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Degradazione degli standard

SEQUENZE DI INTERESSE DA UTILIZZARE COME STANDARD PER LA QUANTIFICAZIONE

9.3.3. Degradazione degli standard

Ai fini della quantificazione il softwate richiede l’inserimento di un punto della curva standard onde poterla riproporre nello specifico esperimento. Affinché la quantificazione sia riproducibile è necessario che la concentrazione dello standard sia quanto più simile possibile a quella fornita in sede di preparazione della curva. Tuttavia, in particolare se non congelato ed a concentrazioni non elevate il DNA va inevitabilmente incontro a fenomeni di degradazione. Sebbene sia stato dimostrato che i plasmidi presentano un’elevata resistenza anche in queste condizioni (Dhanasekaran et al., 2010) è inevitabile che questi si degradino progressivamente. Si è quindi

provveduto a generare nuove curve standard e a sostituirle alle precedenti ogni qualvolta si riscontrasse un incremento nel valore dei Cp dello standard.

9.4. ESTRAZIONE DEL DNA DAI CAMPIONI DI TESSUTO

In sede di estrazione del DNA virale non si sono presentati problemi degni di nota. L’utilizzo del Hybaid RiboLyzer e la scelta dello specifico protocollo, comprensivo di digestione overnight, sono stati adottati in quanto determinanti una migliore omogeneizzazione e lisi del campione. L’analisi dei risultati inerenti all’efficacia di estrazione del controllo interno ha permesso di riscontrare una differenza statisticamente significativa fra il quantitativo di DNA inoculato e quello effettivamente estratto (fig. 15).

Fig. 15. Efficienza di estrazione. In arancione = 2X105 di IC; in rosso = copie estratte a partire da 2X105 copie di IC; in verde = controllo negativo.

Nello specifico si è osservato una concentrazione inferiore di oltre venti volte, evidenziando un efficienza di estrazione piuttosto bassa (4,52%). Al contrario non si è dimostrata una differenza significativa nell’efficienza di estrazione fra le due matrici considerate e fra i diversi replicati. La costanza di questo parametro è in primo luogo prerequisito necessario per la comparazione di campioni diversi. Ai fini di una futura implementazione del test, sarebbe possibile utilizzare il plasmide IC come “full-process IC”. L’aggiunta di questo durante la fase di estrazione permetterebbe infatti di individuare eventuali perdite di DNA target legate a deficit durante questo processo. I limiti manifestatisi in sede di estrazione, sicuramente degni di nota, devono tuttavia essere considerati in chiave pratica. Le metodiche confrontate, ed in particolare la PROBE, hanno rivelato nel loro complesso una sensibilità considerevole, rendendo complessivamente soddisfacenti i risultati ottenuti. È stato precedentemente riportato come diversi studi abbiano correlato i titoli virali allo stato clinico dell’animale. Tuttavia quanto appena evidenziato, in accordo con quanto riportato da Hjulsager et al. (Puvanendiran et

al.,2011), rende manifesta l’impossibilità di definire un cut off di salute/malattia universalmente valido. Allo stato attuale i termini della classificazione dipendono dai protocolli e dalla strumentazione utilizzati e conseguentemente i criteri di interpretazione devono essere definite da ciascun laboratorio. Conseguentemente qualora si desiderasse in futuro estendere le applicazioni delle diagnostiche confrontate anche alla diagnosi clinica di malattia la bassa resa di estrazione non rappresenterebbe un ostacolo.

BUFFER AE

L’analisi dei buffer AE inerenti i singoli gruppi di campioni ha rivelato alcune positività. Ciò ha ovviamente posto il problema di discriminare se queste derivassero da una contaminazione della singola aliquota o piuttosto del reagente nella sua totalità. L’analisi delle rimanenze dei kit precedentemente usati ha permesso di escludere quest’ultima eventualità. La possibilità di un interessamento della singola aliquota appare una spiegazione plausibile in funzione della prossimità spazio-temporale delle operazioni inerenti l’estrazione dei campioni sperimentali e il prelevamento della quota di buffer di eluizione. La presenza di elementi virali o quantomeno del loro materiale genetico nell’ambiente, nella strumentazione usata e sugli operatori rappresenta un’eventualità tutt’altro che remota. In tal senso è necessario evidenziare come limiti di tipo strutturale e logistico abbiano impedito di ottemperare in pieno a tutte le pratiche finalizzate a minimizzare questa tipologia di rischi. In particolare non è stato possibile utilizzare nell’ambito delle fasi di preparazione degli standard e dei controlli positivi strumentazioni dedicate. In aggiunta l’accesso del personale nelle aree adibite a questo scopo dovrebbe essere ridotto all’essenziale, provvedimento ovviamente inapplicabile in un laboratorio, modesto per dimensioni, ed adibito anche ad attività didattica. Tuttavia il risconto di positività ad entrambe le metodiche fa propendere maggiormente per una contaminazione da parte di DNA virale piuttosto che plasmidico. Gli inserti infatti risultano specifici ciascuno per una sola delle coppie di primer. L’assenza di una correlazione temporale fra le diverse positività lascia presupporre l’efficacia delle buone pratiche di laboratorio applicate prima di procedere all’estrazione della dozzina di campioni successiva. In funzione di queste considerazioni, esclusi i campioni corrispondenti ai buffer AE risultati positivi, è stato possibile asserire la validità dei risultati inerenti gli altri lotti. L’utilizzo della seconda aliquota a disposizione ha permesso di effettuare una nuova estrazione e di evitare la perdita di dati.

9.5. VALIDAZIONE

Durante l’esecuzione delle prove necessarie alla definizione delle caratteristiche analitiche della metodica si sono presentate diverse difficoltà nell’ottenimento di soggetti negativi. Tutti i

soggetti testati, inizialmente selezionati sulla base dell’età al fine di minimizzare la probabilità che fossero infetti, si sono rivelati positivi. Si è quindi optato per l’individuazione di soggetti sieronegativi sia alle IgM che alle IgG e quindi teoricamente mai venuti a contatto con il patogeno nel breve (IgM) e nel lungo periodo (IgG). I risultati positivi ottenuti tramite la metodica PROBE nei due soggetti considerati hanno ovviamente richiesto un approfondimento delle indagini. Si è infatti sospettata una possibile carenza di specificità, conseguente al riconoscimento da parte dei primer e della sonda di sequenze proprie di PCV1. In primo luogo si è proceduto all’esame della sequenza compresa fra i primer P1570F/P1642R e 83F/83R. A tal fine le corrispondenti regioni del genoma di PCV2 sono state allineate tramite Clustal w2 (www.ebi.ac.uk/Tools/msa/clustalw2) a tutte le sequenze di PCV1 ottenute tramite ricerca in Pubmed. Scarsamente significative si sono rivelate le percentuali di identità fra le sequenze dei primer 83F e 83R utilizzati nella metodica SYBR ed il genoma di PCV1. Inoltre l’elevato numero di polimorfismi presenti nella sequenza compresa fra questi permetterebbe di differenziare un eventuale amplificato aspecifico tramite l’analisi della curva di melting.

Le similarità delle sequenze per quanto concerne i reagenti utilizzati nella metodica PROBE si sono rivelate maggiori (tab. 26). In aggiunta è necessario considerare come le identità di sequenza interessino tratti particolarmente delicati ai fini della specificità della metodica quali le estremità 3’ dei primer e l’estremità 5’ della sonda. Per comprendere la reale origine della positività due campioni di linfonodo, appartenenti a soggetti diversi, sono stati sottoposti a PCR utilizzando le coppie di primer 492F/492R e 83F/83R, sottoposti a elettroforesi su gel di agarosio (per valutare la presenza o meno di amplificato delle dimensioni specifiche) e quindi sequenziati. I cromatogrammi ottenuti sono stati analizzati con il software Finch TV (www.geospiza.com/finchtv/) mentre le sequenze consenso, da sottoporre ad analisi BLAST, sono state ottenute con Chromas Pro 1.5 (Technelysium Pty Ltd). Il software ha rivelato una percentuale di identità delle nostre sequenze rispetto alle corrispondenti sequenze di PCV2 pari rispettivamente al 99 e 100% e del 84% e 85% rispetto alle corrispondenti sequenze di PCV1. Questo risultato ha evidenziato una reale positività per PCV2, in conflitto con i risultati della sierologia. Le possibili spiegazioni sono varie. Un’ipotesi è che si tratti di un infezione recente, per la quali non sia trascorso tempo sufficiente allo sviluppo di una rilevabile risposta immunitaria. Sfortunatamente i soggetti in questione sono stati sacrificati, rendendo impossibile il monitoraggio della sieroconversione. È tuttavia egualmente possibile trarre alcune conclusioni a riguardo. Trattandosi di animali adulti ed allevati in presenza di altri soggetti rivelatisi sieropositivi è improbabile che questi siano venuti a contatto con l’infezione solo poco prima della macellazione. Inoltre successive analisi hanno evidenziato la positività dei soggetti in

diversi tessuti (polmone, linfonodo inguinale e siero). L’evidenza di viremia e di un’ampia diffusione in tessuti diversi fa presumere che l’infezione sia iniziata diversi giorni prima, rendendo improbabile questa ipotesi. Sebbene sia descritto uno stato di immunodepressione associato ad una diminuzione dei titoli anticorpali nei soggetti infetti, questo riguarda individui affetti da PCVD e quindi tipicamente soggetti giovani. In ogni caso l’autore non è a conoscenza di articoli in cui siano riportati animali, sopravvissuti fino all’età adulta, incapaci di montare in senso assoluto una risposta immunitaria dopo l’infezione con virus non inattivati. La graduale diminuzione dei titoli anticorpali è altresì fortemente improbabile in funzione della significativa durata dell’immunità e del perpetuarsi dello stimolo antigenico in individui infetti. Conseguentemente, sebbene non possano essere esclusi i possibili limiti della metodica sierologica e quindi l’eventualità di essersi confrontati con dei falsi negativi, l’interrogativo apertosi in tale frangente meriterebbe sicuramente un futuro approfondimento date le notevoli implicazioni in termini patogenetici, epidemiologici e diagnostici.

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