bambini diretti verso l’Emilia Romagna, per essere ospitati dalle famiglie conta-dine di quelle zone.
Poi seguirono altri treni da Cassino, Ro-ma e Napoli. Nel biennio 1946-1947, 12.000 bambini napo-letani trovarono ospi-talità, nei mesi inver-nali, presso le fami-glie dell’Emilia Ro-magna.
L
’appassionante romanzo di Viola Ardone, racconta la vicenda di uno di questi bambi-ni, Amerigo Speran-za, sette anni compiu-ti, figlio di Antonietta Speranza. Amerigo è un bambino dei Quar-tieri spagnoli ed è inserito, su richiestadella mamma,
“nell’elenco delle creature dei treni”.
Con l’amico Tomma-sino, con il quale tra-scorreva le giornate nei vicoli e nei mer-cati cercando di rime-diare qualche soldo, la povera Mariuccia
“un’altra creatura”
figlia del calzolaio
(“solachianiello”) di molte donne militan-ti, trova una famiglia disponibile all’acco-glienza per ciascun bambino del treno e Amerigo viene affi-dato alla signora Der-na, una delle organiz-zatrici, e alla famiglia di sua cugina Rosa: la famiglia Benvenuti di Modena. Rivo (10 anni), Luzio (7 anni) e Nario di pochi mesi. Rosa e i ragazzi (dopo la scuola) lavorano i campi e gli orti e alle-vano, con altri conta-dini, mucche, maiali, galline e altri animali da cortile. Alcide, il
“babbo”, è un artigia-no che, nella sua
bot-tega, costruisce e ri-para strumenti musi-cali. Per Amerigo, portato per la musica e attratto dal violino, è una straordinaria opportunità; dopo la scuola, che frequenta con impegno e profit-to, il bambino aiuta il nuovo “babbo” nel suo negozio e segue con grande interesse l’attività di Alcide (“Gli strumenti glieli portano perfino dalle città vicine e glieli pare di essere pure io uno strumento scor-dato e che lui rimette-rà nuovo anche me, prima di farmi torna-re indietro da dove sono venuto.”). Du-rante quell’inverno Amerigo realizzerà il sogno di suonare il violino: Alcide co-struirà con le sue ma-ni un violino che
gradualmente Ameri-go alla pratica della musica. Il periodo trascorso presso la famiglia Benvenuti costituisce per Ame-rigo una straordinaria opportunità di cresci-ta fisica, intellettuale e spirituale, ma l’in-verno passa veloce-mente e arriva il mo-mento del ritorno a Napoli.
Amerigo ritorna alla vita tra i vicoli dei Quartieri spagnoli con la mamma Anto-nietta; porta con sé il suo violino ma il di-stacco dalla famiglia Benvenuti e dalla vita
“su al nord” è doloro-so (“Tiene ragione Tommasino. Ormai siamo spezzati in due metà.”). Antonietta nel misero “basso”
dei vicoli di Napoli, non può dare a suo figlio, con il suo po-vero lavoro di ram-mendatrice, tutto quello che la famiglia
“su al nord”, pur nel-la sobrietà dell’am-biente contadino, era stata in grado di offri-re ad Amerigo.
Il bambino non può
neppure può sperare di continuare lo stu-dio e la pratica del violino; Antonietta cerca di distogliere la mente e il cuore di commuoventi della storia di Amerigo, combattuto tra il pro-fondo rispetto e l’a-more per la madre e la potente spinta a realizzare il suo so-gno, quello “di impa-rare la musica e suo-nare dentro al teatro”, quello che lui, contra-riamente ad Antoniet-ta, considera “il pro-prio bene”.
Amerigo farà la sua scelta, dolorosa e straziante, soprattutto per un bambino di storia toccante; l’au-trice trova da subito il modo più efficace di far parlare il protago-nista, Amerigo. È in-fatti Amerigo che, in prima persona, osser-va, descrive e raccon-ta con un linguaggio semplice e diretto, sostenuto e scandito da un dialetto
napole-tano tanto
“universale” e com-prensibile da rivelarci situazioni, stati d’ani-mo e sentimenti come se fossimo noi a ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei”, siamo portati dentro il cuore di Napoli, tra la gente dei bassi, personaggi visti dagli occhi arguti e sfronta-ti di un bambino, col-ti nella nobiltà del loro animo, ma anche nella miseria della loro quotidianità.
Il linguaggio diretto, conciso, a volte
pun-re l’innocenza e la tenerezza malinconi-ca di un bambino educato, dalla ruvi-dezza della madre Antonietta, a soffoca-re la propria affettivi-tà (di loro due dice
“gli abbracci non so-no arte so-nostra”, inve-ce della mamma diinve-ce
“ma comunque le creature non sono arte sua....”).
Amerigo di se stesso dice laconicamente:
“Io la speranza la ten-go già nel cognome, di nome invece faccio
mio padre. Io non l’ho mai conosciuto e, ogni volta che chiedo, mia mamma alza gli occhi al cielo come quando viene a piovere e lei non ha fatto in tempo a en-trare i panni stesi.
Dice che è proprio un grand’uomo. È parti-to per l’America per fare fortuna. Torne-rà?, ho chiesto. Prima o poi, ha risposto.
Non mi ha lasciato niente, solo il nome.
Sempre qualcosa è.”
La singolarità e anche
sta nella capacità di coinvolgerci emotiva-mente con la schiet-tezza e la semplicità del linguaggio; la lu-cidità del raccontare di Amerigo suscita in noi curiosità, sorpre-sa, a volte diverti-mento, più spesso commozione.
Ma dietro il racconta-re di Amerigo, come accade sempre nelle belle storie, c’è l’u-manità, il talento e l’abilità di un eccel-lente scrittore.
Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi - Stile libero, 2019
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