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a cura di Stefano Genetti e Fabio Scotto

Nel documento Della questione epica (pagine 185-199)

Tra le voci più commoventi che si avvertono negli scritti di Péguy, quella dell’orazione riveste un’im- portanza centrale, anche in virtù dell’esclusione dello scrittore dai sacramenti, che lo condurrà a sviluppare una riflessione approfondita sulla preghiera. Oppo- nendosi al timore dei suoi contemporanei di rientrare in se stessi, Péguy esalta invece «la fleur de la jeune oraison» (p. 205), che gli permette di ripercorrere il processo dell’Incarnazione, della Passione e della Re- denzione di Cristo, evitando, da un lato, la deriva di una fede avulsa dalla storia e, dall’altro, quella di una religiosità che tende ad adeguarsi alle mode imposte dalla società. L’orazione si configura allora in Péguy come una lotta condotta contro gli idoli del mondo moderno – il potere, il denaro e il successo –, negando i quali i suoi contemporanei potranno ritrovare la per- petua giovinezza, per affrontare con slancio rinnovato le sfide del loro tempo.

Studiando le strategie del comico e della derisione, Denis Labouret illustra nel suo saggio come il riso

di Péguy nasca sempre in polemica con l’ironia, tal- volta denigratoria dei suoi avversari. Sebbene Péguy utilizzi nelle sue opere un linguaggio popolare, egli non cede mai alla volgarità e al cattivo gusto, predi- ligendo al contrario il «comique sérieux» (p. 217), che traduce una coscienza tragica del mondo e della storia. In quest’ottica va interpretato anche il ricorso all’antifrasi ironica, nella quale l’autore dei Mystères fa dialogare la voce del popolo e quella degli intel- lettuali, e quello – meno frequente – allo humour, il quale dà adito a una sorta di espansione polifonica, talvolta identificata dalla critica con la verve del po- lemista, tipica di un certo Péguy. Più specificamente, secondo Labouret, Péguy affida allo humour l’espres- sione mediata della malinconia e del distacco che gli permettono di ridere e di sorridere, di fronte alla tra- gicità della vita.

Soffermandosi sul valore dei tratti sovrasegmenta- li nelle opere di Péguy, Pauline bruLey osserva come

l’autore dei Mystères attribuisca alla voce un significato fondamentale, in quanto sinonimo di veridicità dell’es- sere, di cui manifesta la presenza. Mentre nella retorica tradizionale, fino al xIx secolo compreso, il pensiero

non era inteso in termini di voce, nelle sue componenti sensibile, individuale ed emotiva, Péguy si dimostra invece a tutti gli effetti figlio del xx secolo, in quanto

dà vita a una scrittura che fluisce incessantemente, cre- ando la sottile musicalità della voce, attraverso il ritmo che fa risuonare nel lettore la rivelazione della verità.

Valérie aubert e Samir sIaD mettono in luce, nel

loro contributo, la straordinaria potenzialità del teatro, quale strumento privilegiato di riattualizzazione della parola e della voce di Péguy, i cui testi chiedono di es- sere completati attraverso la messa in scena teatrale. Infine, per Marie hasse, recitare Péguy significa anzi-

tutto mettersi in ascolto di una voce che invoca una co- munione intima, che permette di riscoprire nell’istante la voce dell’Eterno.

Nell’intento di studiare la ricezione di Péguy in Rus- sia, Tatiana vICtoroFF sottolinea come la conversione

del poeta dal socialismo al cristianesimo abbia influen- zato molti pensatori russi. Tra di essi, il critico indaga in particolare l’eco di Péguy nell’opera di Iosif Brodsky (1940-1996), che mostra una certa affinità di pensiero e di toni con quella dello scrittore francese. Nel rappre- sentare il Mistero, entrambi gli autori scelgono infatti di fare intervenire la voce, quale garanzia di veridicità nel caos di rumori che contraddistingue il mondo mo- derno, e luogo dell’incontro con l’invisibile, in un esilio volontario dalla società, giudicata vana e superficiale.

Jennifer KILGore-CaraDeC indaga, dal canto suo,

l’influenza esercitata da Péguy sulla pacifista americana Dorothy Day (1897-2000), fondatrice, insieme a Peter Maurin (1877-1949) dei Catholic Workers, un’asso- ciazione di operai, avente per scopo, accanto all’aiuto concreto ai poveri, l’educazione a un pensiero libero e cristianamente ispirato, infine, la creazione di fattorie comunitarie ove si potessero vivere gli ideali evangelici a contatto con la natura. È dunque attraverso Maurin che Dorothy Day conosce le opere di Péguy, il cui pensiero, come mostra Kilgore-Caradec, costituisce il fondamento stesso dell’azione della pacifista america- na, convinta sostenitrice dei diritti dei Neri d’America. L’influenza di Péguy è fortemente presente anche nell’opera del teologo Hans Urs von Balthasar, intento a rintracciare la bellezza della Rivelazione biblica nella letteratura contemporanea. Nella Dramatique divine (1962), egli sostiene che Péguy dà voce a Dio Padre, un padre che educa amorosamente e teneramente i figli alla libertà, attendendone il ritorno, proprio come nel- la parabola evangelica. In questo senso, per il teologo di Basilea, Péguy è riuscito nei Mystères, e soprattutto nel Mystère des saints Innocents, a penetrare nel cuore stesso di Dio.

Riprendendo i tre ordini pascaliani – del corpo, del- lo spirito e della carità –, Julie hIGaKI mostra come

il pensiero di Péguy costituisca un superamento della dialettica di natura e grazia in virtù dell’importanza che egli attribuisce all’Incarnazione di Cristo, che rap- presenta non soltanto la figura escatologica del destino dell’uomo, chiamato a uniformarsi a Gesù, ma, più profondamente, costituisce l’essere umano in quanto immagine concreta e presente di Dio nell’oggi della storia. In virtù di ciò, Péguy condanna tanto il disordi- ne interiore e la mancanza di rettitudine morale del suo tempo, quanto l’esaltazione della forza e del pensiero unico che tendono a soffocare la libertà individuale, altrettanto presenti nella temperie culturale primo- novecentesca. Analogamente, il radicamento trinitario della concezione antropologica e politica di Péguy dà adito a una poetica pluridimensionale, tendente ad af- fermare l’importanza del dialogo tra le diverse culture, ma anche tra le varie componenti della società. In que- sto senso, Péguy può e deve essere interpretato – so- stiene J. Higaki – come un autentico precursore della post-modernità.

Confrontando in un’ottica comparativa il pensiero di Péguy e di Céline, Michaël de saInt-ChÉron tenta

di farne emergere le costanti e le varianti. In particola- re, a fronte della crescente fortuna critica di Céline, do- vuta soprattutto all’apprezzamento del suo stile «vio- lent, révolté, harassé, exacerbé, désarticulé ou mieux écartelé» (p. 346), Péguy appare relegato in un lungo oblio, anche in ragione dello stile fortemente marcato dal punto di vista religioso, nel quale la ripresa della struttura litanica e del canto gregoriano, sono stati in- terpretati quali sinonimi di anti-modernità. In realtà, se Péguy e Céline condividono il grido di rivolta contro il perbenismo e la falsità della società borghese, essi si differenziano soprattutto per la maniera di guardare al loro tempo. Al rifiuto scomposto e gonfio di odio per l’umanità che si avverte nelle opere di Céline, co- agulatosi nel rigetto della razza semita, Péguy oppone invece un’accettazione dell’umano, che non è scevra da prese di posizione, anche polemiche, in favore del po- polo ebraico e di alcuni suoi esponenti, quali Dreyfus e Lazare, ma che non rinuncia tuttavia a esaltare la grandezza dell’uomo, sempre capace di superarsi per elevarsi verso il Divino.

Novecento e

xxi

secolo 393

LuzIus KeLLer, Lire, traduire, éditer Proust, Paris,

Classiques Garnier, 2016, 317 pp.

Questo volume raccoglie una serie di contributi nati in margine a una grande impresa editoriale: l’edizio- ne tedesca delle opere complete di Proust, nota come

Frankfurter Ausgabe, che l’autore ha diretto e annotato

dal 1988 al 2002. La Frankfurter Ausgabe è stata un la- boratorio d’eccezione e un crocevia internazionale degli studi proustiani: se l’annotazione di Keller alla Recher-

che ha tenuto conto delle edizioni francesi e italiane, la

fortunata edizione spagnola del Contre Sainte-Beuve, a cura di Silvia Acierno e di Julio Baquero Cruz, ha adot- tato come testo di riferimento il Contro Sainte-Beuve te- desco, più rigoroso dell’edizione Fallois ma anche molto più ampio dell’edizione Clarac del 1971.

La prima sezione del volume, «Éditer Proust», af- fronta i problemi cui si trova confrontato chi lavori a un’edizione della Recherche. Limitarsi a un commento documentario o arrischiare proposte interpretative? La risposta di Keller, conforme all’impostazione del suo commento nella Frankfurter Ausgabe, è che il discorso documentario – in cui vengono identificate le citazioni letterarie o pittoriche e le allusioni a eventi politici e a personaggi storici – trova il suo necessario prolunga- mento in una riflessione critica puntuale, che lo utiliz- zi per l’interpretazione del testo. Un altro problema è quello posto dal carattere postumo e incompiuto degli ultimi volumi della Recherche: chi volesse rispettare alla lettera le ultime disposizioni di Proust, dovrebbe adot- tare la versione “breve” di Albertine disparue, conforme all’ultimo dattiloscritto approvato dall’autore, sacrifi- cando parti bellissime presenti soltanto nel manoscritto. Keller approva la soluzione del problema adottata nella sua edizione da Nathalie Mauriac Dyer: offrire la versio- ne breve, poi chiedere al lettore di tornare indietro nella diegesi e di leggere la versione più estesa del manoscrit- to. Tre manoscritti ritrovati, che Keller riproduce, ren- dono infine questa sezione imperdibile per tutti i prou- stiani: due pastiches inediti dei Goncourt e una lettera a Reynaldo Hahn di argomento musicale e letterario.

La seconda sezione, «Traduire Proust», non verte soltanto su problemi della traduzione in lingua tedesca, ma anche su quel traduttore d’eccezione di Proust che fu Giacomo Debenedetti. Quanto alla terza e alla quarta sezione, «Lire Proust. Du siècle des Lumières à la Belle époque» e «Lire Proust. La “collection Marcel Proust”», sono per la maggior parte dedicate a un campo di cui Keller è tra i massimi esperti: quello del rapporto di Proust con la pittura. È un rapporto che non resta affatto eguale a sé stesso nel tempo. Nel giovanile Jean Santeuil, per esempio, la descrizione di alcuni quadri di Monet (che Keller è stato il primo ad identificare) è per Proust l’occasione di cimentarsi in una prosa poetica che risente del clima simbolista. Ma già la descrizione di un Corot immaginario si orienta, ancora in Jean Santeuil, in un’al- tra direzione e annuncia quell’integrazione dell’ekphrasis nella narrazione che sarà, come ci spiega l’autore, pecu- liare della Recherche. Seguendo l’evoluzione del gusto di Proust dall’impressionismo al cubismo, attraverso esem- pi sempre pertinenti, Keller ci guida in queste sezioni in una visita della «Collection Marcel Proust» estremamen- te innovativa. Accanto alle opere su cui la critica ha lun- gamente dibattuto, individua una ricca serie di “quadri nascosti” che collegano a suggestioni pittoriche scene del romanzo nelle quali non si parla esplicitamente di pittura. E fornisce l’interpretazione più convincente alla riflessione di Bergotte che, davanti all’opera di Vermeer, si dice che avrebbe dovuto «passer plusieurs couches de couleur» sulla sua prosa: è un’allusione ai diversi strati di

significato del testo proustiano, in cui una ricca palette verbale mette i suoi colori al servizio della complessità tematica.

[marIoLInabertInI]

LuC LaGarDe, Proust à l’orée du cinéma, Lausanne,

L’âge d’homme, 2016, «Contemporains», 192 pp. Si l’œuvre de Proust est contemporaine des pre- mières années du cinéma et de son développement (Jean

Santeuil fut commencé en 1895), le cinéma en est assez

curieusement absent, mises à part quelques allusions, qui, le plus souvent font référence à des procédés pré- cinématographiques comme la lanterne magique et le kinétoscope ou à des projections d’images animées dont on ne sait pas de quel type de film il s’agissait. Faute de trace d’intérêt vraiment saillant sous la plume de Proust pour ce nouvel art, l’A. va partir à «la recherche des croisements et anticipations» qui permettraient de montrer la pertinence de l’équation entre siècle du cinéma, celui où il fut l’art hégémonique (p. 8), et siècle de Proust, dont l’œuvre a «quelque chose à nous dire quelque chose de l’art cinématographique. Sans quoi du reste, ni Visconti ni personne n’aurait songé à l’adap- ter, tout ou partie, au cinéma» (p. 27). Le livre semble vouloir adapter à Proust l’hypothèse heuristique de L. Jullier et G. Soulez (Stendhal, le désir de cinéma, 2006) qui portait sur des dispositifs, mais ici la démonstration paraît plus hasardeuse, l’idée étant qu’avec le cinéma, «c’est une question renouvelée qui met en jeu l’artifice ou la réalité de ce qui s’offre au regard du spectateur» (p. 27) et que le cinéma, que n’a pas connu Proust, allait, passé les premiers temps, lui aussi montrer l’envers des êtres. On croisera donc pêle-mêle Mizoguchi, Godard, Philippe Garrel, Bergman, et les adaptations (Ruiz) ou tentatives seulement (Visconti, Losey) d’adaptation de

La Recherche. En somme, à côté des réflexions déjà

conduites sur l’adaptation de Proust, il s’agit de montrer pour l’A. en quoi le cinéma a répondu, en réalité, aux critiques de l’écrivain, les a démenties, que ce dernier ne les auraient pas faites s’il avait connu la suite de l’his- toire du cinéma, et en dernier ressort, que Proust était, au regard des films de cinéastes ultérieurs, «un cinéaste inconnu de lui-même» (p. 185). C’est sans équivoque le point le plus gênant, que celui de vouloir tirer ainsi Proust du côté du cinéma, en faveur duquel l’A. se livre à un plaidoyer passionné, par le biais d’hypothèses gra- tuites: «S’il avait vécu plus longtemps, il aurait connu l’avènement du cinéma parlant, et peut-être en aurait-il fait mention dans le dernier volume de La Recherche» (p. 9). Ou pas. Et encore: «Si Proust avait senti combien le rêve est fécond dans un film, peut-être aurait-il appré- hendé le cinéma sous cet angle-là» (p. 93). Ou pas (bis). [mIreILLebranGÉ]

Jean-CLauDe DumonCeL, La mathesis de Marcel

Proust, Paris, Classiques Garnier, 2015, «Bibliothèque

proustienne» 13, 786 pp.

Grazie all’apporto delle numerose discipline che con- vergono nella sua attenta analisi del testo proustiano, Jean-Claude Dumoncel cerca di rivelarne un’estrema e inedita fecondità. Il proposito dell’autore è, da un lato, “spiegare” il romanzo di Proust grazie all’applicazione della logica modale, dall’altro, definire le implicazioni della sua ricezione in quanto “strumento pedagogico” (p. 13).

Nell’Introduzione (pp. 13-64), Dumoncel colloca la propria analisi nelle due dimensioni, indicate da Bar- thes, di «mathesis» e «mandala» (p. 18), ovvero i due estremi dello spettro del pensiero umano entro cui si situa la Recherche. La densità filosofica del romanzo è dunque volta a superare l’opposizione fra scienze esatte e cosmologia (p. 21). Premessa di tale impresa è il ri- conoscimento di uno stato di crisi: a una rappresenta- zione globale del mondo – il mandala di stampo teolo- gico – corrisponde l’ambizione di rimuovere gli ostacoli della storia (p. 35).

Nella prima parte, Dumoncel descrive la geometria dell’universo proustiano a partire dal celebre cono rove- sciato di Bergson, rispetto al quale egli mette in evidenza analogie e differenze. La geometria proustiana appare ben lontana dalla geometria dei matematici – e in questo risiede la forza del libro di Dumoncel, ovvero nel non perdere mai il contatto con la realtà romanzesca: la geo- metria entro cui si muove il narratore è «mouvante» ed «émouvante» al tempo stesso (p. 79), poiché si modella sulle dinamiche amorose, vero centro strutturale del ro- manzo. L’autore sposta la sua argomentazione sul pia- no stilistico, individuando come momento chiave della germinazione dell’opera il testo del 1907 Impressions de

route en automobile, antecedente del passo sui campanili

di Martinville (pp. 189-239). La visione dei campanili si offre come “segno”, in termini deleuziani, della mobilità del sentimento e del principio di unità cui si riconduce la molteplicità delle donne amate da Marcel.

Dopo aver sovrapposto emblematicamente il di- scorso erotico-sentimentale alle considerazioni sulle strategie di guerra nella parentesi di Doncières (pp. 241-268), e aver affrontato la questione dell’identità come ventaglio di possibili realizzazioni (p. 347), Du- moncel si sofferma, nella terza sezione («Philosophie de l’amour»), sull’esposizione dettagliata dell’«amour modal» (p. 382), per poi passare a una lettura della geometria proustiana in relazione al pensiero di al- cuni matematici tra cui Lebesgue, Borel e Poincaré, contestualizzazione fondamentale, anche se forse un po’ tardiva, al fine di valutare le conoscenze effettive di Proust in materia. La quinta parte del volume in- dividua i quattro elementi chiave del romanzo – «Le possible, les noms, les pays, les amours» – letti alla luce della logica modale, in particolare della tense logic di Prior (pp. 487-525).

Nella sesta e ultima parte, l’argomentazione si situa su un piano pedagogico: l’attraversamento del pensiero di John Ruskin, caratterizzato dalla diversificazione dei campi di applicazione (pp. 669-671), avrebbe contribu- ito a formare in Proust l’idea di fondare un nuovo mito filosofico (p. 680) che potesse agire sulla storia a partire dalla constatazione di una crisi di valori largamente rap- presentata nell’universo decadente della Recherche (pp. 607-619).

L’opera si configura così come la rilettura di una serie di sistemi filosofici (Platone, Kant, Leibniz e Spinoza su tutti) attraverso il genere del romanzo, dove convergono istanze apparentemente inconciliabili, ovvero «la valeur

intemporelle des chefs-d’œuvre» (p. 682) e, in opposi-

zione a essa, l’inevitabile storicizzazione a cui l’esperien- za estetica è soggetta.

La monografia di Dumoncel ha il merito di ricorrere a un approccio interdisciplinare molto attuale e di sug- gerire nuove strade nell’ambito del dibattito su una pos- sibile “filosofia di Proust”. L’analisi accorta di numerosi passi impedisce tuttavia uno sconfinamento nell’extra- romanzesco, offrendo materia di riflessione per chiun- que si interessi alla Recherche.

[ChIaranIFosI]

anne sImon, Trafics de Proust. Merleau-Ponty, Sartre,

Deleuze, Barthes, Paris, Hermann, 2016, «Philosophie»,

242 pp.

Con questo saggio Anne Simon torna a un momento cruciale della filosofia francese, negli anni Sessanta del secolo scorso, al fine di mostrare come il confronto con il romanzo di Marcel Proust abbia strutturato il pensiero di Merleau-Ponty, Sartre, Deleuze e Barthes. Nella pri- ma parte («Plasticité de Proust», pp. 7-38), l’A. insiste su come la lettura di Proust sia in grado di trasformare i meccanismi del pensiero degli autori presi in considera- zione: un certo modo di interpretare, financo di defor- mare Proust, riconfigura infatti le nozioni di soggetto, di corpo e di realtà sensibile, polarizzando la pratica del pensiero in precise direzioni. In questo processo, la Re-

cherche viene addirittura distorta, ed è proprio l’idea di

commercio clandestino («trafic») che interessa a Simon. Negli anni in cui si assiste alla “resurrezione” di Proust nella sua stessa patria, tali pensatori si accostano a un autore che sembra, tra l’altro, proporre riflessioni filoso- fiche attraverso un’inedita modalità narrativa e stilistica. Che il pensiero di Merleau-Ponty si sia nutrito co- stantemente di Proust è un dato acquisito; in «L’alter- ego (Merleau-Ponty)» (pp. 39-79), Simon insiste piutto- sto su come esista uno «style de pensée» comune ai due autori: la porosità della frontiera tra oggetto e soggetto; il sodalizio tra incarnazione ed espressione; la «syntaxe» del mondo sensibile e via dicendo, altrettante somi- glianze che portano l’A. a mostrare come la riflessione del filosofo si sia costantemente intrecciata con Proust. Attraverso il suo alter ego, il pensiero di Merleau-Ponty arriva a scorciatoie inesplorate: l’«obliquità» della sua prosa è un chiaro debito nei confronti dello scrittore. A ciò si aggiunge la tematica dell’alterità, il ruolo dell’im- pressione e del corpo, la “trama” del reale in cui ciò che è occultato conta quanto ciò che appare.

Il rapporto di Sartre con Proust è apparentemente opposto. Ne «Le frère ennemi (Sartre)» (pp. 81-115) l’A. mostra che se Proust sembra incarnare agli occhi di Sartre il cancro della letteratura d’introspezione, la relazione tra i due è molto più sfaccettata: fin da gio- vane il teorico dell’esistenzialismo ha intuito il potere ontologico della metafora proustiana. È soprattutto una concezione conflittuale dello sguardo verso l’altro che accomuna i due: una crudele focalizzazione ester- na (la scena osservata e reificata da un osservatore- interprete) struttura la Recherche così come L’Être et

le Néant. L’A. analizza inoltre alcuni passi de Les mots

come un «Combray» capovolto: per Sartre come per

Nel documento Della questione epica (pagine 185-199)

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