1. Ragioni economico-fiscali e strumenti giuridici della delocalizzazione delle attività
2.7. Delimitazione dell’ambito di indagine alle disposizioni in tema di CFC 103
Tra gli strumenti legislativi tesi a contrastare gli indebiti vantaggi fiscali conseguiti per il tramite della localizzazione delle attività nei paesi a fiscalità privilegiata, un
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ruolo fondamentale assumono oggi le normative in materia d’imputazione dei redditi dei soggetti partecipati non residenti (“controlled foreign companies
legislations”, normativa cfc).
Ci troviamo, questa volta, davanti a disposizioni non già messe in campo per ragioni ordinamentali, di “chiusura del sistema” o di corretta ripartizione della sovranità impositiva, bensì messe in campo per ragioni di contrasto a pratiche abusive. Ed infatti, mentre fin dalla sua introduzione la normativa cfc veniva spesso considerata quale normativa volta a contrastare i cosiddetti fenomeni di tax deferral, la disciplina italiana ha assunto sempre più, nel corso degli anni, i connotati di una disposizione anti-abuso.
In particolare, la normativa cfc, prevedendo la diretta imputazione per trasparenza in capo al soggetto partecipante dei redditi prodotti dai soggetti partecipati e localizzati in paesi a fiscalità privilegiata, oltre a provocare un’anticipazione della tassazione – evitando, così, il fenomeno della sospensione a tempo indeterminato della tassazione dei redditi sino all’eventuale periodo d’imposta di distribuzione –, contrasta i fenomeni mediante i quali, attraverso la localizzazione di schermi societari costituenti meri centri di imputazione di redditi passivi, si assiste alla fittizia distrazione dei redditi verso paesi a fiscalità privilegiata.
La logica sottostante alla disposizione in parola muove da diversi presupposti. Rispetto alle disposizioni sulle quali ci siamo già soffermati, infatti, essa si riconnette sia alla struttura della attività, sia alla tipologia del paese di residenza o localizzazione del soggetto estero.
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una delle due situazioni sopra prese in considerazione, la disposizione in punto di
cfc richiede, affinché scatti il presupposto applicativo, la sussistenza di entrambe le
condizioni. Da un lato, infatti, essa poggia su quelle strutture societarie organizzate sottoforma di gruppo e, dall’altro lato, essa è comunque legata alla residenza del soggetto estero controllato o collegato in un paese a fiscalità privilegiata(166).
Sotto la bandiera di questi due requisiti, dunque, il legislatore giustifica una sorta di forzatura, la quale crea artificiosamente i presupposti per la tassazione sulla base della trasparenza in capo al soggetto residente di redditi prodotti da un altro soggetto, in tal modo superando lo schermo societario, senza distinguere le situazioni di interposizione fittizia da quelle di interposizione reale, e superando dunque le regole sulla soggettività passiva.
L’effetto dirompente della disciplina in parola è di tutta evidenza perché mediante tale normativa il soggetto estero, dal punto di vista fiscale, viene superato, diventa per l’appunto trasparente in modo tale che i redditi affluiscano direttamente in capo al soggetto controllante residente. Si superano in questo modo i limiti dati dalla soggettività che di regola tratteggiano i confini per la tassazione in capo al soggetto controllante.
In altre parole, attraverso la disciplina cfc, si è creato un sistema che, mediante una forzatura normativa, è in grado di stravolgere le regole preposte alla tassazione dei soggetti esteri controllati e collegati.
Nella disciplina cfc, pertanto, la struttura di gruppo agganciata alla residenza dei soggetti esteri rappresenta un indice di pericolosità fiscale: l’intreccio di queste due
166 Fatta eccezione per la particolare modifica normativa introdotta con il dl 78/2009, mediante la quale è stato esteso, a talune condizioni, l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina fino a ricomprendere i soggetti residenti in territori non black list.
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situazioni, infatti, ben si presta a nascondere condotte abusive mediante le quali non si assiste alla concreta delocalizzazione di attività produttive bensì alla delocalizzazione del reddito, il quale viene imputato a soggetti formalmente indipendenti ma che in realtà rappresentano strutture “di comodo” o, per utilizzare i termini coniati dalla Corte di Giustizia, costruzioni di puro artificio.
Ciò nondimeno, non si può pensare che tutte le situazioni nelle quali si assiste alla organizzazione sottoforma di gruppo delle attività e al contatto con paesi a fiscalità privilegiata siano automaticamente rappresentative di situazioni abusive.
È evidente, pertanto, che tale normativa, superando le regole ordinarie sulla determinazione e tassazione del reddito di impresa, non può essere lasciata libera di operare indistintamente nei confronti di tutti i soggetti che presentano i requisiti anzidetti, ma i suoi confini devono essere ben definiti, in modo tale da colpire solamente le situazioni che concretamente rappresentano pratiche abusive. Diversamente, sarebbe difficile giustificare la disciplina alla luce dei principi costituzionali, delle regole tratteggiate dagli accordi bilaterali e finanche dei principi comunitari.
È per questo motivo che il legislatore ha introdotto diverse cause esimenti, le quali dovrebbero essere capaci di definire in modo corretto l’ambito applicativo della disciplina. Ciò al fine di contenere una normativa antiabuso capace, laddove non compiutamente definita, di colpire anche allorquando l’attività economica sia effettivamente radicata nel territorio di insediamento estero. Le esimenti rappresentano dunque lo snodo cruciale del funzionamento della normativa cfc. Solo una loro ponderata interpretazione, sempre legata alla ratio della normativa,
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può infatti permettere una corretta applicazione della disciplina, la quale non finisca per sconfinare e colpire attività che non rappresentano affatto pratiche abusive, in tal modo andando a ledere e disincentivare scelte di sviluppo internazionali e, di conseguenza, andando a pregiudicare lo sviluppo stesso del tessuto imprenditoriale del nostro paese.
Ma anche gli aspetti procedimentali hanno il loro peso. La (apparente) necessità di chiedere la disapplicazione della disciplina mediante la presentazione di interpello preventivo presta il fianco, in questa prospettiva, a critiche piuttosto evidenti. Solamente la garanzia di una tutela giurisdizionale, non condizionata dalla preventiva azione sul piano amministrativo, è infatti in grado di garantire, sul piano della proporzionalità e della ragionevolezza, una corretta applicazione della disciplina che consenta al contribuente di dimostrare appieno il concreto svolgimento di una attività all’estero e dunque la mancanza di effetti abusivi connessi alla struttura imprenditoriale.
Per effetto dei recenti inasprimenti adottati dal legislatore, peraltro, la disciplina cfc ha assunto nuove sfaccettature e fatto sorgere nuove problematiche le quali superano l’ambito nazionale.
Ed infatti, oltre ad assumere rilevanza sul piano strettamente domestico, le normative anti-abuso nazionali incontrano specifiche limitazioni sia sul piano comunitario che sul piano convenzionale, vale a dire sul piano dei trattati siglati in via bilaterale tra i diversi paesi.
La diretta imputazione del reddito prodotto dall’impresa estera partecipata, infatti, deve essere attentamente vagliata, in prima battuta e nell’ottica nazionale, alla luce
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della ragionevolezza nella prospettiva del rispetto della capacità contributiva. È evidente, invero, che la diretta imputazione del reddito del soggetto partecipato rappresenta la tassazione in capo al soggetto partecipante di un reddito prodotto da un altro soggetto. Reddito quest’ultimo il quale non si trova nella immediata disponibilità del primo, dimodoché potrebbero porsi problemi in ordine alla effettività della capacità contributiva. Ciò anche alla luce delle esimenti previste ex
lege, le quali – come detto - hanno la funzione di delimitare l’ambito applicativo
della disciplina in parola: è evidente, infatti, che, laddove la dimostrazione delle cause esimenti venga eccessivamente limitata, aumentano i dubbi in punto di ragionevolezza della disciplina.
Ancora, nell’ottica del diritto comunitario, la normativa anti-abuso nazionale deve essere valutata sia con riferimento alla libertà di stabilimento, quale strumento di creazione ed implementazione del mercato unico, sia con riferimento al principio di proporzionalità, il quale richiede che le misure nazionali non siano eccessive e non vadano oltre rispetto agli obiettivi prefissati.
Infine, la normativa nazionale deve altresì confrontarsi con le ulteriori limitazioni dettate dal diritto convenzionale, a mente del quale i redditi prodotti dall’impresa devono essere tassati esclusivamente nel paese in cui tali redditi vengono prodotti, salvo il caso della stabile organizzazione.
La normativa cfc, con tutti i particolari presupposti previsti dal legislatore e i risvolti applicativi, rappresenta dunque, anche alla luce dei recenti inasprimenti introdotti sotto la bandiera della lotta ai paradisi fiscali, un ottimo punto di riferimento per approfondire il funzionamento delle disposizioni anti-abuso domestiche, tenendo
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conto, oltre che dei limiti nazionali, altresì dei limiti promananti dal sistema comunitario e convenzionale.
L’impatto di tale normativa sulle scelte di autonomia privata dell’imprenditore è di tutta evidenza dal momento che, per un verso, ci troviamo davanti ad una normativa la quale, rivolgendosi alle formazioni sviluppate sottoforma di gruppo, colpisce proprio le strutture che maggiormente rappresentano le strategie di sviluppo e di internazionalizzazione delle attività di impresa. Per altro verso, ci troviamo di fronte ad una normativa che colpisce in ragione dello Stato o territorio nel quale l’impresa estera viene localizzata, in tal modo incidendo sulle scelte legate alla pianificazione fiscale internazionale. Come la disciplina sui costi black list, infatti, ad eccezione delle recenti modifiche introdotte dal d.l. 78/2009 – il quale estende l’ambito applicativo anche per le controllate residenti in paesi non black list sta volta sulla base della tipologia di attività svolta e, dunque, sulla base della tipologia di reddito incamerato – la normativa opera laddove l’impresa estera controllata sia localizzata in Stati o territori a fiscalità privilegiata. Con la disciplina
cfc viene pertanto alzata una sorta di “barriera” avverso quelle tipologie di
delocalizzazione che prevedono lo sviluppo dell’attività imprenditoriale sottoforma di gruppo, nel caso in cui tale delocalizzazione determini il contatto con paesi o territori a fiscalità privilegiata.
Al fine di svolgere l’analisi richiamata è tuttavia necessario soffermarsi, in prima battuta, sull’esame della normativa interna. Ciò allo scopo di comprendere fino a che punto tale normativa è capace di incidere su questa particolare forma di delocalizzazione delle attività economiche. Tratteggiato in tal modo l’ambito
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applicativo e definita la ratio sottostante, anche alla luce delle richiamate modifiche recentemente apportate dal legislatore, sarà possibile svolgere alcune considerazioni sull’impatto che codesta normativa anti-abuso è in grado di determinare con riguardo ai principi costituzionali, ai limiti dettati dalle convenzioni bilaterali e, finanche, ai principi comunitari tratteggiati dal Trattato di Roma e negli anni raffinati dalla fondamentale azione interpretativa della Corte di Giustizia.
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CAPITOLO 3