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a cura di Monica Pavesio e Laura Rescia

Nel documento Della questione epica (pagine 146-151)

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questa tendenza, Dalla Valle cita in particolare Ogier che rifiuta l’uso dei récits al posto delle azioni. Que- ste ultime sarebbero invece, per lo stesso autore, più adatte ad un teatro contemporaneo, soprattutto nelle

tragi-comédies, invenzione che è per lui stata introdotta

proprio dagli italiani. Tale idea verrà difesa alcuni anni più tardi da André Mareschal che cita come modelli, oltre al già ricordato Pastor fido, un’altra importante pastorale creata da Guidubaldo Bonarelli, La Filli di

Sciro. A questi due teorici si oppongono Jean Chape-

lain e Jean Mairet. Quest’ultimo, in particolare, sostie- ne l’importanza del rispetto delle unità (soprattutto l’unità di tempo) e, accanto al Pastor fido e alla Filli, ricorda anche l’Aminta di cui approva la presenza di molti récits.

Per quanto riguarda in particolare l’analisi delle due versioni proposte, la studiosa sottolinea la nuova «vague d’intérêt» negli anni Trenta del Seicento (p.

xxII) per gli autori italiani e in particolare proprio per

l’Aminta tassiano, il che giustifica che due scrittori francesi si siano dedicati praticamente in contempora- nea a questa pastorale. Rayssiguier, in particolare, «se propose de travailler sur l’Aminta en tenant compte des nouvelles lois tragi-comiques. Il s’agissait pour lui de remanier un texte illustre, mais déjà perçu comme une pièce ancienne» (p. xxIII). Per modernizzare il

testo tassiano, ormai considerato troppo ‘semplice’, Rayssiguier cerca di complicarne la trama aggiungendo un elemento assente nell’originale italiano: l’amore tra Elpino e Nerina. Sostituisce inoltre alcuni récits con scene d’azione, rischiando a volte di andare contro le

bienséances: egli mostra ad esempio i due protagoni-

sti, Aminta e Silvia, che si scambiano dolci effusioni al termine dell’opera. Dalla Valle precisa pertanto oppor- tunamente come non si tratti di una traduzione, bensì di un «remaniement» (p. xxIv) adattato al teatro e al

gusto del pubblico d’Oltralpe. Rayssiguier si schiera perciò apertamente coi ‘moderni’ decidendo di mutare il suo modello sul piano dell’azione drammatica: egli non si pone come teorico, ma giustifica la trasforma- zione dell’originale tassiano come una scelta di carat- tere personale. Dalla Valle analizza con precisione tutti i mutamenti più importanti introdotti da Rayssiguier e sottolinea in particolare la soppressione dei cori fi- nali di ogni atto dell’Aminta. Tuttavia, il famoso coro dell’età dell’oro sull’amore e l’onore, che aveva riscos- so un grandissimo successo in Francia, non viene del tutto eliminato, ma semplicemente spostato e inseri- to in una réplique di Elpino che dialoga con Ergasto. Ma è soprattutto a partire dal terzo atto che la pièce di Rayssiguier si discosta maggiormente dall’originale italiano proprio grazie alla sostituzione di scene mo- strate al pubblico al posto dei récits tassiani. Il risultato è un’amplificazione del testo di partenza dal punto di vista della trama e della drammaturgia che avrà un suc- cesso notevole in Francia.

La versione di Charles Vion d’Alibray è definita come una pièce “fidellement traduite de l’Italien” (p.

xxxII) e si pone perciò in opposizione alla rielaborazio-

ne operata da Rayssiguier. Pubblicata dall’editore Ro- colet, questa traduzione è accompagnata da una serie di immagini di pregevole fattura, vale a dire, afferma l’autrice, di «dix planches numérotées de Daniel Rabel qui illustrent l’intrigue de l’Aminta de la préface à la dernière scène. […] Cette insertion des «Figures» de l’Aminta, adoptées par un traducteur «fidèle», qui se propose de respecter son texte de départ, y compris les récits, est assez singulière, voire curieuse: Vion choi- sit d’illustrer son texte grâce à certaines images, qui «montrent aux yeux» les événements que le texte de

départ et sa traduction fidèle se bornent à raconter» (pp. xxxII-xxxIII). Tuttavia Vion ammette l’importan-

za delle leggi dei modernisti, ma sottolinea che la sua venerazione per il testo tassiano l’ha condotto a opera- re scelte diverse e a rifiutare ogni intervento sulla sua fonte, mantenendo perciò i récits, anche per rispettare le bienséances.

Un’altra osservazione molto interessante della studiosa sull’Advertissement dell’opera di Vion d’A- libray – il quale redige sempre con molta cura le pre- fazioni delle sue versioni, prefazioni che spesso pos- sono essere considerate dei veri e propri testi teorici sulla traduzione e non solo – riguarda il confronto tra l’Aminta e Les Amours tragiques de Pyrame et Thisbé di Théophile de Viau. In particolare il discorso dello scrittore francese si focalizza, nell’Advertissement stes- so, sull’elemento del velo di Silvia che viene comparato con quello di Thisbé. Pur apprezzando la qualità degli alessandrini di d’Alibray, Dalla Valle sottolinea che l’o- pera di quest’ultimo appare notevolmente amplificata rispetto al modello italiano.

Concludendo la sua introduzione, la studiosa affer- ma, ricollegando molto opportunamente le due tradu- zioni al contesto letterario in cui videro la luce, che «à travers l’Aminte de Rayssiguier et celui de Vion d’Ali- bray, nous assistons […] à une sorte de conflit – pre- squ’une compétition – entre les auteurs révolutionnai- res comme Mareschal (et Rayssiguier) et les dramatur- ges modernes mais philo-classiques comme Mairet (et Vion d’Alibray)» (p. xxxIx).

Un’ampia bibliografia precede le edizioni dei due testi che sono fornite di numerose e utilissime note, in cui, tra l’altro, assai spesso Dalla Valle cita i passag- gi corrispondenti del testo tassiano mostrando con precisione se e come quest’ultimo venga rispettato o trasformato.

Infine, un «Index des noms» conclude il volume che, oltre alle osservazioni originali e sempre puntuali presenti nell’introduzione, ci offre la possibilità di leg- gere due testi sino ad ora di difficile reperimento e ac- compagnati da un apparato critico impeccabile. Tutto ciò rende pertanto questo volume uno strumento indi- spensabile per coloro che vogliano studiare non solo i due autori delle traduzioni dell’Aminta, ma anche due generi teatrali che spesso si sovrappongono e s’inter- secano, quello pastorale e quello tragicomico, che così tanto successo ebbero in Francia nei primi decenni del

xvII secolo.

[DanIeLamaurI]

FrançoIsDe La mothe Le vayer, Dialogues faits

à l’imitation des Anciens, édition critique par Bruno

Roche, Paris, Champion, 2015, 666 pp.

Tornato all’attenzione della critica soltanto con il rinnovamento delle ricerche sul libertinaggio, La Mo- the Le Vayer si rivela, con la riscoperta dei suoi scritti filosofici, personaggio di grande interesse nella costel- lazione libertina. I dieci dialoghi qui riproposti in edi- zione critica, con ortografia modernizzata, permettono di misurare come egli utilizzi la strategia citazionale, andando ben oltre il semplice sfoggio di erudizione: l’adozione del burlesco, del sottinteso, dell’ironia e della distanziazione, gli consentono di elaborare una scrittura ludica e riflessiva al contempo, particolarmen- te adatta ad accogliere il pensiero libertino.

Un’introduzione all’edizione ricostruisce la bio- grafia dell’autore, e contestualizza i dialoghi nel loro orizzonte storico e filosofico. L’edizione propone il ric-

chissimo apparato citazionale del testo nelle traduzioni dal latino e dal greco, tratte della «Collection Budé» o a cura dell’editore scientifico. Nella modernizzazione ortografica, si è deciso di conservare la punteggiatura e l’uso delle maiuscole. Il volume è corredato dalla ri- produzione dell’articolo dedicato a Le Mothe Le Vayer nel dizionario di Pierre Bayle del 1740, da una buona bibliografia e da un utile indice dei nomi dei personag- gi storici, mitologici e letterari.

[LauraresCIa]

FrÉDÉrIC tInGueLy, La lecture complice. Culture li-

bertine et geste critique, Genève, Droz, 2016, 253 pp.

Con un titolo decisamente accattivante, l’A. pro- pone in questo volume un’utile raccolta dei suoi studi dedicati alla cultura libertina, pubblicati negli ultimi dodici anni. E lo fa ponendo l’accento sulla questio- ne ermeneutica che li sottende: quale postura critica adottare di fronte a testi che non permettono all’ese- geta una sicura chiave di lettura, e in cui il problema interpretativo è centrale? La lezione di Léo Strauss è evidentemente alla base della riflessione di Tinguely, ma in una versione precisata e limitata. La “lettura complice” proposta dall’A. si basa sulla convinzione che l’ermeneutica dei testi contraddittori e impliciti quali quelli libertini necessiti di libertà critica e corag- gio nell’assunzione del rischio interpretativo sotteso al gesto critico: connettere una serie di anomalie, che si rivelano alla lettura ravvicinata e puntuale dei testi, ricostruendo il senso di tali scarti semantici e inter- pretandolo come intenzione dell’autore nei confronti del lettore è una scelta metodologicamente fondata, e tuttavia ardita. Secondo l’A., la complicità tra autore, lettore e critico deriverebbe dalla condivisione di una cultura filosofica e scientifica, che permette all’ese- geta di dotare di un nuovo senso ciò che agli occhi del lettore disattento si configura come semplice di- sattenzione o contraddizione testuale. Il rischio della sovrainterpretazione è in agguato, ma la critica viene arricchita dal moltiplicarsi di ipotesi plausibili, come quelle qui presentate, perché ancorate ai testi, oltre che avvalorate da quella prospettiva culturale e inter- testuale peculiare della formazione umanistica a cui Tinguely si richiama, rivendicandola come antitetica agli schematismi di talune stagioni critiche.

La scelta della lectio difficilior, dunque, è il comu- ne denominatore di una serie di letture applicate con profitto in primo luogo a opere maggiori e già ben in- vestigate dalla critica. Così, una prima parte dedicata alla Doctrine curieuse del Père Garasse mette in luce l’utilizzo sistematico di un metodo di falsificazione esegetica da parte del gesuita, nella sua presentazio- ne dei libertini e delle loro somiglianze sia con i Ri- formati sia con coloro che Tinguely, applicando una categoria contemporanea, denomina “rappresentanti dell’Alterità”. L’A. presenta poi una lettura di alcuni passaggi del Francion di Sorel, in particolare del primo libro e dell’episodio della scimmia tratto dal secondo libro, per poi prendere in esame La Première journée di Théophile de Viau, il Page disgracié di Tristan l’Her- mite, Les Etats et Empires de la Lune di Cyrano. Una seconda parte è dedicata ai meno noti racconti di viag- gio di Bernier e Monconys.

Il volume presenta un duplice interesse: lo studio- so del libertinaggio secentesco trova utilmente riuniti contributi di indubbio valore, originalità e ampio re- spiro, espressi con estrema chiarezza, una dote che in quest’ambito la critica non sempre può vantare, e che

pertanto si prestano anche a supporto di uno studio ravvicinato di studenti magistrali e dottorandi.

[LauraresCIa]

Les voies du «genre». Rapports de sexe et rôles sexués (xvie-xviiie siècles), sous la direction de Florence Lotte- rIe, «Littératures classiques» 90/2016, 175 pp.

Se il concetto di genere, derivante come noto dall’a- rea anglosassone e dagli studi di contemporaneistica, possa avere un’utilità euristica quando applicato allo studio della letteratura dell’Ancien Régime è la doman- da con la quale la curatrice apre la sua introduzione al volume. La risposta è tutt’altro che scontata, se si ab- bandona la posizione puramente ideologica per entra- re nei diversi orientamenti che i gender studies hanno assunto quando la critica accademica ha accettato tale postura critica. Affrontare il discorso di genere presup- pone sempre che si riconosca la gerarchia tra i sessi e la chiusura identitaria che il discorso filosofico-letterario ha assunto nei secoli. E anche se occorre essere consa- pevoli dello scarto tra la realtà storico-sociale e la sua rappresentazione nel discorso letterario, è altrettanto vero, come sottolinea la curatrice nella sua introduzio- ne, che il discorso maschile necessita di essere com- pletato da quello femminile, per poter ricostruire un quadro dialettico delle posizioni concettuali sulle don- ne e le loro in/capacità, mettendo a contatto il piano ideologico e filosofico con le finzioni e le “mitologie” di un’epoca. È il concetto di “imaginaires philosophi- ques” di Le Doeuff che viene qui richiamato, insieme all’approccio interdisciplinare su cui gli studi di genere normalmente poggiano.

I contributi qui raccolti sono largamente incentrati sulla letteratura seicentesca, e su questi ci soffermere- mo, anche se non mancano aperture retrospettive e sguardi sul xvIII secolo.

L’articolo di Erik LeborGne, Au-delà de la différen-

ce des sexes: l’humour de Marie-Catherine Desjardin- Villedieu, pp. 35-47, analizza alcuni testi narrativi di Mme de Villedieu attraverso la categoria dell’umori- smo nero, nella sua formulazione freudiana; utilizzan- do una lettura psicanalitica, egli individua nella stra- tegia umoristica, con la distanziazione che essa pre- suppone, il mezzo attraverso il quale l’identità sessuale può permettersi di oscillare. Nella sua libertà narci- sistica, il personaggio umorista incarnerebbe dun- que un’identità dell’Io caratterizzata da una doppia appartenenza maschile e femminile. Louise PIGuet,

Mme Guyon, une légitimation paradoxale, pp. 61-75,

prende in esame il discorso di Mme Guyon, indirizza- to principalmente ai suoi oppositori, le autorità giudi- ziarie ed ecclesiastiche, per verificare come riesca ad attingere ai topoi tradizionali dei discorsi sui generi, ai fini di rovesciarli e legittimare la sua attività di “Dame directrice”. Pur non rimettendo in discussione la tra- dizionale polarizzazione tra maschile e femminile, nei suoi scritti indaga e sovverte talvolta i valori ad essi abitualmente riferiti, per rovesciare gli attributi della forza e della debolezza, in una nuova e inattesa ricon- figurazione dei generi. È riferito a Mme de Sévigné il contributo di Markus WeWeL, L’analyse politique du

genre: pour une relecture des lettres de Mme de Sévigné,

pp. 77-87, dove si dimostra che la tradizionale visione dell’epistolografia femminile, connotata dall’interesse esclusivo ad argomenti privati e strettamente perso- nali, può essere rovesciata se solo si prendono in esa- me alcune lettere della famosa scrittrice, relative alla

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descrizione del processo a Fouquet, nelle quali è lo stesso Re ad essere cripticamente criticato per il suo amor proprio e narcisismo. Myriam DuFour-maître,

Trouble dans la galanterie? Préciosité et questions de genre, pp. 107-118, attraverso una fine analisi delle connessioni e opposizioni tra galanterie, préciosité e tendre, effettuata anche attraverso la cartografia di Madeleine de Scudéry e Michel de Pure, individua nel periodo in cui questa articolazione si sviluppa il momento in cui si impone progressivamente la nor- ma eterosessuale e il concetto di “sesso femminile”, indicando le vie di fuga e le resistenze a tale modello. Liselotte steInbrüGGe, Du genre d’un genre nouveau:

les portraits littéraires d’Anne-Marie-Louise d’Orléans,

pp. 119-132 si concentra sul ritratto letterario nella realizzazione dei Divers portraits di Mlle de Montpen- sier (1659) per ipotizzare che la trasgressione al gene- re, nella doppia accezione che rinvia all’appartenenza sessuale e alla configurazione letteraria, sia in quest’o- pera duplice, realizzando un superamento della norma nei due sensi. Marion De LenCQuesaInG, Confisquer

l’exceptionnel féminin: Jeanne de Chantal et la femme forte, pp. 133-148, esamina gli scritti agiografici rela- tivi a Jeanne de Chantal, per riscontrarvi un recupero e un aggiornamento dell’immagine della «femme for- te», di derivazione biblica, nel quale viene convogliata tutta l’eccezionalità di tale figura. Hendrik sChLIePer,

La virilité dans “Iphigénie” selon Racine, pp. 149-162,

prendendo le mosse dal presupposto che il teatro clas- sico sia il luogo privilegiato della discussione e della negoziazione sulle questioni di genere, analizza la tra- gedia raciniana nella sua dimensione di incarnazione di diversi modelli di virilità: quello di Agamennone, esemplare della mascolinità in crisi, a confronto con quello di Achille, che invece emerge in una nuova con- figurazione della mascolinità galante.

Chiude il volume una conversazione tra la curatri- ce del volume e Marie-Frédérique Pellegrin, editore scientifico dei testi di Poullain de La Barre dedicati a questioni di genere.

[LauraresCIa]

oLIvIer LePLâtre, Fénelon ou l’inquiétude du politi-

que, Paris, Hermann, 2015, 487 pp.

Il volume si iscrive nel rinnovato interesse che l’o- pera di Fénelon – gli scritti pedagogici come quelli spirituali – ha conosciuto nell’ultimo ventennio. Come l’indica il titolo, questo lavoro si concentra sulla rifles- sione politica dell’arcivescovo di Cambrai, già oggetto degli interessanti saggi raccolti negli atti del convegno di Strasburgo del 1999 (Fénelon. Mystique et politique, a cura di F.-X. Cuche e J. Le Brun, Paris, Champion, 2004). Ma la problematica che Olivier Leplâtre mette a fuoco non manca di originalità. Si tratta del comples- so rapporto tra finzione narrativa e politica. Per quale motivo, si chiede Leplâtre, Fénelon, pur così attento alla cosa pubblica, non ha mai composto un’opera di teoria politica? Nelle tre dense parti che compongo- no il volume Leplâtre interroga questa omissione ed elabora una interpretazione critica non priva di sug- gestione.

La prima parte («L’impensable pensée politique») analizza le premesse del pensiero politico di Fénelon, preso tra un pessimismo antropologico che vede nel mondo «un Enfer déjà commencé», la necessità di un’arte del buon governo che di quest’inferno tenga conto, la figura del principe la cui natura umana ne fa una vittima delle passioni, e la coscienza che le passioni

sono la fonte stessa dell’energia che sostanzia la politi- ca. L’ «inquiétude du politique» sta nella drammaticità di questa impasse.

Nella seconda parte («Épreuves de la fiction»), Le- plâtre ripercorre i testi narrativi di Fénelon – opusco- li pedagogici, favole, Dialogues des morts e Téléma-

que – ravvisando nella creazione letteraria la forma più consona all’espressione del pensiero politico. Per- ché Fénelon preferì, a una riflessione teorica, la via della creazione letteraria? È sufficiente, per spiegarne le ragioni, addurre gli intenti pedagogici dell’auto- re – il suo ruolo di precettore del duca di Borgogna, per il quale scrisse queste opere – o una personale reinvenzione, nel solco della tradizione rinascimenta- le dei miroirs des Princes, di una paideia principesca? Motivi più profondi – e più complessi – emergono dall’interpretazione che delle opere narrative di Fénelon dà lo studioso. La finzione, osserva Leplâtre, «porte en elle-même une interrogation politique». Fénelon la piega infatti al progetto di mettere a nu- do e sotto accusa il peso che assume l’immaginazione nella sfera del politico: la finzione narrativa si trova al- lora al servizio di una contestazione della finzione po- litica e, soprattutto, della «fictionalisation» del socia- le. Conviene, insomma, guardare alla politica secondo Fénelon nella prospettiva stessa che la politica adotta per sostenersi e sostentarsi: quella, appunto, che per- mette di distinguere nell’«anamorphose des fictions vraies» le rappresentazioni delle «métamorphoses imaginaires» del politico. Le pagine dedicate a inter- pretare in questo senso le finzioni féneloniane sono di estremo interesse e sollecitano l’adesione del lettore grazie anche alle seduzioni di una riflessione critica «en abyme», o «au second degré».

«Le gouvernement des images», ultima parte del vo- lume, vaglia il ruolo delle immagini in questi testi nar- rativi: un ruolo che, per il giovane duca di Borgogna, si proponeva come un risveglio all’arte, figura del divino pur nell’essenza transitoria della sua sostanza fittizia.

Olivier Leplâtre ha l’indubbio merito di dare una forma stilistica di grande raffinatezza alla sue analisi: fascino di una scrittura che non sempre, tuttavia, rende agevole la lettura e la comprensione sintetica del di- scorso critico.

[barbaraPIQuÉ]

GaeLLe LaFaGe, Charles Le Brun, décorateur de

fêtes, Préface de J. de La Gorce, Presses Universitaires

de Rennes, 2015, 321 pp.

L’attività come decoratore di feste e cerimonie di Charles Le Brun, “Premier peintre” del Re Luigi XIV, allievo di Nicolas Poussin e fondatore, nel 1648, dell’Académie royale de peinture et de sculture, è stata a lungo dimenticata. Il carattere effimero delle creazioni di Le Brun, capaci, nel giro di poche ore, di stravolge- re piazze, palazzi e giardini, con grandi apparati creati per l’occasione e poi distrutti alla fine delle cerimonie, ne ha decretato l’oblio nei secoli successivi. Il libro di Gaëlle Lafage, con l’aiuto di fonti e immagini, cerca di ricostruire questi grandi apparati, comprendenti dipinti, sculture, tappezzerie e grandi strutture, come gli archi di trionfo, e ne permette la ricollocazione nel contesto storico che li ha visti nascere.

Nella prima parte del volume, sono indagati e defi- niti i rapporti che il decoratore aveva con Luigi XIV e

Nel documento Della questione epica (pagine 146-151)

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