Il concetto del Damage Control nasce in ambito militare statunitense e in origine è applicato per contrastare i danni riportati in battaglia da mezzi navali e dalle truppe. É stato poi applicato anche in ambito medico-chirurgico, prima militare, poi civile. Il concetto su cui quindi si basa in origine il Damage Control è quello di limitare i danni sul mezzo danneggiato, organizzare in un tempo minimo la strategia per il recupero del mezzo, tamponare la situazione di criticità e rientrare alla base per riparare immediatamente il danno. Si fa dunque riferimento a tutte quelle misure prese per evitare l'affondamento di una nave gravemente danneggiata con procedure atte a limitare l'entrata di acqua nel mezzo, isolare focolai d'incendio ed evitare che questi danni si propaghino.
Nel settore medico-chirurgico militare, l’applicazione di tale concetto è stato esteso anche ai danni riportati dalle truppe e in seguito ulteriormente esportato per intervenire con urgenza in occasione di quei gravi danni traumatologici a cui assistiamo in un politraumatismo.34
Il Damage Control in campo medico è distinto in due tipologie: il Damage Control Surgery (DCS) e il Damage Control Orthopaedics (DCO).
Il DCS viene applicato ai politraumi ad alta complessità che coinvolgono uno o più organi quali milza, fegato, pancreas o reni, che si presenteranno spesso in concomitanza con lesioni toraciche e osteo-articolari; si fa riferimento a quelle manovre applicate per salvaguardare in prima istanza la sopravvivenza del paziente.35 Vi sono tre stadi di Damage Control:
1. intervento limitato per controllare l'emorragia e la contaminazione; si cerca di ottenere questo controllo il più velocemente possibile in sala operatoria, ove alle misure riparative tradizionali vengono preferite manovre più rapide ed efficaci nel breve termine. Il packing intra-addominale e la chiusura temporanea dell'addome completano questo primo stadio;
2. rianimazione in terapia intensiva; (Intensive Care Unit, ICU), ove il paziente viene trasferito per il monitoraggio delle funzioni vitali, il ripristino e il mantenimento della temperatura corporea, la correzione della coagulopatia, la reintegrazione dei
liquidi con ottimizzazione dei parametri emodinamici e la rivalutazione delle ferite subite nel politrauma;
3. reintervento; una volta ripristinata la normale fisiologia, per un definitivo management delle ferite e chiusura dell'addome.
Il solito razionale venne poi applicato alla gestione dei pazienti politraumatizzati con fratture delle ossa lunghe e del cingolo pelvico, prendendo il nome di Damage Control Orthopaedics (DCO). Esso consta di quattro fasi, invece che tre, che sono: 1. misure atte a salvaguardare la vita del paziente in fase acuta;
2. controllo dell'emorragia, anche tramite stabilizzazione temporanea delle fratture scheletriche e gestione delle ferite tissutali, minimizzando l'impatto chirurgico sul paziente;
3. ricovero in terapia intensiva (ICU); 4. fissazione definitiva delle fratture.
Il DCO come approccio al politraumatizzato ha storicamente sostituito l'ETC, Early Total Care, un approccio consistente nella fissazione definitiva delle fratture importanti nei tempi più rapidi possibili, in seguito alla significativa progressione della comprensione dei meccanismi fisiopatologici e immunologici che regolano la risposta del paziente al trauma.36, 37
In seguito alle lesioni traumatiche si ha, infatti, una risposta infiammatoria sistemica (SIRS) alla quale si oppone il sistema delle CARS (compensatory anti- inflammatory response syndrome). Un'eccessiva SIRS può portare ad un fallimento multi organo (MOF) e quindi al decesso del paziente, mentre una sindrome infiammatoria lieve seguita da una eccessiva CARS porterà ad uno stato di immunosoppressione che mette il paziente a rischio infettivo elevato come dimostrato dalla maggiore incidenza di polmoniti e altre infezioni in questi soggetti. Questi meccanismi fisiopatologici costituiscono quello che viene definito "first hit", il primo colpo, ai danni delle condizioni generali del paziente. La chirurgia, in questa ottica, invece costituisce il "second hit", il secondo insulto, e può provocare così una seconda, cumulativa, risposta infiammatoria che, combinando i livelli alterati dei mediatori dell'infiammazione IL-6 e IL-8, determineranno il MOF. Da qui la necessità di eseguire una stabilizzazione provvisoria delle fratture che andranno poi incontro a fissazione definitiva appena
i suddetti valori rientreranno in un range accettabile per sottoporre il paziente a chirurgia; questo avviene solitamente dopo 5 giorni.38, 39
Nell'ambito della chirurgia d'emergenza e della rianimazione è stata definita la cosiddetta "triade letale" che porta a morte il paziente critico che si presenta con grave emorragia in corso.40 Si fa riferimento alle condizioni di ipotermia, acidosi e alla coagulopatia che si instaurano a causa della grave emorragia. Ripristinare la perfusione del paziente e stabilizzare la sua emodinamica diventa quindi la priorità in regime di urgenza. Riconoscendo universalmente che la frattura di un grande segmento osseo determini una perdita ematica grave e, tenendo presente il rischio di MOF da SIRS, risulta evidente come l'intervento dell'ortopedico debba mirare ad una stabilizzazione in tempi ridotti e senza impegnare troppo il paziente. A questo scopo la fissazione esterna, assieme al T-POD (temporary pelvic orthotic device) nel caso specifico di fratture della pelvi, è il cavallo di battaglia dell'ortopedico.
La stabilizzazione della frattura inizia, in modo temporaneo, sul luogo
dell'incidente. Le moderne ambulanze e gli elicotteri del 118 sono dotati di devices adatti ad una immediata stabilizzazione del politraumatizzato: stecche di immobilizzazione provvisorie per gli arti (immobilizzatore o stecco-benda), cinture pelviche (T-POD) e immobilizzatori per il rachide. (Figura 16)
Figura 16. Cintura pelvica.
Il trasporto avviene nel luogo di accoglienza più vicino, preferibilmente un trauma-center (HUB) come lo è il nostro ospedale AOUP; nel caso di non immediata disponibilità di tale struttura, il paziente viene deviato in un centro minore (SPOKE), adibito comunque ad accogliere i politraumi e a portare le cure primarie atte alla sopravvivenza del paziente per poi essere, in caso di necessità, trasferito, centralizzato, ad un trauma-center. Bisogna a questo punto specificare che la A.O.U.P. funge invece da centro SPOKE (periferico) per i pazienti pediatrici che vengono invece centralizzato all'ospedale pediatrico Meyer di Firenze; questo è dovuto ad una richiesta del reparto di Anestesia e Rianimazione che non dispone dei macchinari adatti per il trattamento di questo tipo di pazienti laddove per pazienti pediatrici si intendono soggetti antro il terzo anno di vita o i 20 Kg di peso. Bisogna ricordare anche che il ruolo di centro HUB del nostro ospedale è in alcuni casi limitato a causa delle ridotte capacità ricettive del reparto di Anestesia e Rianimazione; in periodi di aumentata richiesta infatti non possiamo rispondere a tutte le richieste di centralizzazione provenienti dai nosocomi vicini.
Al raggiungimento di un centro HUB inizia il percorso clinico, laboratoristico e radiologico del paziente politraumatizzato; viene stabilito l’ISS (Injury Severity Score), cioè il punteggio globale di gravità basato su aspetti anatomici e che classifica ogni lesione presente in una determinata regione del corpo a seconda della sua gravità relativa ad una scala ordinale. Solitamente in un politraumatizzato l'ISS è sempre uguale o superiore a 15.
Una volta inquadrati i pazienti politraumatizzati sulla base dei criteri dell'ATLS (Advanced Trauma Life Support) con stabilizzazione delle vie aeree, ventilazione, circolazione, stato neurologico e temperatura corporea secondo la regola dell'ABCDE; il passo successivo consiste nel selezionare i pazienti che necessitano di Damage Control piuttosto che essere candidabili direttamente alla chirurgia definitiva. L'outcome di pazienti con ferite sovrapponibili in sede e gravità dipende infatti da numerosi fattori quali l'età e comorbilità come il diabete o l'obesità. Risale al 1978 il primo tentativo di individuare fattori prognostici validi per la chirurgia ortopedica; gli autori raccomandarono di considerare la pressione sistolica, la frequenza cardiaca, la pressione venosa centrale e l'ematocrito; in addizione a questi si dette importanza anche all'indice cardiaco, alla pressione dell'arteria polmonare, lo stato di coagulazione e l'equilibrio acido base. La migliorata comprensione dei meccanismi fisiopatologici del paziente con politrauma ha permesso di individuare poi quattro fattori clinici significativi: i tre della cosiddetta "triade letale" menzionata precedentemente, ovvero l'ipotermia, la coagulopatia e l'acidosi come conseguenza dell'emorragia e dello shock; a cui si aggiungono le ferite ai tessuti molli, polmone, organi addominali ed organi pelvici. A partire da questi parametri Pape ha descritto quattro classi di pazienti, basati sul loro stato clinico: stabile, borderline, instabile, in extremis. Un paziente viene quindi classificato in una di queste quattro categorie se rientra in almeno tre dei quattro parametri della seguente tabella. 40 (Tabella 1)
Tabella 1. Le quattro classi di pazienti, basati sul loro stato clinico: stabile, borderline, instabile, in extremis; descritte da Pape.41 L'approccio con DCO è fuori dubbio nei pazienti unstable e in extremis (vedi Tab. 1); in essi una chirurgia estesa immediata costituirebbe quel "second hit" che con ogni probabilità andrebbe a causare distress respiratorio acuto, MOF o addirittura il decesso. DCO andrebbe quindi attuato in pazienti con temperatura corporea sotto i 33°C, pressione arteriosa inferiore a 90 mmHg, livelli elevati di lattati, una conta piastrinica sotto i 90.000 e la presenza di ferite maggiori ai danni di tessuti molli.42
Nei pazienti stable il gold standard è rappresentato dall'ETC.
È il paziente borderline a rappresentare la categoria più controversa, sono pazienti che entrano in sala operatoria in condizioni apparentemente stabili ma che durante l'intervento peggiorano inaspettatamente con comparsa di disfunzioni d'organo. La presenza di anche uno solo dei criteri della tabella sotto (Tabella 2) comporta una prognosi avversa e raccomanda un approccio con DCO.
Tabella 2. Criteri di inclusione del paziente nella categoria borderline.41 Inoltre, più è lunga la durata prevista della chirurgia, più è raccomandato il DCO; è documentata una maggior durata di ventilazione meccanica post-operatoria, una maggiore incidenza di disfunzione d'organo e di mortalità dopo interventi che eccedono le 6 ore in confronto ad interventi più brevi.
Futuri algoritmi terapeutici potranno beneficiare dai progressi che si stanno registrando in ambito di biologia molecolare. Si sta comprendendo sempre di più il fondamentale ruolo dei mediatori d'infiammazione quali IL-6, IL-8, IL-10 o delle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità HLA-DR di classe II nel comprendere le condizioni del paziente e una sua possibile evoluzione verso complicanze importanti di tipo infiammatorio sistemico o meno.43