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Problemi dell’economia Giapponese e ripresa economica

3 Casi di studio storici

3.1 Giappone

3.1.4 Problemi dell’economia Giapponese e ripresa economica

speculativa e alla crisi bancaria, hanno un ruolo nella debole crescita dopo la profonda recessione degli anni ’90 e nell’esplosione del debito pubblico. In questo senso è anche utile capire i motivi della ripresa dopo il 2003, che, di fatto, hanno permesso di rafforzare la solvibilità del governo. Innanzitutto, il Giappone, negli anni ’90, è stato il primo paese dopo gli Stati Uniti negli anni ’30 (tra le economie più sviluppate) a cadere nella trappola della liquidità (Krugman, 2009, p. 84). Nel caso del Giappone, la riduzione dei tassi d’interesse quasi a zero non ha stimolato i consumi e gli investimenti, così come neanche l’inflazione come si può notare dalla figura 11. Al contrario, si è verificata una deflazione durante i primi anni 2000, dopodiché fino al 2013 l’inflazione è rimasta positiva ma bassa oppure negativa. Nel 2014 invece è stato registrato un tasso d’inflazione del 2.74% (tasso medio annuale). Questo dato per essere commentato adeguatamente dovrebbe essere confrontato con quelli futuri, poiché è da circa 20 anni che non si registrava una variazione così elevata: potrebbe trattarsi di un evento eccezionale oppure l’inizio di un nuovo trend. Restando concentrati sui dati storici, Krugman (2013) conferma che l’espansione monetaria ha avuto un effetto scarsissimo sull’inflazione (fino al 2009). Aggiunge però una considerazione importante: “ciò che può far uscire un’economia da una trappola della liquidità è un’aspettativa d’inflazione – che dissuade la gente dall’accumulo eccessivo di risparmi” (Krugman, 2009, p. 86).

Figura 11: Tasso d'inflazione del Giappone (variazione annuale in %)

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Fonte: FMI, s.d.

La deflazione è stata innescata dal razionamento del credito e dall’avversione all’indebitamento da parte delle famiglie e delle aziende, impegnate a ridurre i debiti già in essere. Heng (2009, pp. 5-7) denuncia la lentezza delle banche nel far fronte a questo problema, indicando che hanno cominciato a ricapitalizzarsi e a minimizzare gli attivi inesigibili solo dal 1998. Non risparmia critiche anche al ministero delle Finanze, ritenendo che non abbia affrontato il problema in modo sufficientemente deciso. Blanchard (2006) indica, infatti, che solo “dal 2002 il governo ha fatto pressione sulle banche perché riducessero i prestiti in sofferenza e a loro volta le banche hanno pressione sulle imprese affinché procedessero a ristrutturarsi o a uscire dal mercato. La

-2 -1 0 1 2 3 4 1990 1995 2000 2005 2010 2015 Pe rc en tu al e

proporzione di prestiti in sofferenza ha iniziato a diminuire e le imprese sane hanno migliorato la loro capacità di finanziare gli investimenti” (p. 540).

Una questione particolarmente discussa ancora oggi è la politica fiscale restrittiva del 1997 attuata dall’amministrazione Hashimoto, definita da Yoshikawa (2001, p. 31) come un errore di politica fiscale di proporzioni storiche. È però importante sottolineare che l’effetto negativo di questa stretta fiscale è stato aggravato dalla crisi finanziaria asiatica. Quest’ultima è cominciata solo tre mesi dopo l’attuazione della manovra fiscale appena citata. La crisi asiatica ha colpito anche il settore bancario giapponese (già impegolato) e specialmente quelle banche che avevano concesso dei prestiti ai paesi asiatici coinvolti nella crisi (Itoh, 2000, p. 104).

Ad avere contribuito al peggioramento della bilancia commerciale è stato anche l’apprezzamento dello yen nel tempo. Nel 1971 il tasso di cambio era ¥360/$1; nel 1985, ¥240/$1; nel 1993, ¥129/$1; nel 1995, ha registrato un minimo di ¥80/$1, mentre quello medio annuale era ¥94/$1. L’apprezzamento dello yen più che ridurre le esportazioni tra il 1994 e 1995 ha incrementato le importazioni giapponesi, ostacolando la crescita economica (Yoshikawa, 2001, pp. 98-101).

Un debito pubblico elevato è in grado di influenzare la domanda, poiché, come è stato visto, crea delle aspettative di aumento della pressione fiscale in futuro. Nel caso del Giappone è leggermente diverso: le persone preferiscono risparmiare per conto loro perché non hanno fiducia nella solvibilità del sistema pensionistico nel lungo periodo. In questo modo, affidandosi ai loro risparmi, ritengono di poter davvero far fronte a spese future. Heng (2009, p. 10) indica che si potrebbero stimolare i consumi in Giappone se i salari delle classi meno abbienti venissero incrementati e se venissero elargiti dei sussidi al ceto medio-basso per finanziare l’assistenza ai bambini in età prescolare. Quest’ultima alternativa favorirebbe anche la crescita demografica, ma in realtà sta mettendo a dura prova la terza freccia dell’Abenomics. Tra le strategie di crescita proposte, una di esse ha come obiettivo l’aumento della partecipazione femminile nel mondo del lavoro. Un ostacolo a questa campagna però è la carenza di manodopera nella cura dei bambini e i bassi stipendi in questo settore (CNBC, 2014).

Una nota finale la si vuole dedicare alla ripresa economica a partire dal 2003 fino alla crisi dei

subprime (2007-2008). Blanchard (2006, p. 540) ritiene che la ripresa sia associata a due fattori: la

politica monetaria espansiva (tassi zero) e il risanamento del sistema bancario. Il primo fattore ha contribuito a modificare le aspettative di inflazione, riducendo così il tasso d’interesse reale e quindi stimolando gli investimenti. Per quanto riguarda il secondo, la preoccupazione inizialmente era che un’uscita dal mercato delle aziende insolventi potesse provocare un aumento della disoccupazione. In realtà, l’incremento degli investimenti da parte delle aziende sane ha permesso di aumentare la domanda. Secondo Krugman (2009, p. 87), la ripresa era frutto principalmente della crescita delle esportazioni. Durante gli anni 2000 gli Stati Uniti hanno aumentato notevolmente le importazioni, e la maggior parte riguardava prodotti provenienti “dalla Cina e da altre economie emergenti. Il Giappone ha tratto beneficio dalla crescita dell’export cinese, perché molti prodotti industriali fabbricati in Cina contengono componenti di origine giapponese”. Krugman (2009) però sottilinea anche un punto debole del Giappone: il basso livello dei tassi d’interesse (vedi figura 9). Nel 2009 “il call money rate del Giappone […] era appena dello 0.5%. La Bank of

Japan aveva perciò margini minimi per ridurre i tassi d’interesse di fronte alla recessione che

sembrava profilarsi” (p. 87). La crisi iniziata nel 2007 ha colpito anche l’economia giapponese e fino al 2009 ha subito un rallentamento. Dal 2010 la crescita è tornata positiva, per poi rallentare nel 2011 e riprendersi di nuovo in seguito. Per quanto modesta, la crescita è comunque un segnale positivo. Ciò che lascia ben sperare, è soprattutto la limitata esposizione del settore bancario giapponese ai titoli derivati dai mutui subprime (Hofmann, 2008, pp. 10-11). In questo

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senso il Giappone non ha risentito direttamente degli effetti della crisi ancora in corso, ma non ha potuto evitare di essere influenzato dal rallentamento dell’economia mondiale32. Le esportazioni del Giappone, infatti, dipendono molto dalla crescita economica della Cina e degli Stati Uniti. Secondo le previsioni del FMI33, l’economia del Giappone continuerà a crescere lentamente (almeno per il 2014 e 2015), e questo potrebbe anche essere dovuto ad un rallentamento delle due grandi economie citate (Furusawa, 2015; IMF, s.d.). Il FMI auspica anche un freno alla spesa pubblica e l’implementazione di riforme fiscali per ridurre i disavanzi pubblici, per rendere sostenibile il debito pubblico nel lungo periodo. L’invecchiamento demografico e la riduzione del tasso di natalità determineranno però un aumento della spesa pubblica e una riduzione dei redditi imponibili. Pertanto, sempre secondo il FMI, è fondamentale che il governo giapponese investa in quei settori che possono portare uno sviluppo nel lungo termine: istruzione e sanità soprattutto. Blanchard (2006, p. 538), a tal proposito indica che molti lavori pubblici, finanziati con la spesa pubblica, negli anni ’90 erano di dubbia utilità. Per massimizzare l’effetto moltiplicativo della spesa pubblica sulla domanda il Giappone deve pertanto impiegare le sue risorse in modo efficiente ed efficace, evitando gli investimenti poco produttivi.