «in una comune attività rinnovatrice», con la «spregiudicata e promiscuamente iconoclasta polemica» del primo e «l’opera di critica profonda estesa lentamente a ogni settore delle scienze morali» della seconda; e Garin commenta che le «vicende di mezzo secolo» – in realtà sarebbero bastati pochi anni – hanno mostrato la lontananza celata in «certi incontri fortuiti», pur ammettendo – ed è l’osservazione più

1 GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., p. 192. Garin sta parlando della differenza sottolineata da

Croce del suo «atteggiamento da quello, ad esempio, di un Papini», mostrandosi, però, pienamente concorde (ibid.).

2 Sono riserve che, però, non hanno impedito allo stesso Croce di apprezzare le prime puntate delle Cronache (cfr. GARIN, Conversando con Benedetto Croce cit., p. 654).

3 «L’originaria simpatia con cui Croce aveva guardato al Leonardo, del resto ricambiata subito

ampiamente dal Papini e dal Prezzolini, si era esteriormente concretata nell’atteggiamento parallelo assunto nella lotta contro le deformazioni del positivismo e gli aerei sospiri esalati da uno spiritualismo esangue» (GARIN, Una rivista: «Leonardo» cit., p. 24).

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interessante – che «una lunga esperienza fa ora meglio apprezzare anche la sensibilità e l’efficacia di certi atteggiamenti». Non soltanto – sostiene Garin – il pensiero crociano sarebbe stato oggetto di dissertazioni di laurea assegnate dagli «allievi di quegli “accademici” che allora neppur prendevano in considerazione la “Critica”», ma «coloro che, allora, respinsero con vigoroso disdegno il pretenzioso foglio di Gian Falco, si compiacquero poi del gergo mutuato a testi che cinquanta anni prima Papini poneva per la prima volta innanzi a lettori non preparati»5. Per quanto riguarda Croce l’affermazione può parere forse un po’ eccessiva, giacché anche in campo accademico non gli mancarono apprezzamenti fin dai primi anni della sua produzione – era piuttosto Croce a svolgere una dura battaglia contro certe tendenze culturali, che nell’accademia magari si annidavano. Più interessante è l’osservazione su Papini, che viene contrapposto all’esistenzialismo, le cui problematiche e i cui autori di riferimento erano stati messi in circolazione in Italia proprio da Papini, ma sarebbe divenuto, specialmente tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta, anch’esso ‘accademico: l’esempio è quello di Kierkegaard, «a cui oggi è toccato l’amaro destino di servire a tema a tante dissertazioni e lezioni universitarie», e che era stato presentato su «Leonardo» e tradotto nella collana della Cultura dell’anima. L’uso accademico e ‘professorale’ della filosofia dell’esistenza aveva sempre colpito negativamente Garin, che nel suo scritto A proposito dell’esistenzialismo affermava che la filosofia dell’esistenza «da antiaccademica qual era per costituzione, essa che si appellava a Kierkegaard, pensatore per eccellenza privato, […] divenne oggetto di corsi e conferenze e pubblicazioni ed analisi e bibliografie mirabili per compiutezza e rigore scientifico»; e anzi, proprio Kierkegaard «del professore di filosofia […] aveva detto ogni male possibile», chiamandolo «ridicolo, sciocco, ciarlatano, più comico del Cavaliere della Triste Figura»6. Il merito di Papini e del gruppo riunito attorno al «Leonardo» fu di richiamare e mettere in circolazione, determinati autori come i «romantici tedeschi», «Nietzsche» o «Dostojevskij», e poi soprattutto il pragmatismo americano, non spinti da problemi eruditi, prettamente speculativi o addirittura ‘professorali’ – del resto, questi ‘giovani’ si muovevano in tutt’altro campo –, ma dal bisogno di porre al centro l’uomo, inteso come «punto di assoluta libertà, ossia rischio totale e possibilità infinità». In questo bisogno di libertà, di cui ora, a differenza delle

5 Ivi, pp. 23-24.

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Note del 1946, non sono nemmeno accentuati gli elementi attivistici e velleitari, trovano origine le polemiche contro il positivismo, che aveva, sì, «battuto in breccia la sospirosa oratoria dello spiritualismo», ma si era ormai chiuso più ancora che «in una povera contraffazione metafisica del naturalismo», in una visione ristretta dell’esperienza e «in una paurosa mutilazione dell’uomo», e la sua ragione «esaltata a parole, era stata degradata a mera registrazione di accadimenti». L’incontro tra «La Critica» e il gruppo del «Leonardo» ha luogo in quel punto, nella lotta contro posizioni che irrigidivano il reale, seppur gli esiti e i presupposti sarebbero stati molto differenti, con i secondi che avrebbero battuto alle «porte più impensate, dall’idealismo magico agli inesplorati e avventurosi lidi della metapsichica». Garin, però, non si sofferma qui sugli esiti ‘torbidi’ dei leonardiani, ma sul problema che avevano messo in campo e sulle loro critiche, di cui forse «neppure gli autori si rendevano conto quanto fossero calzanti». È un riconoscimento non di poco conto, legato alla necessità di «mettere in discussione un problema essenziale, se cioè la realtà abbia davvero strutture, essenze, idee, leggi, che la condizionino assolutamente, e quindi possano cogliersi e ordinarsi in un “sistema” razionale»7

. Tale riconoscimento, di fatto, non poteva estendersi in questi termini al fondatore della «Critica»: in questa puntata Garin non si sofferma sul Croce ‘sistematico’, ma è proprio in questo primo decennio del Novecento che trova la sua massima espressione, attraverso l’Estetica, la Logica fino a culminare in qualche modo nel suo punto di crisi, con le parole finali della Filosofia della pratica. L’accenno ironico va piuttosto a chi avrebbe plaudito «alla conversione crociana» di Prezzolini, o a chi avrebbe preferito «la castità delle accademiche pagine del “Marzocco”», ma l’autentico protagonista è proprio Papini, che aveva messo in forse non un filosofo né una corrente o un sistema, «ma la fi losofi a stessa», mettendo il «dito in una piaga» che effettivamente era aperta, avvertendo «che non si trattava di un episodio, ma di un intero dramma», e «che in crisi era tutto l’uomo, ogni sua dimensione». Egli si rendeva conto «che il pensiero umano era arrivato a un limite, e non si poteva continuare per la solita strada». Certo, Garin è consapevole che alle formidabili ‘antenne’ di Papini non corrispondeva analoga consapevolezza critica, e che dal punto in cui si trovava non seppe uscire se non dopo anni e per altre vie – l’allusione è chiaramente all’avvicinamento alla religione. Nonostante ciò, il giudizio gariniano è nettamente positivo, ed anche l’itinerario di Papini, pieno di errori e ripensamenti con «il suo

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irritante oscillare» tra estremi opposti – «rifiuto intransigente» e «umile accoglimento», «rivoluzionarismo caotico» ed «estremo conservatorismo» –, costituisce «lo specchio di un’inquietudine che pure non è meno significativa di altre parventi sicurezze», e per questo egli merita un posto differente nella storia del pensiero italiano del Novecento, «sicuramente maggiore di quello che gli assegnò la corporazione dei professori, da lui sanguinosamente vilipesa»8. Poco prima, a proposito dei ‘giovani’ fiorentini, Garin aveva affermato che si possono «oggi perdonare anche certe intemperanze e infatuazioni», visti gli effetti tanto fruttuosi e l’«ampiezza della discussione avviata» su quelle riviste come il «Leonardo», l’«Anima» o «La Voce», in cui, negli anni che portarono alla prima guerra mondiale risuonarono «tutti i temi che hanno traversato la tragedia europea e tutte le voci valide che l’hanno accompagnata». Garin osserva, però, che lo «storico pacato converrà col rilievo di Renato Serra che Papini dopo “Leonardo” aveva in certo senso detto tutto, che non si può eternamente fare gl’iconoclasti che dopo aver demolito bisogna costruire», così come converrà «con i giudizi estremamente cauti recati sulla “Voce” del Prezzolini»9. Si tratta della principale nota critica a Papini e al suo gruppo che si può leggere in queste pagine, in particolare se ci limitiamo a considerare quanto scritto nel 1951; ed è significativa soprattutto perché si appoggia a Serra, sicuramente un personaggio di grande finezza per il quale Garin nutre una buona considerazione. Inoltre a piè di pagina è aggiunta una lunga nota in cui sono riportate le considerazioni di Serra su Papini, Prezzolini, e anche su Croce. Nel gennaio 1909 egli scriveva a Luigi Ambrosini che non pensava «troppo male» della «Voce» e di far buon conto del «giudizio» di Prezzolini e «dell’ingegno di Papini», ma «certe fronde non s’ha diritto di farle altro che una sola volta, e prima dei vent’anni»; e se nel 1902 si è fatto il «Leonardo» nel 1909 bisogna aver trionfato o accasarsi borghesemente», non si ha il «diritto di fare ‘La Voce’, senza confessar fallimento. Quando la bohème diventa prosa è odiosissima»10. Garin rincara la dose richiamando le osservazioni sempre di Serra sugli scritti di politica di Salvemini e Prezzolini, accusati di essere presuntuosi e velleitari. Diverso era, invece, «il giudizio sulla “consistenza” del Croce, pur fra riserve (“bisognerà appoggiarsi al Croce, di cui io apprezzo molto l’ingegno e la

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Ivi, p. 25-28.

9 Ivi, p. 26.

10 Ibid.; cfr. RENATO SERRA, Epistolario, a cura di L. Ambrosini G. De Robertis, A. Grilli, Le Monnier,

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dialettica e la polemica; ma che non basta in nessun modo a contenere il mio spirito”)»11

. Andando a leggere la nota ci si rende conto che non è Papini il principale oggetto di critica, ma piuttosto Prezzolini; del resto, che Papini avesse «detto tutto» dopo il «Leonardo» non era un giudizio con cui davvero Garin doveva ‘convenire’ fino in fondo, giacché «L’Anima», forse l’esperienza papiniana cui Garin guarda con maggior favore, sarebbe venuta nel 1911 – non a caso da qui a poco viene menzionata con consenso proprio questa rivista. Le critiche di Serra, in realtà, andavano a colpire soprattutto Prezzolini, che della «Voce» era direttore, e a cui erano imputabili, assieme a Salvemini, l’«incompetenza» e la «goffaggine» degli ‘scritti politici’; del resto Garin, sin dalle Note sul pensiero italiano del ’900, aveva mostrato di non stimare molto l’operato di Prezzolini, e qui non sembra mutar opinione. Per quanto riguarda Croce, gli apprezzamenti di Serra sono sicuramente importanti e condivisibili, ma altrettanto importante è la sua «riserva», ossia che Croce non gli basta a «contentare il suo spirito». È semplicemente un accenno, ma può evocare ancora una volta quanto emerso dalle Note del 1946, dalle quali si comprendeva l’insensibilità crociana alle ragioni che potremmo definire della vita, dell’esistenza concreta dell’individuo singolo; del resto proprio Serra, aveva affermato, con parole così vicine alla sensibilità di Garin e al contempo così anticrociane, che l’individuo gl’interessa più della pagina12.

La figura di Papini, dunque, emergeva molto positivamente, nonostante «lo storico pacato» dovesse convenire col rilievo di Serra, riconoscendo che non si può essere sempre iconoclasti ma bisogna anche costruire. Quello che colpisce è che lo stesso Papini, quantomeno in alcuni momenti, avrebbe potuto essere d’accordo: nella nota

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Ivi, pp. 26-27; cfr. SERRA, Epistolario cit., p. 257; per le critiche a Prezzolini e Salvemini cfr. ivi, pp. 404 e ss.

12 Sul «Giornale critico» la nota a piè di pagina era terminata con le osservazioni di Serra su Croce, ma

in volume Garin richiama anche «il rapporto stabilito dal Gramsci […] fra De Sanctis-Croce-“La Voce”: “nel Croce vivono gli stessi motivi culturali che nel De Sanctis, ma nel periodo della loro espansione e del loro trionfo... In un tempo recente alla fase De Sanctis ha corrisposto, su un piano subalterno, la fase della ‘Voce’”» (Ivi, p. 27; cfr. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale cit., pp. 8-9, ora in ID., Quaderni cit., p. 2188). Così com’è riportata da Garin, la critica sembrerebbe rivolta soprattutto alla rivista fiorentina, il che sicuramente era vero, ma il giudizio su Croce da parte di Gramsci non era così indulgente, ed anzi il tono era simile a quello richiamato nel capitolo precedente. Infatti, nella parte non citata da Garin Gramsci aggiungeva che in De Sanctis vi era «continua la lotta, ma per un raffinamento della cultura (di una certa cultura) non per il suo diritto di vivere: la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell’indulgenza piena di bonomia». «Ma anche nel Croce questa posizione non è permanente: subentra una fase in cui la serenità e l’indulgenza s’incrinano e affiora l’acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida e pertanto non confrontabile con quella del De Sanctis» (Ibid.).

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appena successiva Garin sottolinea il «tono singolarmente pacato» – il medesimo aggettivo riservato allo ‘storico’ – dell’«avvertimento premesso al primo fascicolo de “L’Anima”», apparso in realtà anonimo, e quindi attribuibile a entrambi direttori, Papini e Amendola. Vi si affermava esplicitamente di preferire «una verità» a «dieci polemiche», e di aspirare ad arrestare in quelle pagine «qualche rara idea» piuttosto che «polverizzare cento idoli con pochi colpi ben assestati»; e soprattutto che intorno a loro non era più «la gaia atmosfera dei vent’anni»13

. La rivista si proponeva di essere profondamente diversa dalla ‘fronda’ che Serra ritrovava nel «Leonardo» e nella «Voce», e c’era, inoltre, anche un tentativo di commiato da quei vent’anni in cui ancora era possibile la «bohème». Sono due note poste l’una di seguito all’altra che sembrano fronteggiarsi, con la seconda che pare voler negare ciò che è detto nella prima, quantomeno in relazione a Papini. Del resto, Garin non ha dubbi nel sottolineare la capacità di Papini di esprimere il «travaglio di anni tanto tragici», soprattutto se confrontato con Troilo – verso cui si è vista la scarsa stima gariniana – con cui l’«irregolare giornalista fiorentino» ebbe a polemizzare proprio su «L’Anima». Nonostante si sottolinei che anche Papini, come Troilo, era destinato a «cercare più tardi tutti i conforti dei consueti ancoraggi», Garin valorizza la sensibilità, l’arguzia e anche la consapevole capacità di scrittura di Papini. Solo nel 1955 avrebbe aggiunto una citazione gramsciana che sembra voler rovesciare l’immagine di Papini, rendendola più simile a quella che in genere emerge dal resto delle Cronache, e che tende a porre l’accento sulle fasi successive del suo percorso, quella ‘futurista’ e ‘attivista’, o quella in cui poteva essere annoverato fra i ‘nipotini di padre Bresciani’. Particolarmente eloquente è al riguardo il richiamo svolto nell’ottavo capitolo all’«Anima» e alla sua apertura a preoccupazioni religiose, logiche e morali, per cui «Papini e Amendola si mostrarono in quella luce che sottolineò così bene dodici anni dopo Gobetti: “i due spiriti più notevoli e più originali del tempo”»; tuttavia, Garin aggiunge immediatamente che «ben presto Papini doveva ricominciare le sue incomposte scorribande»14. Nelle fasi più avanzate delle Cronache, anche quando si tratta di mettere in luce l’esperienza de «L’Anima», il cui valore non viene mai posto in discussione da Garin, egli tende a spostare contemporaneamente l’attenzione anche

13 Ivi, pp. 27-28; cfr. Avvertimento, «L’Anima. Saggi e giudizi», a. 1, n. 1, gennaio 1911, pp. 3-4: 4. 14

Ivi, pp. 317-318; cfr. GOBETTI, La rivoluzione liberale cit., p. 6. Dopo poco Garin ricorda ancora che «si è citata “L’Anima” di Amendola e Papini, ove sembravano placati i furori del “Leonardo”: ed ecco di lì a poco, nel ’13, il discorso di Roma e Papini futurista» (GARIN, Cronache di filosofia italiana cit., pp. 319-220.

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sui percorsi meno felici di Papini, e gli esiti attivistici e futuristici che già in passato aveva stigmatizzato. Svolge una funzione analoga quanto Garin aggiunge alla sesta nota di questa seconda puntata, apparsa originariamente nel 1951: in un quadro complessivamente favorevole a Papini, il cui valore emerge anche dalla contrapposizione con un accademico (positivista) poco apprezzato da Garin come Troilo, si rimanda a Gramsci «su Papini dopo, e sul suo “dilettantismo morale”, sul suo atteggiamento “untuosamente gesuitico” verso Croce»15

. È un giudizio particolarmente significativo, che va a porre in una luce fortemente negativa Papini, sia come studioso sia – ed è sicuramente più grave nella prospettiva gariniana – da un punto di vista ‘morale’; sono considerazioni che vanno a cambiare il tono generale della trattazione, anche perché il riferimento a Gramsci non ha un valore neutro nelle Cronache: il pensatore sardo, infatti, non è solo ricordato per la finezza delle sue analisi, ma anche come punto di riferimento etico, come un oppositore radicale del fascismo che ha pagato il suo impegno e la sua coerenza con la carcerazione e con la vita. L’accusa gramsciana di «dilettantismo morale» richiamata in questo contesto assume una funzione quasi ‘liquidatoria’, andando a spostare l’equilibrio su cui alcuni anni prima erano state costruite queste pagine. Discorso analogo si può fare per un’altra aggiunta di qualche pagina successiva, che pure tende a illuminare di una luce differente la produzione di Papini. A proposito della ricezione italiana di James, e quindi di Papini e del pragmatismo, Garin osserva da un lato «la deformazione cui si sottoponeva l’opera del James», ma dall’altro rileva «la duplice fecondità della propaganda pragmatista», che aveva inserito «nella pacatezza stanca di tanti dibattiti oziosi, non solo la psicologia di James, ma la sua filosofia dell’esperienza, e si suoi studi sulla vita religiosa», e poi pensatori che si fecero «banditori di motivi affini», come Bergson, Georges Sorel, Édouard Le Roy e soprattutto Blondel. Il bilancio tra i due «discorsi» da fare sul pragmatismo italiano appare dunque positivo, giacché nel mondo culturale sono inseriti e fatti circolare validi autori, molti dei quali hanno avuto un’importanza non trascurabile per lo stesso Garin. Nel volume, tuttavia, Garin aggiunge una nota in cui un rapidissimo richiamo a un giudizio di Sorel – accompagnato poi a più ampie considerazioni sul filosofo francese – va a ribaltare completamente questo quadro:

15 Ivi, p. 28; cfr. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale cit., pp. 161-162, ora in ID., Quaderni cit., pp.

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«Sulle “mistificazioni” del Papini infierirà più tardi il Sorel»16

. Nel volume delle Cronache sono le ‘mistificazioni’ a orientare la lettura, e non più l’apporto positivo alla cultura italiana; certo la figura di Sorel non ha la stessa forza ‘icastica’ e morale di quella di Gramsci, ma sono piccole aggiunte che vanno a formare un quadro unitario, magari più coerente con l’impianto generale del volume, ma diverso dal testo originario. Si comprende, dunque, come le Cronache, nonostante fossero state anticipate per quasi una metà del testo complessivo, costituiscono nel 1955 un libro imprevisto e imprevedibile nel panorama filosofico e culturale italiano.

Giovanni Vailati

Il pragmatismo italiano nel primo decennio del Novecento è stato un fenomeno importante, che ha sollecitato molte discussioni, ma Garin osserva che non è stato mai precisato – siamo nella prima metà degli anni Cinquanta17 – «che cosa i chiassosi giovani del “Leonardo” trovassero e vedessero in quella posizione speculativa». Era un problema complesso, che poteva facilmente sfuggire, e sfuggì anche a «Ugo Spirito, così sensibile ascoltatore di certi toni della nostra cultura» che ignorò probabilmente di proposito quell’episodio. Ad attirare l’attenzione era stato soprattutto l’«aspetto innegabilmente coreografico e teatrale che assunsero quelle prese di posizione»; magari veniva rilevata la «profonda serietà di Vailati e di Calderoni», i quali erano così separati nettamente da Papini e Prezzolini – ma, in nota Garin precisa che nemmeno di Vailati e Calderoni si è cercato di «determinare la reale portata», proprio perché «la

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Ivi, pp. 31-32. Sorel, infatti, aveva scritto: «Une présomption très défavorable au pragmatisme résulte de ce que celui-ci a été célébré, avec un enthousiasme inquiétant, comme la vérité transatlantique, par