• Non ci sono risultati.

3 Casi di studio storici

3.2 Argentina

3.2.2 Currency board e crisi tequila

Come illustrato alla fine del capitolo precedente, l’inflazione era diventata una vera e propria piaga nella seconda metà degli anni ‘80. Mutone (2009) mette anche in evidenza la debolezza delle istituzioni e la scarsa affidabilità dei politici, affermando che “vennero accusati di aver trasferito i propri capitali all’estero ben prima che la crisi desse i segnali sconfortanti alla fine degli anni Ottanta” (p. 10). La gravità della situazione era tale da sfociare in violente sommosse urbane. Il debito esterno elevato e la paralisi del sistema economico acceleravano i licenziamenti, che a loro volta alimentavano i disordini (cfr. figura 13 e figura 15). Alla fine, le dimissioni anticipate di Alfonsìn hanno portato alle elezioni anticipate del maggio 1989, vinte da Carlos Ménem. Il nuovo presidente ha nominato Domingo Cavallo come ministro delle Finanze, il quale ha sviluppato “un piano di riforma persino più radicale di quello del Messico” (Krugman, 2009, p. 48). Il piano (noto anche come Piano Cavallo) includeva in particolare la riduzione delle tasse sulle esportazioni agricole (che erano molto alte), la privatizzazione “dell’immenso e inefficiente settore statale del paese” e una riforma monetaria (Krugman, 2009, p. 48). Quest’ultima è, al fine del presente lavoro, la più importante perché è ritenuta la causa principale del default del 2001. È tramite la riforma monetaria che Cavallo intendeva porre fine una volta per tutte al cronico problema dell’inflazione facendo “resuscitare un sistema monetario che era stato quasi dimenticato nel mondo moderno: il

currency board” (Krugman, 2009, p. 48).

Il Piano Cavallo, avviato nel 1991, è stato applicato prevedendo due leggi (entrate in vigore lo stesso anno): la Ley De Convertibilidad e la Ley de Carta Orgànica del Banco Central. La prima fissava il tasso di cambio tra la valuta argentina e il dollaro. La seconda proibiva alla banca centrale di finanziare i disavanzi dello Stato attraverso l’emissione di moneta (Schopf & Zimmer, 2010, p. 6). Per rispettare questa legge era necessario eliminare i disavanzi oppure finanziarli tramite l’emissione di titoli del debito pubblico (Hornbeck, 2013, p. 2).

Figura 14: Tasso d'inflazione dell'Argentina (variazione annuale in %)

!

Fonte: Banca Mondiale, s.d.

Queste leggi servivano per far recuperare credibilità all’Argentina e ridare sicurezza agli investitori. Nello specifico, “il vecchio austral fu sostituito da un nuovo peso, e per quest’ultimo fu stabilito un tasso di cambio fisso – un peso per un dollaro – con ogni dollaro in circolazione garantito da un dollaro di riserve”. La banca centrale poteva comunque emettere moneta per permettere a chi aveva dollari di convertirli in peso (Cohen, 2012, cap. 3; Krugman, 2009, p. 49). Secondo Ménem

-5.00 0.00 5.00 10.00 15.00 20.00 25.00 30.00 35.00 0.00 500.00 1000.00 1500.00 2000.00 2500.00 3000.00 3500.00 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 2010 2015 Pe rc en tu al e Pe rc en tu al e

e Cavallo “l’unico modo per tenere sotto controllo la crescita della moneta – e quindi l’inflazione – era di ancorare il peso […] al dollaro”. Grazie al currency board, il nuovo governo comunicava ai mercati finanziari che “stava prendendo seriamente l’ancoraggio del cambio” per “rendere più difficile ai governi futuri scegliere di abbandonare la parità e di svalutare”: in questo modo, riteneva che avrebbe ridotto “il rischio di una crisi del tasso di cambio” (Blanchard, 2010, p. 493). Il piano, in effetti, stava portando risultati decisamente positivi: è sufficiente consultare la figura 14 per rendersi conto di quanto sia scesa l’inflazione (dal 3000% circa nel 1989 al 3.2% nel 1995), e di come sia rimasta a livelli bassi fino ai primi anni 2000. Anche l’economia reale si stava riprendendo registrando elevati tassi di crescita del PIL negli anni ’90 (ad eccezione del 1995). Al contempo, l’aumento delle privatizzazioni durante la prima metà degli anni ’90 ha portato un incremento notevole degli investimenti dall’estero del 500% (Schopf & Zimmer, 2010, p. 6). Nel complesso il piano sembrava funzionare poiché obbligava il governo a mantenere una certa disciplina sia monetaria che fiscale, portando una forte crescita economica e soprattutto la riduzione dell’inflazione (Hornbeck, 2013, p. 2). Il ruolo più rilevante l’ha avuto l’ancoramento del peso al dollaro, che ha permesso all’Argentina di attrarre investimenti stranieri attratti dalla sicurezza monetaria, stimolando così una forte crescita economica (Cohen, 2012, cap. 3).

Dal 1993 però il debito pubblico cominciava ad aumentare, dato che i disavanzi primari non si erano in realtà ridotti come previsto (né a livello regionale né a livello nazionale). Inoltre, il nuovo quadro legislativo non permetteva di monetizzare il debito quindi i disavanzi venivano forzatamente finanziati attraverso l’emissione di titoli pubblici (Hornbeck, 2013, p. 2).

La crescita economica è stata comunque molto forte in media durante gli anni ’90, ma in particolar modo dal 1991 al 1994 (vedi figura 12), anno in cui è scoppiata la cosiddetta crisi tequila, nata in Messico, che ha contagiato anche l’Argentina. Sebbene questa crisi riguardava il Messico, si è propagata velocemente nel resto del mondo, in particolare nell’America latina e in Argentina. Krugman (2009, pp. 56-59) indica che questo contagio era inatteso perché Argentina e Messico intrattenevano pochi scambi commerciali e finanziari tra loro e perché il currency board sembrava aver reso invulnerabile il peso argentino garantendo la convertibilità col dollaro. In realtà, però, la convertibilità del tasso di cambio è efficace se la banca centrale, per difenderla, dispone di sufficienti riserve di valuta estera e a maggior ragione dovrebbe considerare il rischio di un attacco speculativo contro il peso. Krugman (2009, pp. 56-59) indica, infatti, che quando la gente ha cominciato a cambiare grandi quantità di peso in dollari, le banche si avvicinarono rapidamente all’orlo del collasso, minacciando di trascinare con loro il resto dell’economia. La ragione alla base di questo comportamento è la sfiducia, da parte degli investitori esteri, nei confronti della valuta e dell’economia argentina. Per rendere più chiaro il meccanismo e l’effetto dell’aumento improvviso della domanda di dollari, Krugman (2009, pp. 56-59) suggerisce di considerare la seguente situazione: se un investitore estero (per cercare di recuperare il più possibile dall’investimento) chiede ad un’azienda argentina di rimborsare il prestito concesso in dollari, quest’ultima ritirerà i peso necessari da una banca locale e li convertirà in dollari (la banca centrale ha ampia disponibilità di dollari). Ma la banca deve ora rinnovare le sue riserve di cassa; quindi chiede il rimborso di un prestito ad un debitore argentino (per esempio un’azienda). Quest’ultimo, per rimborsare il prestito, deve a sua volta ritirare pesos da una banca locale; la banca locale chiederà il rimborso di un prestito da un’altra azienda argentina e così via. In sintesi, è sufficiente che pervenga una richiesta di rimborso dall’estero per scatenare all’interno dell’Argentina un effetto a catena. La catena si è spezzata quando le aziende argentine, sotto pressione dalle banche, hanno fatto fatica a far fronte ai loro debiti nel breve periodo, scatenando un declino della crescita economica. Di riflesso, l’incertezza si diffondeva tra i titolari di depositi presso le banche argentine.

!

Essi ritenevano che se le banche argentine non fossero riuscite ad ottenere i rimborsi dei prestiti, allora prima o poi non avrebbero avuto liquidità sufficiente per garantire il prelievo dei depositi. Il panico ha spinto i titolari di conti correnti a ritirare i loro averi38. L’emorragia di liquidità ostacolava però l’erogazione di crediti, da parte delle banche, destinati per esempio a investimenti o attività produttive. In parole povere, la decisione degli investitori esteri di ridurre l’esposizione verso l’Argentina ha portato ad una stretta creditizia e alla corsa agli sportelli. La sottigliezza in tutto questo è che i depositi degli argentini erano garantiti, ma erano in pesos. Perciò, anche se i loro pesos erano al sicuro, Krugman (2009) aggiunge che i titolari “non erano altrettanto sicuri che il peso avrebbe conservato il suo valore in dollari; quindi volevano premunirsi acquistando dollari, per ogni evenienza” (pp. 56-59). Come indicato da Krugman (2009, pp. 56-59), quando una banca al giorno d’oggi rischia di andare incontro ad una crisi di insolvenza, la banca centrale può fungere da prestatore di ultima istanza. La nuova legge del Piano Cavallo impediva però alla banca centrale di assumere questo ruolo, in quanto le proibiva di emettere nuova moneta se non per scambiarla contro dollari. Questa situazione mostra il gravissimo punto debole del currency board, spingendo l’Argentina in una profonda crisi, che spiega in prima battuta il declino del PIL nel 1995. Oltre al razionamento del credito e alla paralisi del sistema bancario, il currency board non permetteva alla banca centrale di svalutare il peso argentino (per favorire le esportazioni del paese) ostacolando così la crescita e generando un disavanzo commerciale. La perdita di competitività dell’Argentina e la recessione hanno reso i suoi titoli governativi più rischiosi. Cohen (2012, cap. 3) indica che il maggior rendimento richiesto dal mercato (per compensare il maggior rischio) ha reso più costoso il servizio del debito. Egli aggiunge anche che gli shock esterni come la crisi finanziaria asiatica del 1997, quella russa del 1998 e quella brasiliana del 1999 hanno contribuito ad aumentare il costo del capitale, e dunque l’onere del debito, dell’Argentina. Lo spread, ossia il differenziale tra i titoli di Stato argentini e tra quelli statunitensi, è salito da 800 punti base nel dicembre 1994 a 1400 punti base nel gennaio 1995. Il picco è stato registrato due mesi dopo (a marzo) ed ammontava a 1900 punti base (Takagi, 2013).

Nel complesso la recessione ha portato alla deindustrializzazione del paese e al peggioramento della redistribuzione del reddito (Cohen, 2012, cap. 3). Come indicato nella figura 15, anche il tasso di disoccupazione è aumentato considerevolmente a partire dal 1992. In particolare, dal 1994 al 1995 il paese ha registrato un aumento della disoccupazione da circa il 12% alla fine del 1994 al 18% nel maggio 1995 e una riduzione annuale del PIL dell’8% (Takagi, 2013).

3.2.3

Ripresa economica e ritorno alla crisi alla fine degli anni ’90