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Cultura, autonomia e vulnerabilità in una prospettiva femminista intersezionale

2.1 Un approccio di genere e intersezionale

Come anticipato nella parte precedente del lavoro, questo secondo capitolo rappresenta un momento di riflessione teorica sui temi oggetto della ricerca. Infatti, la questione dell’assistenza sanitaria alle donne migranti per la salute sessuale e riproduttiva – coinvolgendo le dimensioni della cittadinanza multiculturale, della salute e del corpo, e del genere – pone senz’altro dei problemi di ordine teorico che meritano di essere approfonditi e che, grazie ad una lettura di tipo filosofico-politico, possono apportare elementi significativi anche sul piano più operativo.

Prima di inoltrarmi nell’analisi e di mostrare il percorso che ho intenzione di svolgere, vorrei chiarire al meglio il ruolo e il significato di questo capitolo all’interno dell’intero lavoro e spiegare come questo si relaziona con la parte più operativa della ricerca. Perché, quindi, chiamare in causa questioni teoriche quando l’obiettivo è quello di analizzare e, possibilmente, indicare una soluzione per problematiche estremamente concrete? Quale può essere la relazione tra le due parti e che cosa la prima può apportare alla soluzione della seconda? In che modo la riflessione teorica può suggerire una direzione nell’individuazione di soluzioni pratiche e operative?

Mostrerò quindi la riflessione che mi ha portata a individuare le principali questioni teoriche da approfondire e anche alcuni punti fermi che hanno dato la direzione a questo percorso. Se infatti, come vedremo, il mio non sarà un atteggiamento normativo ma piuttosto analitico, ci sono state però delle scelte precise a livello metodologico che senz’altro hanno influenzato la direzione di questo percorso, in un continuo scambio tra teoria e prassi che credo rappresenti una peculiarità di questo lavoro. Infatti, tutta questa ricerca è stata caratterizzata da un costante riferimento a soggettività e processi concreti: il punto di partenza,

così come quello di arrivo, sono sempre state le donne reali, le loro vite materiali e le loro problematiche quotidiane, soprattutto declinate riguardo al tema della salute e dell’uso dei servizi sanitari. Sia la riflessione teorica che la scelta del caso di studio, sono state quindi fatte con l’obiettivo di apportare un contributo significativo alla vita di queste donne, possibilmente un cambiamento che vada a migliorare le loro condizioni di vita. Ovviamente questo non può avvenire in tempi brevi, come tutti i cambiamenti di tipo sociale e culturale, ma l’individuazione corretta delle questioni e una giusta direzione nella riflessione costituiscono i primi momenti fondamentali in un percorso di trasformazione. E, per questo motivo, come vedremo nel prossimo capitolo con le interviste e la sperimentazione del progetto Escapes, la voce e le esperienze delle donne coinvolte hanno rappresentato sempre il punto di partenza e di riferimento costante ed essenziale.

In primo luogo, vorrei riprendere brevemente la questione della scelta della prospettiva di genere che, se nel primo capitolo ho affrontato più in relazione ad elementi quantitativi e operativi, legati alla femminilizzazione dei flussi migratori e al tema di salute individuato, ha certamente delle forti motivazioni teoriche che è opportuno approfondire.

La categoria del genere ha infatti, fin dalla sua definizione e dall’origine del suo utilizzo nella ricerca sociale, una portata critica e decostruttiva importante. Penso alla definizione di genere nelle sue due dimensioni, tra loro strettamente connesse89. Non solo cioè all’idea che alcune caratteristiche comportamentali,

psicologiche e attitudinali – tradizionalmente ritenute naturali e adeguate a uomini e donne – siano il risultato di complesse stratificazioni e combinazioni di elementi culturali, sociali ed economici, ma anche al fatto che questa costruzione culturale non sia neutra in termini valoriali e di potere ma vi sia uno squilibrio profondo tra quelli che sono considerati i due poli opposti in una

89 Per una ricostruzione dell’uso distorto che del termine genere (e gender) è stato fatto negli

ultimi anni in ambito cattolico-tradizionalista, rimando a Garbagnoli S., «L’ideologia del genere»: l’irresistibile ascesa di un’invenzione retorica vaticana contro la denaturalizzazione dell’ordine sessuale, in «AG About Gender», Vol. 3, N. 6, 2014, pp. 250-263.

visione binaria. Infatti, al maschile sono state tradizionalmente attribuite caratteristiche di razionalità, controllo, autonomia, potere nella sfera pubblica e politica mentre il femminile è stato caratterizzato da emozioni, passioni e fragilità, relegato nella sfera privata e familiare, della riproduzione e della cura. Il femminile, quando non direttamente escluso dal contesto di analisi, è stato costruito in opposizione al maschile e come mancante di tutte quelle caratteristiche necessarie all’individuo protagonista della sfera pubblica, artefice del proprio destino, così come è stato immaginato e rappresentato dalla tradizione filosofico-politica della modernità90. Adottare una prospettiva di genere, come dicevo, implica quindi immediatamente una critica radicale dell’esistente, una messa in discussione delle relazioni di potere e delle rappresentazioni tradizionali. Come ha scritto Sara Garbagnoli, «ciò che disturba […] i conservatori dell’ordine sessuale non è il genere in sé – che può essere usato (e non di rado lo è!) come sinonimo di “donne” intese come gruppo naturale – ma il potenziale critico […] di una categoria analitica che denaturalizza l’ordine tra i sessi, iscrivendolo nell’ambito dei rapporti sociali di dominio»91.

L’aspetto di critica e decostruzione dell’esistente, di messa in discussione dei rapporti di potere e dei ruoli ricoperti nella sfera pubblica e privata rappresenta quindi il nucleo fondamentale del concetto di genere e che mi guiderà nell’analizzare il fenomeno oggetto della ricerca. Emerge però, da questa citazione di Garbagnoli, un altro aspetto cui avevo accennato nel precedente capitolo, ovvero l’uso del termine “genere” come sinonimo di “donne” intese come gruppo naturale, accomunate dal sesso biologico femminile. Se nel caso di questo lavoro mi sono focalizzata sul tema della migrazione femminile e su un gruppo specifico di donne – le peruviane residenti a Firenze – non vuol dire

90 Affronterò in modo più ampio questo punto nei prossimi paragrafi. Si veda comunque

Gilligan C., Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1991. Rimando poi ai primi due capitoli di Loretoni A., Ampliare lo sguardo. Genere e teoria politica, Donzelli Editore, Roma 2014.

che in questo si esaurisca l’adozione di un’ottica di genere. O meglio, impiegare una prospettiva di genere non è sinonimo di indagare o descrivere una questione o un gruppo femminile, naturalmente accomunato dal sesso biologico. Secondo Joan Scott, per di più, il genere perderebbe facilmente «il suo taglio critico» se utilizzato come sinonimo di sesso o donne in senso descrittivo, in relazione ai caratteri biologici92. Per evitare che questo avvenga, l’invito di Scott è quello di fare del genere «la chiave per il sesso», ovvero di «donne» e «uomini» delle «categorie analitiche» per studiare i gruppi sessuali come strutture sociali storicamente solidamente costruite93.

Inoltre, come già accennato, il termine “genere”, così come quello di “studi di genere”, include al suo interno le variegate riflessioni legate agli orientamenti sessuali e alle identità di genere che scavalcano il paradigma eteronormativo, e la sigla LGBTQI+ sta proprio ad indicare la molteplicità di nuclei tematici che ruotano intorno al genere, in un continuo divenire e aggiornamento delle strade percorribili indicato dal simbolo +. Se l’oggetto di questa ricerca è costituito da un gruppo di donne eterosessuali e cisgender, il concetto di genere sarà impiegato, nella sua dimensione critica, decostruttiva e metodologica

92 Scott, J.W., Unaswered questions. Revisiting “Gender: A Useful Category of Historical

Analysis”, in «American Historical Review», 113/5, 2008, pp. 1422-1430.

93 Quando parliamo di genere e di studi di genere è impossibile non citare i lavori di Judith

Butler. Nonostante, come sarà evidente più avanti, io non abbia sposato la sua posizione teorica, se non per quanto riguarda il tema della vulnerabilità, è bene però tenere presente che la sua riflessione su sesso e genere ha ulteriormente complicato il rapporto tra questi due concetti e costituisce certamente un punto di riferimento nel dibattito. Se infatti, a partire dagli anni ’70, il termine genere era stato utilizzato in riferimento alle caratteristiche sociali attribuite al sesso – considerata invece la dimensione naturale e biologica – tale separazione viene messa radicalmente in questione con l’uscita, nel 1990, di Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity. In questo testo, infatti, si assiste ad un totale rovesciamento della relazione tra i concetti di sesso e genere, considerando la divisione e la gerarchizzazione sociale – cioè il genere – come ciò che crea i sessi. Tramite una serie di atti performativi, ripetuti nel tempo in maniera costante, si produce l’illusione della naturalità della differenza sessuale, in realtà costruita a livello culturale e sociale tramite un rigido paradigma eteronormativo. Come ha scritto Garbagnoli, «il genere […] precede e determina i sessi e, attraverso una serie di processi sociali di naturalizzazione della differenza socialmente costruita, costituisce e fonda come solida la credenza nella loro pre-socialità» (Denaturalizzare il normale cit., p. 211). Di Butler, si veda Fare e disfare il genere, Mimesis, Milano 2014; Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2017.

fondamentale, per indagare le prestazioni e i comportamenti associati alla femminilità. Il concetto di genere ci consente quindi di mettere in dubbio la naturalità di quanto è sempre stato presentato come tale nelle identità e relazioni tra i sessi e decostruire strutture di potere – nella sfera pubblica quanto in quella privata – sedimentate nel tempo.

Per questo motivo, l’adozione di un’ottica di genere mi ha guidata nell’analisi e nei tentativi di interpretazione della questione della salute sessuale e riproduttiva delle donne migranti in Toscana e del loro accesso ai servizi sanitari e mi ha aiutata nella lettura del fenomeno delle IVG delle donne peruviane a Firenze, andando a decifrare la natura delle loro relazioni familiari e di coppia, la loro condizione sociale, lavorativa ed economica. Si valuterà poi se dei servizi sanitari che pensino i loro utenti come situati, in relazione e vulnerabili (e non degli individui neutri, autonomi e privi di legami sociali) possano essere più efficaci nella promozione del diritto alla salute.

A fianco di questo chiarimento circa l’adozione di una prospettiva di genere, mi preme affrontare un’altra questione metodologica, punto di riferimento per l’intero percorso di ricerca, ovvero quella dell’intersezionalità94. Il termine

intersectionality nasce in particolare nell’ambito della ricerca giuridica, nel

contesto della cosiddetta terza ondata del femminismo e in polemica con la tradizione anglo-americana degli studi di genere ma, come vedremo nelle prossime pagine, la sua intuizione fondamentale era già presente nei femminismi non bianchi degli anni ‘70. Questo concetto vuole mettere in luce il fatto che non soltanto l’identità di genere, ma anche altre forme di appartenenza come la condizione sociale e il gruppo etnico, contribuiscono a definire le condizioni di vita delle persone e possano quindi rappresentare elementi di discriminazione e diseguaglianza. La prima a servirsi di questo concetto è stata Kimberlé Crenshaw95, che ha notato come, nel diritto

94 Si veda Marchetti S., Intersezionalità, in Botti C. (a cura di), Le etiche della diversità

culturale, Le Lettere, Firenze 2013, pp. 133-148.

95 Si veda Crenshaw K., Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist

antidiscriminatorio, le categorie di razza e genere si escludessero reciprocamente e non vi sia mai stata un’analisi che tenesse in considerazione la molteplicità delle dimensioni che concorrono a costruire l’identità di una persona e che quindi possono costituire un motivo di discriminazione96. Il caso emblematico, per primo preso in analisi, è quello delle donne nere, discriminate e svantaggiate sia in quanto donne che in quanto nere ma, a causa dell’impianto del diritto antidiscriminatorio, non riconosciute come tali. La relazione tra queste due componenti dell’identità raramente è stata presa in esame ma analizzare un caso di discriminazione, o più in generale la vita concreta delle persone, considerando un unico elemento come caratterizzante l’identità è estremamente riduttivo e, per di più, può portare a risultati poco veritieri e fuorvianti. Come scrive Loretoni, «ciò che qui si vuole complicare è il single

axis framework, non semplicemente includendo le donne nere dentro una

struttura analitica già definita, ma ripensando la base concettuale tanto del discorso sulla razza quanto di quello sul genere a favore di un indirizzo intersezionale»97.

Ciò che quindi si mette in dubbio, con la prospettiva intersezionale, è l’esaustività e la completezza di un unico punto di vista, sia nella definizione dell’identità personale sia, di conseguenza, nell’analisi di situazioni di discriminazione e oppressione. E, inoltre, a fianco di questa riflessione, ci si domanda anche se esista una gerarchia tra questi differenti elementi identitari. In che senso due persone che condividono alcune dimensioni identitarie, ma non tutte, sono “uguali” o sono “diverse”? C’è una gerarchia tra le categorie che contribuiscono a formare l’identità? Se, ad esempio, una donna nera viene discriminata, lo sarà in ragione del suo essere donna (genere) o del suo essere nera (razza)? L’immagine utilizzata da Crenshaw per spiegare questo concetto

«University of Chicago Legal Forum», Feminism in the Law: Theory, Practice and Criticism, Issue 1, Article 8, 1989, pp. 139-167.

96 Si veda l’intervista a K. Crenshaw reperibile a questo link:

https://www.americanbar.org/content/dam/aba/publishing/perspectives_magazine/women_pe rspectives_Spring2004CrenshawPSP.authcheckdam.pdf, ultima visita 24/7/2019.

è estremamente efficace. Immaginiamo un incidente di auto al centro di un incrocio. Diverse strade confluiscono in quell’incrocio e le macchine coinvolte nell’incidente provengono da tutte le direzioni. Si immagini poi che venga chiamato un medico sul posto, ma che gli si chieda di curare le vittime soltanto se riesce a individuare la direzione dell’auto che ne ha causato le ferite. Questo è ovviamente impossibile, visto che è proprio lo scontro tra due o più vetture a provocare il danno. L’esperimento si conclude così, con l’impossibilità di identificare l’origine delle ferite, il medico che decide di non intervenire e il traffico che riprende come prima, come se nulla fosse accaduto, con i feriti a terra che giacciono senza ricevere aiuto.

Come sostenuto nel corso dell’intero lavoro, difficilmente possiamo definire l’identità di una persona tramite una sola delle sue caratteristiche e dimensioni identitarie. In questo senso, la prospettiva intersezionale ci aiuta a tenere presenti le molteplici componenti identitarie e la loro interazione in una direzione antiessenzialista, non tanto suggerendo una soluzione – dimostrando cioè la prevalenza di una dimensione sull’altra – ma piuttosto rimandando continuamente alla complessità della questione identitaria. Per questo motivo, con l’analisi del caso di studio vedremo che la dimensione di genere sarà solo una di quelle prese in esame, e che per valutare le motivazioni di una difficoltà di accesso ai servizi sanitari delle donne migranti considereremo molteplici altri aspetti, come la condizione lavorativa ed economica e le relazioni sociali e familiari.

Dopo queste due brevi premesse di ordine metodologico, è arrivato il momento di entrare nel vivo delle questioni di ordine filosofico politico, mostrando quindi il percorso che svolgerò. Come anticipato, questa ricerca è stata fin dall’inizio orientata all’analisi di processi e soggettività concrete, visto che l’obiettivo primario è quello di analizzare una tematica che ha un impatto importante sulle vite concrete e quotidiane delle donne coinvolte e di fornire, se possibile, degli spunti di riflessione per un miglioramento della situazione. Qual è dunque il ruolo del lavoro teorico all’interno di questa ricerca? Il percorso che

andrò a delineare nelle prossime pagine toccherà alcune questioni che, a mio avviso, da un lato emergono necessariamente anche ad una prima lettura del fenomeno e, dall’altro, possono rappresentare una lente di osservazione interessante e ricca di spunti. Tramite la riflessione di alcune pensatrici femministe, anche con posizioni distanti tra loro, vorrei quindi approfondire alcune questioni che, a mio parere, costituiscono dei nodi tematici a livello teorico. In particolare, pensando al tema della salute sessuale e riproduttiva delle donne migranti in Toscana, sono almeno due i nodi fondamentali che emergono e che andremo a dipanare.

In primo luogo, quando parliamo di salute, e in particolar modo della sfera sessuale e riproduttiva, entrano nel campo di analisi una serie di questioni connesse alle culture della salute e del corpo, alle diverse concezioni di salute e malattia, ai contesti in cui si fa esperienza della salute e della malattia. Se dell’idea di salute a cui faccio riferimento in questo lavoro ho già parlato nel primo capitolo, qui vorrei soffermarmi sugli aspetti più propriamente legati alla sessualità, alle relazioni e al corpo, e a che ruolo questi occupino all’interno di quella complessa interazione tra credenze, tradizioni e abitudini che chiamiamo cultura. Inizierò quindi questo percorso con la riflessione svolta da Susan Okin riguardo al ruolo della sfera privata, e quindi della sessualità, delle relazioni e della famiglia, all’interno delle culture, e di come queste spesso veicolino precisi ruoli e rapporti di genere. Porterò poi avanti una riflessione sul concetto di cultura e su che ruolo questo giochi nell’orientare le scelte e le vite delle persone. Sarà di aiuto, in questo contesto, il lavoro di Anne Phillips, che ha proposto un’idea di cultura che non sia monolitica e ferma nel tempo e che non determini in maniera rigida le vite umane.

In secondo luogo, quando parliamo di sessualità e riproduzione emerge certamente la questione della scelta e della libertà nell’uso del corpo, e dell’autonomia delle donne nel compierla. Se normalmente siamo abituati a muoverci tra due estremi – donne vittime dell’oppressione senza alcuna capacità di scelta vs. donne completamente libere e autonome – in queste pagine vorrei

mantenere uno spazio di riflessione libero e fluido tra queste due possibilità. Non tutte le situazioni e le scelte possono avere un’interpretazione unica e univoca, ed è bene abbandonare quella rigidità che vuole le donne inquadrate tra le due opzioni appena citate. In particolare, si vedrà poi come la rappresentazione che viene proposta delle donne migranti e, in generale, non occidentali – sia nel dibattito pubblico che da parte di alcune riflessioni femministe98 – incida sulla capacità di scelta e autonomia che attribuiamo loro.

98 Nel corso della cosiddetta seconda ondata del femminismo – variegata al suo interno e con

posizioni anche molto differenti e tra loro in costante confronto – militanti ed intellettuali (tra le quali possiamo nominare, tra le tante, Luce Irigaray, Julia Kristeva, Adriana Cavarero, Carol Gilligan) hanno portato avanti una riflessione filosofica circa le fondamenta della tradizione occidentale, considerando il fallologocentrismo, cioè la supremazia del soggetto maschile su quello femminile, come il filo conduttore di tutti i discorsi e le pratiche – apparentemente neutre ed universali – nella sfera religiosa, giuridica, politica e filosofica. A partire da questa prospettiva, è stata criticata la prima ondata del femminismo, che aveva principalmente lavorato per rivendicare l’uguaglianza dei diritti rispetto al soggetto maschile (primi fra tutti il diritto di voto e ad un salario equo) e che è stata accusata di voler uniformare il soggetto femminile ai valori 'al maschile' che hanno sostenuto l’intera storia dell’Occidente.

In opposizione al valore dell'uguaglianza, le femministe della seconda ondata hanno quindi proposto forme autonome di costruzione dell'identità femminile, che fossero immuni dal retaggio patriarcale, e per questo motivo si parla anche di ‘femminismo della differenza’. In questa fase storica del femminismo, molte riflessioni si sono concentrate sulla discriminazione basata sul sesso come fondamento di tutte le altre forme di diseguaglianza e hanno finito, in nome della sorellanza, per produrre un’immagine di donna, e delle sue problematiche, modellata sulle caratteristiche del gruppo dominante all’interno di questo movimento femminista: bianca, istruita, di classe media, eterosessuale, escludendo di fatto le molteplici altre soggettività che non si riconoscevano in questa identità. Come si legge nel Redstockings Manifesto del 1969, «la supremazia maschile è la più antica, la più basilare forma di dominio. Tutte le altre forme di sfruttamento e oppressione (razzismo, capitalismo, imperialismo, etc.) sono estensioni della supremazia maschile». Un altro esempio di riflessione femminista che ha indagato con uno sguardo parziale la condizione femminile, certamente con una prospettiva teorica e politica differente da quella del femminismo radicale di Redstockings, è rappresentato

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