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Da Milano a Tocco

Nel documento Gerardo Massimi (pagine 44-57)

1. Reminiscenze del brigantaggio. 2. Il cornetto acustico. 3. Dintorni di Tocco. 4. L’agricoltura nell’Italia meridionale. 5. Topografia di Tocco. 6. Il travertino e le ulivete. 7. Ospitalità toccolana. 8. Fogge toccolane. 9. Il centerbe. 10. Un poeta ciabattino35.

1. Reminiscenze del brigantaggio. Il giovedì seguente eccomi di nuovo circondato dal mio piccolo uditorio. Il tema stavolta era obbligato, anzi cosi fecondo, che ho dovuto penare più che altro a mantenermi entro limiti ragionevoli.

“Vi ho dunque promesso di raccontavi di qualche cosa dei petroli e delle altre manifestazioni dell’attività interna del globo che s’incontrano in Italia. Sono tanti, come vi dissi, i luoghi dove si mostrano quei fenomeni, che non saprei da qual punto pigliare le mosse. Basta.... comincerò da un’escursione ch’io feci a Tocco nel 1864. Sapete voi dov’è Tocco?...”Il silenzio fu una risposta più che chiara di diniego universale. “Ebbene, Tocco è una grossa borgata dell’Abruzzo citeriore, posta nelle valli interne, alle falde della maggior catena degli Apennini, sul versante36 adriatico. Supponiamo che partiste meco da Milano sulla ferrovia. Attraversati i piani ubertosi della Lombardia, quindi le pianure non sono ricche del Parmigiano e del Modenese, toccata Bologna e guadagnate le sponde dell’Adriatico verso Ancona, scorrendo quasi sempre lungo il lido, sulle scarse arene, chiuse tra le spume del mare a sinistra e il vario pendio dei colli subapennini a destra, sarete presto a Pescara, città abbastanza importante e piccolo porto di mare sull’Adriatico. Alcuni anni or sono gli era un gran viaggio; oggi gli è un volo d’uccello”.

Io ero infatti partito da Milano con alcuni amici, vicentini i più. Ricorderò specialmente il signor Maurizio Laschi di Vicenza e il bravo dottor Beggiato. pur di Vicenza, che, oltre all’esser medico valente è scienziato di vasta dottrina, versato principalmente in botanica e in geologia. C’era inoltre il Signor Vitale Calabi incaricato della parte economica della spedizione e soprattutto della provianda, uomo

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Nel seguito sono riportati i testi originali dello Stoppani, salvo lievi modifiche ortografiche e la semplificazioni degli accenti.

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Usano i geografi la parola versante a significare un tratto declive di paese per cui le acque correnti discendono dalle altezze dello spartiacque al fondo della rispettiva valle fino la fiume principale, o sino al mare, senonché si tratti di singoli monti, di catene o d’una intera regione. Si dice anche defluvio. (Nota originale dello Stoppani)

di carattere piacevolissimo; poi un ingegnere vicentino; finalmente Nani, una figura magra, lunga, ma nerboruta, un bel tipo di capo minatore, ché tale era appunto la sua professione a Vicenza. Trattavasi, come vedete, d’una spedizione scientifico-industriale. Scopo del viaggio era la verificazione e lo studio d’una sorgente di petrolio che sapevasi scoperta a Tocco. Fino a Pescara tutto andò a vapore. Pigliate l’espressione tanto nel senso letterale, quanto nel metaforico. Ci avvedevamo appena di allontanarci da città e da paesi, ove tutto è progresso, comodo, e civiltà, per avvicinarci a città, a paesi, che ricordano un pochino un’età trascorsa da lungo tempo per quasi tutta l’Europa. A Pescara però ci accorgemmo ben tosto di trovarci in quei paesi meridionali di cui uno dei nostri che ritorni ha sempre tante maraviglie da raccostare, come venisse allora allora dalle Indie o dalla Siberia.

Figura 22 Inquadramento territoriale di Tocco da Casauria in uno schizzo originale dello Stoppani.

Ci convenne rinunciare a quei comodi mezzi di trasporto, a cui siamo ormai troppo avvezzi, e pigliarci una vettura, la quale ci richiamava i bei tempi (e non sono poi tanto lontani) in cui chi veniva, supponiamo, da Como o da Lecco a Milano, prima di partire accomodava per bene le sue cose con Dio, e faceva testamento. Così ci convenne volgere le spalle al mare, e in balìa d’un vetturale, che sarà stato un santo, ma aveva la faccia più brigantesca che mai, seguire a ritroso la valle del Pescara che da’ nome alla città lasciata alle spalle, pigliando la via che di per là conduce a Popoli, e quindi per Sulmona, Isernia e Venafro, a Napoli. Sono nomi codesti che se fossimo un pochino più battaglieri, ci farebbero correre istintivamente la mano in cerca del revolver37. Nei primi anni della nostra libertà (pochi di voi se ne ricorderanno), quando nelle pagine dei giornali non mancava mai la cronaca luttuosa del brigantaggio, quei nomi, che io ho proferiti, vi figuravano sovente, e suonavano rischio e paura. Ringraziamo Dio che ormai la Cronaca del brigantaggio appartiene al passato. Allora era un triste presente: e capirete come l’animo non si sentisse tranquillo nel seguire la via di quella valle solitaria che ci avvicinava a luoghi tanto allora temuti. La prima cosa che

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Questa voce inglese è derivata dal latino volvere, in italiano volgere, rigirare, e poeticamente anche volgere tale quale. Da questa radice derivarono gia’ da un pezzo in italiano le voci volvolo e convolvolo: e perché non potremmo derivarne anche la voce revolvero ? Basta che qualcuno cominci. Intanto si è introdotto il nome revoltella, che buon pro’ vi faccia. (Nota originale dello Stoppani)

avevamo vista, per dirne una, alla stazione di Pescara, era stato un miserabile convoglio di poveracci, non so se briganti, ladri, accattoni, o vagabondi, ammanettati e sotto una buona scorta di carabinieri. Spettacolo triste, miei cari !...

“Mi aveva fatto profonda impressione un ragazzo, accosciato in terra, come una bestiolina, e intento a biascicare lentamente una fetta di pane, con quell’aria stupida che ha qualche cosa di più ferino della rabbia. Egli non sapeva nè il suo nome né il nome de’ suoi genitori, né quello del suo paese, nulla: è molto se sapeva d’esser vivo. I carabinieri l’avevan preso come l’accalappiacani s’impadronisce d’un cane smarrito. Era proprio, poveretto! figliolo di nessuno.... E badate, non era idiota, e poteva avere dodici o tredici anni”.

“Non sapeva il suo nome !...”ripigliò Chiarina, che dal viso pensoso e rannuvolato, si vedeva commossa da qualche particolare della mia narrazione. “Non sapeva il suo nome ? Com’è possibile? un nome, quel poverino bisogna pur che l’avesse. Io non comprendo”.

“Tu non comprendi.... capisco... non puoi comprendere. E quante umane miserie non comprenderesti, che pur son vere.... troppo vere ! Comprese mai bene il ricco che cosa sono le angosce del povero ?... Dimmi, Chiarina, quando fu che tu sapesti il tuo nome?”La fanciulla mi guardò cogli occhi attoniti, come chi si maraviglia alla domanda, eppur sente di non poter rispondere. “Il tuo nome”, continuai, “non l’apprendesti al certo quando il padre tuo lo suggerì per la prima volta al prete, che ti battezzò Chiarina. Ma il babbo, la mamma, i fratelli, le sorelle, cominciarono da quel giorno a chiamarti Chiarina: e mille volte il giorno dalla tua culla udivi quel nome, e ogni volta con quel nome un sorriso che incontrava il tuo sguardo, una carezza sulla tua guancia, un bacio sulle tue labbra. E tu apprendesti in quel nome a riconoscere te stessa, a rispondere baci, carezze, sorrisi. Quel poverino invece, forse abbandonato vagente sul crocicchio di una via, non ebbe mai a chi rivolgere i cari nomi di babbo e di mamma. Chi non ha genitori, non ha fratelli, non ha sorelle, non parenti, non amici, non ha nessuno che lo chiami per nome. Domandi tu forse il nome al pezzente che ti chiede la carità? Forse il primo che domandò il nome a quell’infelice, fu il carabiniere, perché aveva bisogno di riempire una casella nel rapporto, col quale consegnava all’autorità il piccolo vagabondo. Di tali cose, e di peggiori, quante ne avrei a dire !... Chiarina.... non hai mai ringraziato Iddio di avere un nome? Ebbene, ringrazialo stasera. Quel poveretto non l’aveva...”

2. Il cornetto acustico. “Guardimi il Cielo ch’io voglia con tutto ciò far torto a quelle buone popolazioni e sopratutto agli ospitalissimi Toccolani, tra i quali dovevo soggiornare. Anzi le notizie che si avevano circa quel primo tronco di strada, erano assai rassicuranti; sicché la paura osò appena far capolino tra le risa, i motti e gli allegri discorsi, che abbreviarono assai le noie di quel viaggio: né ultimo argomento di facezie erano le premure del Signor Vitale, che seduto a cassetta a fianco di quel vetturale dalla faccia scomunicata, si credeva in dovere di fargli balenare sotto gli occhi di tratto in tratto il suo bel revolver, per ripulirlo.... s’intende.... per vedere se era all’ordine.... Solo ci affliggeva che il buon dottor

Beggiato dovesse appena sorridere quando noi ridevamo. Poveretto!.... egli era sordo, profondamente sordo. Ma dolce essendo di cuore, paziente e nobile d’animo, non faceva mistero, vedete, della propria sordità come molti hanno la debolezza di fare. Anzi, pensando piuttosto a rimediare al suo difetto che a celarlo, girava armato d’un cornetto acustico d’assai rispettabili dimensioni, esibendolo a chiunque volesse volgergli la parola, e facendone egli stesso soggetto di celia, come faceva l’Alfieri della sua parrucca”.

“Che cos’è codesto cornetto acustico? “volle sapere Giannina.

“Il cornetto acustico è di metallo, ed ha veramente la forma di una trombetta da postiglione, o meglio d’un corno da caccia, essendo ricurvo. È insomma un semplice tubo di forma conica, ricurvo, e aperto alle due estremità Chi è duro d’orecchie ne introduce l’estremità più stretta, qui, vedete ?... proprio nel condotto auditivo. Chi poi dee parlare, aggiusta la bocca alla base, cioè all’estremità svasata del tubo. Per certe leggi dell’acustica, cioè della scienza dei suoni, l’aria, che è in quantità maggiore dove il tubo è largo, vibra, oscilla e urta l’aria interna che è in minor quantità; e questa vibra, oscilla alla sua volta, e tutti gli urti, tutte le oscillazioni finiscono a condensarsi su quello straterello d’aria che sta nell’estremo forellino, al vertice del cornetto. Gli è come se un bambino venisse urtato da cento uomini che corrono: l’urto sarebbe così villano che il poverino andrebbe a sfracellarsi contro il suolo senza misericordia. Così quel pochino d’aria, violentemente scosso, batte contro l’aria del condotto auditivo e questa contro il timpano, quasi contro la pelle tesa di un cembalo. Tutto l’apparato interno dell’orecchio che, reso inerte dal male, non si sarebbe risentito di una scossa meno violenta, si desta a quell’urto poderoso: e il suo moto, trasmesso al cervello, è il suono; il suono compreso dall’intelligenza, è la parola, è l’idea.... Le son cose che capirete a suo tempo...”

“Cosi,”rifletté Marietta, “quel povero signor dottore non poteva intendere i vostri discorsi, né partecipare alla vostra allegria!...”.

“Nulla davvero, o ben poco. Ma sta tranquilla ché delle più grosse insulsaggini si facevano sempre due edizioni: una che svaporasse all’aria libera, l’altra condensata entro il cornetto del dottor Beggiato, tanto che il viaggio fu allegro per tutti. E sì che non fu breve, poiché partiti da Pescara a mezza mattina, eravamo solo al tramonto in vista di Tocco”.

3. Dintorni di Tocco. “Un paese curioso, vedete. Non saprei dove trovarne uno uguale nelle nostre montagne, mentre potrei citarvene mille nell’Italia meridionale. Immaginatevi un bacino, una specie d’anfiteatro fra i monti. Lo sfondo è occupato dalla Maiella una delle maggiori montagne dell’Appennino; anzi non cede che per poco al Gran Sasso d’Italia38 il vanto della maggiore altezza.

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Il Gran Sasso d’Italia è alto 8621 piedi parigini (metri 2896) sul livello del mare; la Maiella 8594 piedi parigini (metri 2792). (Nota originale dello Stoppani)

L’Appennino, che nell’Emilia, in Toscana e nelle provincie romane è piuttosto un largo rigonfiamento di morbidi colli arrotondati a ridosso l’uno dell’altro, che non una catena di montagne a creste decise, assume più verso mezzodì e specialmente nei due Abruzzi il fare delle Alpi. Qui è una catena di monti irti e brulli a vette spiccate, a profili taglienti, come nelle Prealpi e nelle Alpi. Quei monti sono così elevati, che per poco non si incappucciano di nevi perpetue.

Figura 23 I caratteri orografici di Tocco da Casauria in uno schizzo originale dello Stoppani

Ma poiché la latitudine39 troppo meridionale non lo consente, si contentano di tenersi coperti di neve quasi tutta l’annata. Le due maggiori cime sono il Gran Sasso nell’Abruzzo ulteriore, che è anche il punto culminante dell’Appennino, ossia della penisola italiana, e la Maiella nell’Abruzzo citeriore che forma, come dicevo, lo sfondo dell’anfiteatro di Tocco.

“È un bacino poco ameno quello di Tocco; sparso di radi poderetti e di bassi vigneti, chiuso fra irte giogaie. Però se la natura lo ha cinto di cosi severa cornice, i sudori dell’uomo potrebbero trasformarlo, almeno nelle parti basse, in un giardino. Così...”.

4. L’agricoltura nell’Italia meridionale. “Non si coltivano i terreni laggiù?”chiese Giannina. “L’Italia meridionale non è tutta un giardino?”

“Ve ne sono dei belli e grandi, cui la natura sorride, e che l’arte infiora. Il territorio di Napoli, quello di Catania, alcuni distretti delle Puglie, e altri sono veri

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Latitudine è la distanza d’un paese dall’equatore: più ci avviciniamo all’ equatore, allontanandoci da uno dei due poli, e minore diventa la latitudine, e più alta la temperatura, generalmente parlando. (Nota originale dello Stoppani).

giardini; ma non è dappertutto così. La coltura del suolo non vi è generalizzata come da noi. Un campo non coltivato, nei nostri paesi, non si sa nemmeno che cosa sia. Questa bella pianura, così ben irrigata, che produce l’inverno quasi quanto l’estate ! Queste belle colline, così rivestite di vigne e di frutteti! e quando si arriva alle falde delle montagne, cui la natura fe’ ignude come gli scheletri, vediamo ancora l’agricoltura, che, quasi direbbesi, s’inerpica sulle rupi e le riveste di zolle, portate a mano d’uomo, e vi crea vigneti, che par impossibile si reggano lassù per aria, su quelle ripidissime pendici, senza esservi, direi quasi, inchiodati. Così non è laggiù. In una gran parte dell’Italia meridionale, e anche dell’Italia centrale, i borghi o le rade città, cinti d’una bella aureola di colti, mi apparvero sempre come oasi in seno del deserto”.

“Ma perché non si coltivano quelle campagne ?”insisté Giannina.

“Perché!... L’era una cosa di cui si struggeva il buon Beggiato, il quale, ai pregi che ho detto, univa anche le cognizioni dell’agronomo e l’affetto del filantropo. Bisognava sentirlo il brav’uomo!... gli era un continuo predicare a quanti ci s’imbattevano sulla via. Per buona sorte aveva tanto sani i polmoni quanto infermi gli orecchi. – Vedete, codesto bel fondo (diceva ad uno), perché sta li abbandonato? – Signorino (rispondeva quel tale), gli è del Comune... – E perché è del Comune non si coltiva, eh?... – Pochi passi più avanti, eccoti un altro fondo incolto. – E codesto (chiedeva l’ottimo dottore), è del Comune anch’esso ? – No, è del signor tale. – Perché non lo coltiva? – Eh, signorino, ce n’ha tanti... – “

“Bisogna dire che manchino le braccia,” rifletté una delle mamme.

“Certamente mancano... ma perché mancano? Il terreno non si coltiva perché mancano le braccia; ma le braccia mancano perché il terreno non si coltiva. Gli è come se andate giù per le maremme toscane, o per le paludi pontine che sono alla fine, pel mare Tirreno, quello che per l’Adriatico le pianure della Lombardia, della Venezia, e dell’Emilia, salvo che ci vivono, lottanti colle febbri micidiali, venti persone, sopra uno spazio ove da noi si vive in duecento40. Domandate ad uno: – Perché quelle pianure, sedi antichissime delle città etrusche di Populonia, Vetulonia, Saturnia, Roselle e delle colonie greche di Cuma, Pesto, Locri, Sibari, ecc., mantenute in tanto fiore dalla dolcezza del clima e dalla fertilità del suolo41, sono ora regioni deserte, seminate di pestiferi stagni, sorgenti di perenne moria ? – Vi risponde: per la malaria. – Domandate a un altro: — Perché c’è tanta malaria in codesti paesi ? – Vi dirà: – Perché manca la popolazione, che lavori a dissodare il terreno, a prosciugarlo, a guidare le acque, le quali, in luogo di essere officine permanenti di pestilenza, diverrebbero fonti d’inesausta fecondità – Cosi voi sapete che la malaria produce la spopolazione, e la spopolazione produce la malaria. È un

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Correnti, Annuario, 1864. (Nota originale dello Stoppani).

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circolo vizioso che in luogo di distruggersi, si mantiene come un fatto desolantissimo, ma vero. E bisognerà romperlo, questo circolo: e si romperà, vedete, se il movimento continua. Ma basta...”.

5. Topografia di Tocco. “Vi dicevo che il bacino di Tocco è tutto chiuso fra montagne irte o ignude. Il fiume Pescara, che corre nell’interno verso Nord-Est, lo taglia per mezzo, o piuttosto di fianco, spinto alquanto verso Nord dagli accidenti del suolo. Quivi è raggiunto dall’Arollo, torrentaccio nutrito dalla Majella, da cui discende, per la via di Sud-Est, a formare al confluente del Pescara quasi un angolo retto”.

“Nel seno di quest’angolo appunto s’innalza l’altipiano dl Tocco. Immaginatevi d’essere al piede d’un torrione assai largo, che finisca in una piattaforma, e che in luogo di mura abbia rupi scoscese a piombo, sparse di caverne, anzi tutte cavernose e come rose dal tarlo. Ma la vetta spianata vi appare coperta di cupa verdura, e tutto vi ricorda i celebri giardini pensili di Babilonia42. Si, quella spianata è tutta un uliveto... uno dei più belli uliveti che io vedessi mai nelle regioni meridionali, che ne vantano tanti; un uliveto tutto d’un pezzo, fitto, che si distende per qualche miglio quadrato: solo in certa guisa intaccato dal paese che copre il davanzale della piattaforma, come il guscio la tartaruga”.

6. Il travertino e le ulivete. “Come mai,”domandò Camilla, “un così ricco uliveto in un bacino così sterile ?”

“Ecco la domanda ch’io feci appunto a me stesso, e a cui potrei rispondere facilmente, interrogando il terreno. Conoscete voi quella pietra leggera, porosa, come tarlata, che talvolta ha forma quasi di muschio pietrificato ?...”

“Si, si”, risposero molti insieme; “il tufo”.

“Da noi si chiama tufo; più in giù, in Toscana, in Romagna, lo dicono travertino; per essi il tufo è tutta un’altra roccia, formata da un impasto di sabbia, lapilli e ceneri

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Gli antichi storici s’accordano tutti nel magnificare i giardini pensili, o sospesi di Babilonia, come una delle maggiori meraviglie del mondo, benché non vadano altrettanto d’accordo nel darne le misure. Figuratevi una gran piramide tronca, formata da quattro terrazzi, posti a scaglioni l’uno sull’altro e sostenuti da enormi pilastri quadrati. Si ascendeva dall’uno all’altro terrazzo per amplissime gradinate, a’ cui lati eran disposte le così dette viti da Archimede per mandar l’acqua fino all’ultimo ripiano. Tutto l’ edificio, pilastri, terrazzi, volte, era di cotto: i pilastri rivestiti di cotto, internamente erano ripieni di terra, in cui si sprofondavano le radici degli alberi giganteschi che ombreggiavano i terrazzi. Secondo Strabone, il circuito a terreno misurava quasi 500 metri. Tutti poi dicono che da lontano quei giardini parevano una collina boscosa. Chi li edificasse non si sa; si crede un re per far piacere alla sposa, che essendo nativa dei monti di Persia, mal sopportava l’uniformità della pianura babilonese e al pensiero delle sue montagne era presa da quel male che tanto travaglia i montanari lontani dalle loro case, e che dicesi nostalgia - malattia del ritorno, - o più esattamente - la pena, il dolore, la smania del ritorno. (Nota originale dello Stoppani).

vulcaniche. Ora io parlo veramente del nostro tufo, ossia del travertino, che chiameremo tufo calcareo, per distinguerlo dal tufo vulcanico. Ne sapete l’origine ?”

“Mi ricordo,”prese a dire Giovannino, “che quando fui a Lecco per qualche giorno, lo zio Carlo mi condusse a vedere la tufaia di Germanedo. Ci ha difatti un gran masso di quello che noi chiamiamo tufo e lo scavano d’inverno i contadini, quando non hanno lavori in campagna: ne fanno dei pezzi riquadrati, per fabbricarne muri e pilastri; ma i pezzi pia curiosi che talora paiono di zucchero candito, li chiamano fiori, e li vendono per farne ornamento ai giardini, come si usa anche qui in Milano”.

“Benissimo! e non ti disse lo zio Carlo come si era formato quel tufo?”

“Sì: egli mi assicurò che tutta quella pietra era la posatura d’una sorgente che

Nel documento Gerardo Massimi (pagine 44-57)

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