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Le definizioni dell’art 18 del D.Lgs 206/2005 e la nozione di diligenza professionale.

2. La disciplina della pubblicità ingannevole.

2.3 Le definizioni dell’art 18 del D.Lgs 206/2005 e la nozione di diligenza professionale.

Il capo del Codice del Consumo, come modificato dal decreto legislativo 146/2007, propone nell’art. 18 la definizione dei termini chiave e più ricorrenti nell’ambito della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette in cui è inserita la nozione di pratica commerciale stessa e quali ambiti tutela e regola. La definizione di pratica commerciale scorretta presente nell’art. 18 lett. d) ricalca quella contenuta nell’art. 2 lett. d) della direttiva comunitaria 29/2005, scelta senza dubbio coerente con la volontà del legislatore comunitario di armonizzare la disciplina. L’ampiezza della normativa si evince soprattutto sotto il profilo della natura giuridica della condotta vietata, che può consistere tanto in dichiarazioni quanto in comportamenti materiali, tanto in omissioni. Si apprezza poi sotto il profilo sostanziale, in quanto si chiede una semplice “relazione fra la condotta e la promozione, la vendita o la fornitura di un prodotto ai consumatori ¹”. La portata della norma è estesa anche perché, come si rinviene nell’art. 18 lett. c , si intende per prodotto “qualsiasi bene, servizio, diritto e obbligazione ²”, quindi offrendo una definizione onnicomprensiva. L’operatività dell’art. 18 lett. d) include tutte le forme di

promozione, di commercializzazione dei prodotti, sia vecchie che nuove, ed ogni tipo di condotta che va dalla prima presa di contatto fra i soggetti coinvolti in un’operazione commerciale fino alla conclusione della stessa. Ricadono nella nozione di pratica commerciale sia i veri e propri messaggi pubblicitari sia i veri e propri messaggi pubblicitari, sia quelle attività che, pur appartenendo al genus delle comunicazioni d’impresa, tendono solitamente ad essere esclusi o distinti dal battage vero e

¹ Nell’art. 18 del d.lg 206/2005 viene definita pratica commerciale scorretta “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione

commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posto in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita,

proprio come, ad esempio, le sponsorizzazioni o quelle comunicazioni che hanno come obiettivo primario quello di promuovere l’immagine e la reputazione dell’inserzionista e incitare all’acquisto in maniera indiretta. Il concetto più rilevante presente nell’art. 18 del d.lgs. 206/2005 è quello di “diligenza professionale ” il quale, proprio a causa della

vaghezza definitoria, merita un approfondimento. L’art. 18 lett. h, del d.lgs. 206/2005 propone la diligenza professionale come “il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista ”. In questo caso si presenta una difficoltà interpretativa simile a quella dell’art. 39 del Codice del Consumo e l’art 5 lett. a. della direttiva comunitaria 2005/29 , dal momento che se la buona fede e correttezza possono essere considerati sinonimi e afferiscono ad un preciso obbligo di trasparenza e lealtà in qualsiasi

relazione fra persone al di là di ogni vincolo normativo. Invece la diligenza si muove nell’ottica di misurare l’impegno profuso da uno dei due contraenti per soddisfare le esigenze di un altro soggetto sempre in relazione alle promesse effettuate e alle aspettative minime che è lecito attendersi. Nel d.lgs. 146/2007 si offre una visione più estesa del concetto di diligenza

professionale, dove si afferma non solo la constatazione

dell’accuratezza con cui si adempiono gli obblighi assunti, ma si inserisce anche l’aspetto essenzialmente solidaristico che mira ad una protezione giuridica totalizzante

______________________________________________________________________ fornitura di un prodotto ai consumatori”. A differenza di quanto stabilito dall’art.2 let. D. del 2005/29CE in cui la pratica commerciale è tale se

direttamente connessa alla promozione e alla vendita, il legislatore italiano ha preferito utilizzare la dicitura “in relazione a ” per includere in questo articolo qualsiasi atto del professionista idoneo a incidere sulla sfera del consumatore, seppur di riflesso. Lasciare quanto previsto della direttiva europea, infatti, avrebbe potuto comportare l’esclusione del novero delle pratiche commerciali determinanti atti di concorrenza sleale come ad esempio il boicottaggio o l’abusodi posizione dominante.

della controparte. Inoltre si è notato che la nozione di diligenza professionale recepita nel Codice del Consumo, sia difficilmente inquadrabile in relazione alle clausole relative alla concorrenza sleale, soprattutto quelle inerenti all’art. 10 bis della

Convenzione di Unione di Parigi per la proprietà industriale e dei principi della correttezza professionale ex art. 2598 n.3 codice civile ¹. Si nega che l’art.18 lett. h) del decreto legislativo 206/2005 possa fare riferimento a un concetto di diligenza, prudenza e perizia la cui mancata adozione consente di

qualificare come colposa, in base all’art. 2043 del codice civile, la condotta del soggetto che danneggi un altro individuo con le proprie azioni. La contrarietà alla diligenza professionale non va mai ricollegata alla colpa come elemento soggettivo

dell’illecito civile ². Bensì è una nozione che vanta la propria autonomia rispetto a quanto previsto dal codice civile e che trova una sua particolare applicazione in merito alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette. La definizione di diligenza professionale così come introdotta nell’ordinamento italiano dal nostro legislatore presenta alcune differenze con quanto

proposto in sede comunitaria dalla direttiva 2005/29 dal momento che l’art.2 lett. h) osserva la diligenza professionale “rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona diligenza nel settore di attività del professionista , il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori”. Mettendo a confronto l’art.2 lett. h) e l’art 18 del Codice del Consumo, le differenze sono palesi .

________________________________________________________________________ ² Stanzione, Sciancalepore(a cura di), Commentario breve al codice del consumo, IPSOA, 2006;Cfr. De Cristofaro, op.cit, p.97 e ss.¹ Ubertazzi Giurisprudenza completa del Giurì di Autodisciplina pubblicitaria (1977-1985), Ipsoa, 1986, pag. 328 ² Cfr. De Cristofaro, op.cit, p.150, nota 13.

In primis, la competenza e l’impegno, che devono essere posti in essere per dar origine ad una pratica commerciale lecita, non sono misurati in base a ciò che è onesto attendersi da parte di un professionista secondo l’ottica di un consumatore, così come espresso nell’ordinamento italiano, bensì si stima quale sia il comportamento giusto di un professionista attenendosi al giudizio di un “osservatore” terzo, neutro ed esterno non considerando il parere al quale è rivolta l’operazione

commerciale stessa. Inoltre nel recepimento della direttiva europea “il principio generale di buona fede” è stato sostituito dai “principi di correttezza e buona fede”, mentre non è più presente il riferimento ad un poco chiaro e vago parametro relativo alle “pratiche di mercato oneste” citato, invece, dal legislatore europeo. Nell’ ambito della direttiva comunitaria 2005/29 emergono due tipologie di individui che devono essere tutelati dalle attività commerciali poste in essere dagli

imprenditori o dai professionisti: il consumatore, che costituisce una vera e propria categoria, e il consumatore medio, che

diviene una sorta di parametro di riferimento per individuare la scorrettezza di una pratica commerciale ¹. Per “consumatore” si intende: qualsiasi persona fisica che agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale ². Il d.lgs. 146/2007 ha inserito nel Codice del Consumo (art. 18 lett.a)) una nuova definizione di consumatore è del tutto coerente con quanto riportato nell’art.2 della direttiva comunitaria 2005/29 e che va ad affiancarsi a quelle già presenti dal 2005

_______________________________________________________________________ ¹ Cfr.A.Saccomani, Le nozioni di consumatore e consumatore medio nella direttiva

2005/29Ce in Codice di Consumo, Commentario a cura di Alpa e Rossi

nell’articolo 3 del decreto legislativo 206/2005¹ in cui si colloca tale nozione con le pratiche commerciali che sono oggetto della direttiva stessa. Secondo quanto prescritto dall’art. 20 del

Codice del Consumo, si comprende che sono due gli elementi su cui si basa l’individuazione di una pratica commerciale scorretta e, nello specifico, la contrarietà alla diligenza professionale e l’idoneità a falsare il comportamento economico degli acquirenti . Questo secondo requisito deve essere contestualizzato in base all’ordinamento italiano ed è importante comprendere secondo quali criteri il nostro legislatore riesca a determinare un modus

operandi uniforme e a garantire un metro di giudizio quanto mai

omogeneo per tutte le pratiche commerciali, seppur non esista uno standard oggettivo a cui poter far riferimento. Affinchè un’attività commerciale (già contraria alla diligenza

professionale) possa considerarsi scorretta è necessario che sia in grado di alterare “sensibilmente”, in base all’art.18, o “in maniera apprezzabile”, secondo quanto previsto dall’art. 20, la capacità di un consumatore di prendere una “decisione di natura commerciale” consapevole e di indurlo ad assumere decisioni che altrimenti non avrebbe mai preso .Il divieto di pratiche commerciali scorrette è esteso ad ogni condotta che possa comportare un travisamento nel processo decisionale del

singolo acquirente. Per commercializzare un bene o un servizio, è ovvio che un’azienda ricorra ad opere di persuasione e di convincimento che stimolino l’interesse verso i propri prodotti e che differenzino se stessa dai competitors, quindi sarebbe stato poco coerente voler limitare qualsiasi tentativo di approccio che poteva mettere in pratica un’impresa nei confronti del proprio target di riferimento.

_____________________________________________________________________ ¹ L’art. 3 lett. a) del decreto legislativo 206/2005 riporta nelle definizioni delle disposizioni generali la nozione di consumatore: “consumatore o utente : la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”.

Il limite tollerato dal legislatore italiano, è quello che comporta il permanere di una consistente autonomia volitiva, che si estrinseca attraverso il attraverso il concetto del dolus bonus, parametro che caratterizza la valutazione dei messaggi

pubblicitari. Il dolus bonus consiste nell’esaltazione “positiva” realizzata dall’operatore commerciale e che è autorizzato anche dal comma 3, ultimo capoverso, dell’art. 20 del d.lgs. 206/2005 in cui si dichiarano legali quelle “dichiarazioni esagerate” o “non destinate ad essere prese alla lettera”¹.

¹ Art. 2 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, ivi,p.117 ² l’art. 2 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria fa riferimento all’iperbole contrariamente a quanto previsto dal d.lgs. 145/2007 in quanto questa norma non prende espressamente posizione sul problema dell’iperbole. Nonostante nell’art. 2 del d.lgs. 145/2007 non si menzioni questa particolare fattispecie, nell’ambito pratico si giunge alle medesime conclusioni del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria , ma ovviamente la censurabilità o meno dal momento che l’evidente inverosimiglianza, la rappresentazione di un risultato impossibile a raggiungersi, una generica superiorità del prodotto, espressa al grado superlativo e riferita ad una base totalizzante, sono sufficienti per impedire che una

comunicazione possa considerarsi ingannevole per un consumatore e, di riflesso, contestualizzando questo dato nell’ambito delle pratiche commerciali scorrette, indurre l’acquirente ad una valutazione economica non corretta e l’assunzione di una decisione di natura commerciale errata. Per chiarire questo concetto,

possiamo far riferimento all’art.2 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria ¹, in cui si regolano i criteri che determinano la recettività di una pubblicità. Tra le esimenti, l’iperbole pubblicitaria ², ricopre un ruolo fondamentale, dell’iperbole dipenderà dalla sua attitudine in concreto ad indurre in errore i destinatari del messaggio e, quindi andrà valutata con riferimento al target dello stesso. Esempi pratici di questa particolare esimente: “sani con gusto” riferita ai biscotti a base di ingredienti naturali (A.G n. 3014, ivi 18/95); “miracolosa, anzi

miracolosissima” riferita all’acqua minerale San Benedetto (A.G n.4149, ivi 32- 33) proprio perché è sottolineato il legame palesemente ironico fra tale qualifica e la denominazione dell’acqua. Cfr. Ubertazzi, op.cit, p.239

2.4 Il consumatore medio come parametro di riferimento