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L’uso della fotografia d’arte nella rivista “la biennale di venezia”: casi di studio

LA FOTOGRAFIA D’ARTE NE “la biennale di venezia” TRA EDITORIA COLTA ED INTENTI DIDASCALIC

2. L’uso della fotografia d’arte nella rivista “la biennale di venezia”: casi di studio

2.1 La fotografia d’arte: un confronto tra la rivista ed il catalogo della Mostra

Confrontando la rivista con altre iniziative editoriali della Biennale, come ad esempio i cataloghi ufficiali della rassegna , spicca una netta diversità nell’articolazione dell’immagine. La differenza 630

si palesa soprattutto per la natura dei prodotti così diversi tra loro. Infatti, se da una parte il catalogo della mostra veniva concepito come strumento essenziale di “restituzione” dell’esposizione e “documento di storia”, dall’altra, la rivista fu l’occasione per aprire un varco e per mettere a fuoco nuove ed avvertite sperimentazioni nell’uso dell’immagine.

A questo primo aspetto va aggiunto che il catalogo della Mostra aveva mantenuto costante negli anni il piccolo formato (cm 16 x 11, tascabile). Solo a partire dall’edizione maestra della Biennale del 1948 il catalogo si articolerà, in una forma narrativa e grafica dall’impaginato più fresco ed organizzato, prima in un’enumerazione dei padiglioni e degli artisti espositori, cui venivano affiancate descrizioni critiche, e, soltanto alla fine in un elenco di riproduzioni fotografiche stampate sovente su carta lucida o patinata, ricca di sali d’argento per la buona resa della fotografia. Da un punto di vista dell’analisi dell’oggetto catalogo, la composizione della fotografia delle opere d’arte allestite nell’apparato illustrativo ricalca, da un punto di vista della “grammatica fotografica”, quelli che erano gli schemi tradizionali di ripresa frontale delle opere d’arte con il ricorso alla consuetudine di fotografare l’opera con schemi rigidi, isolandola dal contesto che, come ben notava Massimo Ferretti, parlando della riproduzione fotografica dei manufatti architettonici condotta per mano dei fotografi, era figlia di “un impianto prospettico monumentalmente bloccato sul treppiede.” 631

Ma questo tipo di esecuzione, rimasta pressoché immutata anche di fronte alle evoluzioni dell’arte figurativa e del progredire delle tecnologie, rispondeva in prima istanza alle esigenze della Commissione della Biennale di Venezia che, mediante la pubblicazione del catalogo “documento di storia”, intendeva limitarsi a corredare la narrazione dei fatti dell’arte passati in mostra con illustrazioni fotografiche rigorosamente in bianco e nero. Sulle possibili ragioni del persistere di un atteggiamento “cromoclasta” nella esecuzione e nella scelta delle riproduzioni s’intrecciano, a mio avviso, motivazioni di natura economica (i limitati mezzi a disposizione imponevano scelte editoriali le più vantaggiose per l’Ente), e anche innegabili motivazioni tecniche legate alla perizia e all’attrezzatura in possesso dei fotografi. La fotografia a colori richiedeva pazienza e capacità

Il riferimento va ancora allo studio di MIGLIORE (2012). 630

FERRETTI (2003c), p. 3. Sulla riproduzione fotografica dell’opera d’arte rimando ancora ai saggi di SPALLETTI 631

tecnica come è ricordato anche da Claudio Emmer nell’articolo Ho fotografato i capolavori, 632

apparso nelle pagine della rivista “Pirelli” nel dicembre del 1951. Mi pare significativo riportare un passo dell’argomentazione di Emmer utile a capire il lavoro del fotografo di opere d’arte:

“[…] Da parecchio tempo non fotografo una sola volta un quadro o un dettaglio, ma ripeto la ripresa cinque volte, perché per fare le selezioni che poi servono per eseguire la stampa a colori a mezzo dei cliché, occorre, con appropriati filtri, separare i colori; e cioè: una lastra per il giallo, una per il rosso, una per il blu e una per il nero; la quinta è invece una fotografia diretta a colori che serve per guida al cronista che deve eseguire il dosaggio delle tonalità […]” 633

In seconda istanza noto anche che la presenza del «bianco e nero» è il risultato di una precisa scelta che si era mantenuta costante negli anni. Ne è testimonianza la predilezione di tutti gli organizzatori, susseguitesi alla guida dell’Istituzione veneziana, per la stampa a catalogo di riproduzioni delle opere d’arte codificata sulla sintassi del bianco e nero. Il debito culturale di tale approccio ritrova fertile legame con i precetti del mondo accademico e dell’iconologia che (pensiamo al discepolato di Fiocco e dall’appartenenza all’area venturiana del Pallucchini) sino almeno agli anni quaranta, insisteva sul “potere analogico e descrittivo alla fotografia” in bianco 634

e nero e sulla capacità del monocromo, in termini percettivi e ricettivi, di non tradire l’occhio. Il procedimento permetteva di inseguire quella aspirazione alla massima fedeltà possibile all’originale poiché, in un ideale parallelismo con la fotografia di riproduzione dei dipinti dell’arte antica, i

NOTARNICOLA (1953), p. 43. Nelle pagine della rivista “Pirelli”, Vittorio Notarnicola, parlando di fotografia a 632

colori e della conquista tecnica del procedimento con pellicola negativa Ferraniacolor, sottolineava le difficoltà che sino a quel momento avevano caratterizzato il lavoro del fotografo o dell’amatore per la riproduzione a colori: “[…] per le riprese all’interno [il fotografo] deve avere a disposizione tre o quattro sorgenti luminose. L’impianto costa all’incirca diecimila lire […]. La stessa spesa è necessaria per procurarsi un lampeggiatore a torcia. Questo per l’esecuzione della fotografia. Per la stampa, una altra difficoltà disarmante era rappresentata dal numero assai limitato dei laboratori specializzati. […] L’altro problema è quello di rendere il procedimento [il procedimento della riproduzione a colori] sempre più semplice, fini a portarlo allo stesso livello di quello della fotografia in bianco e nero. […]

EMMER (1951), p. 13. 633

MIRAGLIA (1996), p. 211. Francesca Recine sottolinea la stretta relazione tra la critica d’arte (di scuola venturiana 634

fondata sul positivismo storico) ed il persistere, nello stile fotografico, della consuetudine di “isolare dal contesto l’immagine riprodotta”, cfr. RECINE (2006), p. 14.

TORCELLINI (2010), p. 375. 635

rapporti chiaroscurali soffrivano meno grazie all’elezione del bianco e nero , mediante la resa con 635

tutta l’ampiezza tonale possibile delle gamme di sfumatura nella scala dei grigi. 636

Va da sé che la commessa da parte dell’archivio della Biennale di riproduzioni fotografiche con funzione di restituzione dell’opera, aveva avuto inevitabili riflessi sulla componente stilistica. Occorre rilevare come un certo canone retorico nella riproduzione delle opere d’arte avesse limitato qualsiasi tipo d’interpretazione dell’operatore-fotografo chiamato ad eseguire l’incarico per qualità, perizia ed attrezzatura. Ma volendo prendere in considerazione le proprietà stilistiche delle fotografie, queste saranno sempre caratterizzate da un marcato oggettivismo. L’enorme messe di fotografie d’arte conservate nella fototeca ASAC rispondevano quindi all’esigenza dell’Ente di dotarsi di uno strumento di documentazione delle opere passate in rassegna. Infatti, dal punto di vista stilistico, la maggior parte delle fotografie eseguite per i servizi di ripresa (condotti in concomitanza alle mostre), sono lo specchio dei metodi stessi della critica , in linea con il 637

pensiero degli organizzatori, ovvero della volontà di restituire un’immagine fedele e sintetica dell’opera. È limpida dimostrazione di questa prassi operativa la scelta di limitarsi, nella selezione delle immagini per l’illustrazione del catalogo, ad un corredo di fotografie in bianco e nero che, per non tradire la natura stessa dell’oggetto editoriale “elenco”, si rifletteva in repertori figurativi dalla mera funzione d’appendice visiva e supporto mnemonico. Un utilizzo siffatto del medium si riscontra sostanzialmente anche leggendo le fotografie dal punto di vista formale. Queste, ancorate su schemi tradizionali di documentazione dell’opera d’arte fortemente condizionati dal rispetto dei canoni di ripresa, isolavano l’opera dai riferimenti spaziali circostanti, in fondi piatti, e restituiscono solo le opere giammai funzionali, ad esempio, alla presentazione fotografica (nel catalogo) dell’allestimento museografico delle sale. La predilezione del punto di vista frontale, se da una parte rende la fotografia strumento didascalico e di documentazione, dall’altro priva l’esercizio del fotografo della “sperimentazione” sulla tecnica di ripresa. Come pure possiamo attestare che i servizi fotografici alla Biennale non fossero condotti accanto allo storico. La ricerca infatti non ha

Sulla vexata quaestio del colore nell’arte si vedano ancora i contributi di Daniele Torcellini. Invece, nella cronologia 636

di riferimento segnalo l’editoriale di Roberto Longhi apparso su “Paragone” – LONGHI (1952) – dove lo storico dell’arte, con anticipo sui tempi, riconosce l’operazione critica dell’editore Albert Skira che aveva contribuito ad estendere l’inventario delle riproduzioni a colori “anche alla produzione corrente, di massa”. Cfr. LONGHI (1952), p. 4; TORCELLINI (2010). Si veda Bernard Berenson Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva, la cui lettura andrebbe riattualizzata. Cfr. BERENSON (1948). L’argomento è affrontato anche da VALERI (1997b), pp. 219-220. Come dimostra lo studio di Torcellini, il colore nell’arte riuscì ad aprirsi un varco solamente in certa stampa illustrata come in “Emporium” enelle edizioni de “I maestri del colore”. Cfr. TORCELLINI (2009). Nel suo editoriale Longhi cita anche le tavole a colori degli editori Römmler di Dresda, “con i quali l’Istituto d’Arti Grafiche di Bergamo stipulò presto accordi per l’edizione italiana delle tavole a colori. […]” Longhi ricorderà poi le iniziative di Pizzi, Alinari, Bompiani, Belli, “e, per l’arte moderna, le tavole staccate del Ghiringhelli, all’insegna del “Milione”; mentre all’estero subito risaltano i numeri speciali di “Verve”, e dei “Cahiers d’art”, gli album della Casa Iris di Zurigo, Abrams in America”. Nel secondo dopoguerra con l’attività editoriale di Albert Skira, Valentino Bompiani, e con le iniziative dell’UNESCO cui ci siamo riferiti in un precedente passaggio dello studio. Cfr. TORCELLINI (2009), TORCELLINI (2010).

DRAGONE (1978), p. 10. 637

restituito documentazione che accertasse il controllo da vicino dei professionisti fotografi da parte per esempio di un Pallucchini piuttosto che di un Apollonio: la sorveglianza del servizio fotografico solitamente veniva delegata agli addetti dell’archivio, come nel caso di Antonio Gnan. Per questa ragione il ruolo di storici, critici e funzionari come Pallucchini, Apollonio, Zorzi e Dorigo, si riscontra nelle tappe successive della vita dell’oggetto fotografico: nella scelta delle opere d’arte da fotografare – accertata dallo scavo archivistico – che spettava al segretario generale; nelle successive fasi di “selezione” e “uso” della fotografia d’arte per la compilazione dei cataloghi; nelle scelte delle fotografie operata da Apollonio, Zorzi e Dorigo per la rivista della Biennale che, rispetto all’oggetto catalogo, vedremo contraddistinguersi per l’uso sperimentale del mezzo.

Per garantirsi il continuo monitoraggio del lavoro fotografico, la Biennale si era sempre rivolta a ditte fotografiche operanti nella Città di Venezia con cui l’Ente, previo bando di gara, stipulava contratti di collaborazione per l’esecuzione delle riprese delle opere esposte in mostra. Una bozza di gara per l’aggiudicazione dell’incarico fotografico della XXVII Biennale, datata 4 gennaio 1954, si offre quale importante testimonianza della fase di scelta delle opere da fotografare da parte del segretario generale. I fotografi (in questo caso le ditte Ferruzzi, Giacomelli, Interfoto e A.F.I ) 638

erano invitati a presentare la propria offerta per la concessione, nel rispetto delle condizioni tecniche espressione della volontà dall’Ente. Come si evince dal documento qui sotto riportato, la Biennale si garantiva, da parte delle ditte appaltatrici, la fornitura di un alto numero di negativi per avere sempre a disposizione tutte le fotografie che si riferivano all’attività dell’Ente e per fare fronte alle richieste dei giornalisti, dei critici, in concomitanza all’inaugurazione della Mostra:

“[…] verrà fatta almeno due Ditte, della esecuzione dei negativi e riproduzioni fotografiche delle opere d’arte […]

L’offerta deve rispondere a quanto segue:

A) Esecuzione, a spese della Ditta, di cento negativi formato formato 13x18 di opere d’arte scelte dal Segretario Generale;

B) prezzo di ogni copia fotografica tratta dai suddetti negativi 13x18 e prezzo di ogni ingrandimento formato 18x24, tenendo presente che la Biennale ne acquisterà, da ognuna delle due Ditte, almeno duemila copie nel formato 13x18 e duecento copie di ingrandimenti 18x24;

L’Agenzia Fotografica Industriale - Nuova Editoriale di Venezia era molto nota nelle redazioni della stampa 638

internazionale. Nello scavo d’archivio ho rinvenuto una lettera dell’Amministratore Unico della A.F.I. che il 17 giugno 1952, si rivolgeva alla Presidenza della Biennale con l’intenzione di sensibilizzare l’Ente ai progressi della fotografica a colori: “una Rassegna d’Arte della importanza della Biennale non può ormai prescindere dai progressi delle foto a colori e non potrebbe né meno ignorare che nella nostra città, fino a questo momento, è l’unico il Ns. Laboratorio per lo sviluppo del diapositivo Kodak, nonché per la stampa del medesimo su carta, sempre con procedimento Kodak.” Lettera dell’Amministratore Unico A.F.I. indirizzata alla Presidenza della Biennale, Venezia, 17 giugno 1952, in ASAC, Fondo Storico, uffici, Ufficio Amministrazione, Atti con titolario, serie 3.5.1.1, Esposizioni internazionali d’Arte, busta 2. Si apprende da un successivo documento che A.F.I. era dotata di un “laboratorio speciale per le riproduzioni a colori non soltanto relative ai trasparenti, ma anche alle stampe dei medesimi col sistema Ektachrome.” Lettera della A.F.I. a Giovanni Ponti, Venezia, 1 febbraio 1952, in ASAC, Fondo Storico, uffici, Ufficio Amministrazione, Atti con titolario, serie 3.5.1.1, Esposizioni internazionali d’Arte, busta 2. L’Agenzia Fotografica Internazionale con filiali a Roma Venezia e Torino offriva il più completo notiziario fotografico per la stampa. A.F.I. era corrispondente con laboratori specializzati nelle principali città italiane e in tutti i paesi del mondo. Specializzata in giornalismo fotografico, offriva servizi di radiofoto e telefoto.

C) prezzo di ogni negativo ordinato oltre i cento di cui la lettera A), tenendo conto che a ciascuna delle due Ditte viene assicurata una ordinazione di negativi non inferiore a 150 (centocinquanta); D) prezzo di ogni copia fotografica tratta dai negativi di cui sopra (lettera C) pel formato 13x18 e

ingrandimento 18x24,

E) prezzo di ogni negativo e di ogni fotografia ordinati dai Commissari Esteri e dagli Artisti, sia italiani che esteri, per i formati: negativo 13x18; negativo 18x24; fotografia 13x18; fotografia 18x24.

Come di consuetudine, tutti i negativi resteranno di esclusiva proprietà della Biennale, con l’obbligo da parte di essa di valersi, per le riproduzioni fotografiche della Ditta che li ha eseguiti, I negativi dovranno essere consegnati alla Biennale entro tre mesi dalla data di chiusura della XXVII Biennale. Per le fotografie di opere d’arte che figureranno nelle Mostre retrospettive e personali di cui la Biennale possiede i negativi in quanto vennero eseguiti allorché le stesse furono esposte la prima volta in precedenti Mostre, le copie fotografiche verranno tratte dai negativi esistenti nella fototeca della Biennale, a cura della Ditta che ebbe ad eseguirli, al medesimo prezzo che verrà stabilito per le fotografie tratte dai negativi di quest’anno. […]” 639

Tornando alle modalità di esecuzione della fotografia, va aggiunto che tale consuetudine stilistica fa parte di quella che Beaumont Newhall definiva le “alternative” del fotografo delle opere d’arte: concetto espresso da Newhall in relazione al lavoro dello storico dell’arte e fotografo Clarence Kennedy:

“[…] The photographer of any work of art has several alternatives. He may attempt to photograph in an objective way, in the belief that by so doing he is letting the work of art speak for itself. […]” 640

Il persistere di questo “codice visivo” si manifesta anche tra fotografi ufficiali della rassegna d’arte veneziana parallelamente al diffondersi progressivo, nella cultura fotografica di allora, di quel margine di autonomia di visione che sarà rivendicato con forza, come specificità creativa, dagli

Bozza di gara per l’esecuzione di negativi e riproduzioni fotografiche, Venezia, 4 gennaio 1954, in ASAC, Fondo 639

Storico, uffici, Ufficio Amministrazione, Atti con titolario, serie 3.5.1.1, Esposizioni internazionali d’Arte, busta 4. “[…] Il fotografo delle opere d’arte ha diverse alternative. Si può tentare di fotografare in modo oggettivo, nella 640

convinzione che così facendo si sta lasciando l’opera d’arte parlare da sé […]” (traduzione mia). Cfr. NEWHALL (1967), p. 12. Su Clarence Kennedy si veda il saggio di BECK LEMKE (2011) e le testimonianze dirette del modernista sulla fotografia delle opere d’arte. Tra tutte: Photographing Art, cfr. KENNEDY (1937), Sculpture Photography. The

Complete Photographer, cfr. KENNEDY (1943), Photographing Sculpture, Encyclopedia of Photography, cfr.

autori-fotografi a testimonianza della possibilità di costruire un’immagine pubblica dell’arte, ma fuori dal circuito ufficiale della rassegna. 641

Basta sfogliare gli apparati illustrativi dei cataloghi della Biennale per rendersi conto che la formula adoperata per la loro compilazione rimane pressoché invariata, anche dal punto di vista del piccolo formato (cm 11 x 15), dalla prima edizione (1895) sino al catalogo della mostra del 1960. Un cambiamento di strategia nell’articolazione dell’immagine si riscontrerà solamente a partire dall’edizione del catalogo dedicato alla Mostra del 1962 firmato nel progetto grafico, d’intesa con Umbro Apollonio, da Massimo Vignelli. 642

Le continue esigenze di cassa che imponevano l’aggiudicazione dell’incarico in base all’offerta più bassa presentata dagli operatori e, in secondo luogo, l’orizzonte di riferimento “localistico” che vincolava l’Ente alla stipula di contratti esclusivi con ditte veneziane (sia per quanto concerneva l’assegnazione dell’incarico fotografico che per la licitazione della stampa del catalogo), 643

costrinsero gli organizzatori a ridimensionare l’ambizione verso un prodotto che comunque, anche

Sulla fotografia d’arte come “pensiero critico” del fotografo che “interpreta” l’opera e, quando dimostrato, ne 641

anticipa la verbalizzazione scritta, non si può non pensare alla pregnanza delle fotografie d’arte di Ugo Mulas. La sua figura s’intreccia alla storia della Biennale, ma esula dai tracciati di questo studio. La ricerca d’archivio condotta in questi anni, naturalmente limitata – nell’affondo – ad alcune serie archivistiche del Fondo Storico dell’ASAC, non ha restituito documentazione contrattualistica che probasse commesse al fotografo da parte dell’Ente veneziano. Nelle carte d’archivio, ho rinvenuto il nome di Mulas nell’elenco degli accrediti stampa per conto de “L’Espresso”, in occasione della vernice della XXXII Biennale d’arte del 1964. Tale testimonianza ci induce ad ipotizzare che i saggi fotografici di Mulas in Biennale (dal 1954 al 1970) fossero condotti in autonomia o commissionatigli, di volta in volta, dalle diverse testate giornalistiche per le quali lavorava. La prima ipotesi è rinforzata anche dalle disposizioni con cui la Biennale di Venezia regolava il servizio di ripresa fotografica delle opere d’arte e il divieto di realizzare dette assunzioni senza l’autorizzazione scritta dell’Ufficio amministrativo dell’Ente, nonché il severo controllo di accrediti cui la stampa veniva sottoposta. ASAC, Fondo Storico, uffici, serie Ufficio Stampa, Esposizioni internazionali d’arte e festival internazionali d’arte cinematografica, busta 82, fascicolo “XXXII Biennale. Elenco degli invitati e accreditati della stampa italiana alla XXXII Biennale di Venezia.” Essendo il documento fuori dalla cronologia d’indagine si omette la sua considerazione all’interno dell’apparato documentario di questa tesi. Su Mulas cito solamente New York, Arte e

persone, cfr. MULAS (1967), QUINTAVALLE (1973), LA BIENNALE DI VENEZIA (1974), LUCAS-AGLIANI

(2008), SERGIO (2011), GRAZIOLI (2010), RUSSO (2011): La fotografia come critica. «New York: arte e persone», pp. 357-358.

Per un approfondimento degli aspetti concernenti i rapporti tra l’Ente Autonomo La Biennale e alcuni grafici, 642

rimando al saggio di TONICELLO (2010).

Sfogliando i cataloghi della rassegna si riscontra sovente, tra le referenze fotografiche, il nome dei fotografi 643

Giacomelli, Ferruzzi e Fiorentini. I rapporti di collaborazione erano regolati da contratti che venivano stabiliti sulla base di gare d’appalto. L’aggiudicazione dell’incarico andava sovente a chi presentava l’offerta più conveniente. I contratti con i fotografi venivano stipulati con diversi mesi d’anticipo sull’inizio della rassegna e le riprese fotografiche venivano eseguite all’arrivo delle opere nei vari padiglioni, in concomitanza ai lavori di allestimento della mostra d’arte. Il 1948 rappresenta un’eccezione anche solo dal punto di vista delle fotografie allestite nel catalogo. Tra le referenze fotografiche si ritrovano i nomi di: A.F.I. (Agenzia Fotografica Internazionale), Venezia; Chevalier, Parigi; Como, Roma; Ferruzzi, Venezia; Fiorentini, Venezia; Gauthier, Parigi; Giacomelli, Venezia; Interfoto, Venezia; Jaap d’Oliveira, Amsterdam; Mari, Milano; Perotti, Milano; Petersen, Copenhagen; Raggi, Routhier, Parigi; Santini-Staub, Vienna; Sudek, Praga, Vizzavona, Parigi. Nel 1950 l’esecuzione della ripresa fotografica delle opere d’arte venne affidata per il Padiglione Centrale a Giacomelli, mentre Interfoto curava la parte dei padiglioni stranieri; nel 1952: Ferruzzi, Giacomelli; nel 1956: A.F.I. e Giacomelli; nel 1958: Ferruzzi, Giacomelli; nel 1960: De Donà, Colorphotos, Giacomelli.

solo ad una lettura come oggetto della cultura materiale, quindi del rapporto con le tecnologie messe in opera, rimane pur sempre espressione significativa di un gusto per la composizione grafica.

2.2 Il “posto” della fotografia d’arte

Nell’impiego della fotografia d’arte, ai cataloghi della rassegna faceva da contraltare la rivista illustrata che fu, proprio nell’uso dell’immagine, rispetto ai tradizionali prodotti della pubblicistica della Biennale, uno strumento di affermazione ed “evasione” progettuale. L’occasione redazionale fu formidabile, senza precedenti nella storia dell’Ente: quasi cinquecento firme di collaboratori tra i quali figurano eminenti storici, critici delle arti e artisti, duecentotredici nomi di fotografi, ditte fotografiche ed istituzioni coinvolte dalla redazione nell’invio di fotografie , quasi quaranta artisti 644

chiamati a realizzare altrettante copertine. Segno di un’avvertita attenzione nei confronti della fotografia e del suo statuto, i nomi dei fotografi vengono riportati (come avveniva in molta stampa illustrata di settore, ma anche nei rotocalchi illustrati del tempo) a lato delle riproduzioni